martedì 19 febbraio 2019

Risposta al Gruppo di Firenze


(Una discussione col "Gruppo di Firenze", a proposito della scuola M.B.)
          


  Il ‘GRUPPO DI FIRENZE per la scuola del merito e della responsabilità’ ha avanzato per le scuole superiori la proposta di sostituire l’organizzazione in classi con quella, tratta dal modello finlandese, in corsi disciplinari, così che  lo studente ripeta solo quei corsi di cui non abbia superato l’esame
            Nella maggior parte degli interventi delle persone interpellate sulla proposta, ancor più nei resoconti giornalistici, si osserva una diffusa incapacità di scorgere che la proposta nasce dalla constatazione allarmante che molti voti insufficienti sono spinti truffaldinamente alla sufficienza soltanto perché i consigli di classe tremano di fronte alla misura draconiana di far ripetere l’anno scolastico, nasce cioè dalla preoccupazione di restituire serietà all’istruzione. La diffusa incomprensione del vero intento della proposta annuncia il pericolo che la sua attuazione possa andare nel senso opposto a quello per cui era stata avanzata, verso cioè un ulteriore svuotamento dell’istruzione pubblica – per quanto ormai sia difficile immaginare come si possa fare peggio.
            Qualunque siano i vantaggi e gli svantaggi della proposta, l’intento del Gruppo di Firenze può stimolare un dibattito da cui emerga come lo sfascio della scuola attuale, che della “vecchia” scuola ha ormai spento persino il ricordo, risulti non dalla mancata o parziale realizzazione della riforma dell’autonomia, ma dal suo pieno successo. L’autonomia scolastica ha distrutto l’istruzione, e non poteva non distruggerla, perché, avendo imposto alle scuole una concorrenza per cui sono migliori quelle che si procacciano più iscritti, è fatale che l’imperativo categorico di aumentare i clienti le porti a disperdere le energie in una pletora di attività pubblicitarie prive di ricaduta didattica e alla pratica di remunerare con la mera parvenza del successo scolastico ogni alunno, qualunque siano i risultati effettivi del suo percorso.
            Ne segue che nessuna iniziativa di miglioramento dell’istruzione in Italia può avere successo se prima le scuole non sono liberate dall’ansia delle iscrizioni indotta dalla riforma dell’autonomia.
            1. Impostato secondo la preoccupazione del Gruppo di Firenze, il dibattito potrebbe focalizzare la necessità di restituire all’istruzione il suo carattere etico, per cui l’insegnante non è un manipolatore delle psiche che con un repertorio di astuzie ‘tecnologiche’ crei motivazioni e modifichi comportamenti, ma è un depositario di scienza che, appellandosi al senso del dovere del discente, lo fa lavorare: gli prescrive una meta, lo aiuta con le spiegazioni e con il dosaggio progressivo delle difficoltà di memorizzazione e di esercitazione, ne corregge le prove e le valuta. La differenza tra il primo atteggiamento e il secondo può forse essere resa intuitiva con una similitudine tratta dalla medicina: alcune terapie, per esempio quelle chirurgiche, implicano l’anestesia del paziente, altre, per esempio le diete, il suo impegno. L’insegnamento è simile non alla chirurgia, ma alla dietetica: esige la docilità del discente, la sua tenacia, la sua volontà di dotarsi dell’habitus scientifico. Il principio della scuola attuale è invece simile a quello dell’operazione in anestesia totale; da una parte, infatti, come i chirurghi rispetto all’eventuale fallimento dell’operazione, così gli insegnanti sono oggi ritenuti i soli responsabili dell’insuccesso dei loro alunni, con il risultato di essere spinti a rinunciare alla valutazione imparziale per evitare ogni rischio; dall’altra, il privilegio riservato alla progettualità e all’innovazione rispetto al lavoro di routine dipende dal falso ideale dell’imparare involontariamente, che riduce la didattica ai contenuti acquisibili per gioco – di fatto solo a quelli afferenti alla socializzazione.
            Dal dibattito potrebbe emergere il contrasto tra programmazione e programma. La prima è la forma tecnica della degenerazione psicologistica della scuola; anziché infatti esigere dall’alunno lo sforzo di raggiungere una meta definita ufficialmente, la programmazione costruisce un percorso che, preoccupato soprattutto di adattarsi alle esigenze dell’alunno, si concentra sulle condizioni di partenza, costruisce un castello di carta di obiettivi intermedi, e dimentica il raggiungimento della meta, la cui definizione è così diventata prerogativa, se non de iure almeno de facto, dei singoli istituti. Inoltre, con il suo accento sulle condizioni d’inizio, la programmazione ha non solo infarcito di ipocrita burocrazia il lavoro didattico, ma ha spinto le scuole a un collegamento con il territorio che ha certo senso per gli istituti professionali e in parte per quelli tecnici, ma è del tutto assurdo per la scuola di base (in tutte le scuole elementari e medie si impara l’italiano senza inflessione locale e la matematica di Euclide) e per i licei.
            I programmi – gli obiettivi da raggiungere – devono dunque tornare il centro della didattica: deve esserci una definizione pubblica dei risultati minimi e inderogabili di conoscenza e competenza in tutte le scuole italiane; il loro raggiungimento deve essere il primo compito della scuola, a cui sono subordinate tutte le altre esigenze, deve pertanto essere verificato con rigore innanzitutto dalla scuola, in secondo luogo da ispettori; i modi del loro raggiungimento devono essere restituiti alla competenza e alla creatività degli insegnanti.
            2. Solo a questo punto può essere affrontato il problema della valutazione e della ripetenza con meno rischi che le novità proposte possano essere un contributo al degrado. È probabile che l’attuale meccanismo della ripetenza sia un’eredità della scuola gentiliana che mirava innanzitutto alla selezione e solo secondariamente all’istruzione. Per una scuola che deve portare tutti i giovani almeno al possesso delle competenze essenziali e deve valorizzare le capacità di lavoro di chi può raggiungere alti obiettivi, può porsi il compito non solo di restituire rigore alla valutazione dei risultati ma anche quello di separare parzialmente l’insufficienza del profitto dalla ripetenza dell’anno, per ricorrervi solo se questa sia uno strumento necessario alla crescita dell’alunno.
            Per restituire rigore alla valutazione occorrerebbe innanzitutto semplificarla: i decimi, ma ancor più i quindicesimi, per tacere dei trentacinquesimi, sono la premessa di valutazioni insincere; introdurre i sesti (1 = risultato nullo; 2 = scarso; 3 = insicuro; 4 = sufficiente; 5 = buono; 6 = eccellente) potrebbe essere un incentivo a utilizzare tutti gli estremi della scala e a rilevare l’essenziale senza perdersi nelle finezze docimologiche – del tutto estranee all’ambito didattico.
            In secondo luogo potrebbe essere opportuno promuovere alla classe successiva anche chi presenti insufficienze in materie non fondamentali (quelle fondamentali sono ovviamente italiano e matematica) e non di indirizzo, con possibilità di recuperare queste materie nell’anno successivo, e, in caso di mancato recupero, di conseguire un diploma che precluda l’accesso a indirizzi in cui predominano le materie trascurate (per esempio chi al liceo classico non fosse sufficiente in scienze e fisica non potrebbe iscriversi a medicina; chi non lo fosse in storia e filosofia, non potrebbe iscriversi a giurisprudenza; chi non lo fosse in matematica e scienze dovrebbe rinunciare a ingegneria). Un analogo discorso si potrebbe fare per il passaggio dalle medie alle scuole superiori. Infine, nel primo anno di scuola superiore il cambiamento di istituto potrebbe sostituire una ripetenza per scarso profitto nelle materie di indirizzo.
            Queste come altre proposte presentano i loro inconvenienti e al momento della loro attuazione possono dare adito a comportamenti opportunistici tali da snaturarle; è anzi inevitabile che ciò accada se prima delle novità nella meccanica delle valutazioni e delle ripetenze non si sia consumato il distacco dal principio dell’autonomia e se non si voglia sinceramente resuscitare la scuola pubblica italiana. Di qui l’importanza di avviare, prima di ogni iniziativa e come premessa di scelte radicali, un dibattito spregiudicato su ciò che è accaduto nella scuola italiana negli ultimi venti anni e sul suo stato attuale.


            Marino Badiale – Università di Torino
            Fausto Di Biase – Università di Pescara
            Paolo Di Remigio – Liceo Classico di Teramo
            Lorella Pistocchi – Scuola Media di Villa Vomano

mercoledì 6 febbraio 2019

Continuando una discussione

(Rispondo all'intervento di Domenico Lombardini, che a sua volta rispondeva a questo. Su temi affini c'è anche un intervento di Paolo Di Remigio. M.B.)



Caro Domenico,
grazie innanzitutto per il tuo intervento. Il fatto che quello che scrivo stimoli qualcuno a esporre riflessioni come le tue mi fa pensare che scrivere possa avere qualche utilità. Provo a rispondere alle tue osservazioni. Come puoi immaginare, non sono d’accordo con le tue conclusioni. Credo però che ci sia una larga base di consenso fra di noi, e voglio iniziare cercando di esplicitarla: mi sembra che siamo d’accordo sul fatto di mettere da parte ogni prospettiva messianica di creazione sulla terra del regno della perfetta giustizia, che si chiami comunismo o altro; siamo inoltre d’accordo sul fatto che occorre concentrarsi sul tentativo di miglioramento concreto della condizione degli esseri umani. Non ha senso proporsi la giustizia compiuta e finale, ma ha senso cercare di rendere il mondo più giusto possibile, compatibilmente con le nostre forze e in generale con le condizioni oggettive. Mi sembra che questa base di accordo, se non ho sbagliato la mia valutazione, sia la cosa più importante. Il dissenso riguarda il fatto che tu ritieni che questa base di accordo possa o debba essere fondata in un senso al di là del mondo. La critica principale che posso fare alla tua posizione è che essa mi sembra intimamente contraddittoria. Tu citi il Wittgenstein del Tractatus, ed è facile gioco ricordarti la sua chiusura: su ciò di cui non si può parlare si deve tacere. È questa l’unica conclusione coerente con le tue (e sue) premesse. Se il senso del mondo è così drasticamente fuori del mondo, non è possibile parlarne, e soprattutto non è possibile fondare su di esso alcunché. Non è possibile affermare che “individuare e collocare il senso fuori dal mondo sia la soluzione ai nostri mali”. Nel momento in cui affermi questo, stai riportando l’oggetto del tuo discorso (il senso, Dio) nel mondo. Ti stai contraddicendo. La contraddizione, mi sembra, nasce dal fatto che non guardi quello che stai facendo: tu stai dicendo che occorre una trascendenza per fondare quel po’ di giustizia e di senso che è possibile nella nostra vita. Ma questo significa che il tuo punto di partenza è la giustizia e il senso che tu vuoi fondare, e la trascendenza è solo uno strumento per questo. Ma allora è la trascendenza che è fondata sulla giustizia che tu trovi dentro di te, non viceversa. Ed essendo fondata su ciò che tu trovi dentro di te, e proiettata come universale senza nessuna opera di mediazione, perde quella universalità che vorresti attribuirle.
In conclusione, la mia proposta è semplicemente di partire da ciò da cui entrambi effettivamente partiamo, cioè dal senso di giustizia che troviamo dentro di noi, e che ci arriva da una storia personale e collettiva. È questo che abbiamo. Proiettare tutto ciò nel cielo di una trascendenza assoluta mi pare non sia di nessun aiuto. Potresti naturalmente obiettare che senza un fondamento trascendente la mia posizione cade nel nichilismo. Io non lo credo, e ritengo che la storia della filosofia occidentale, da Platone a Hegel, sia una risposta a questa obiezione. Ma sviluppare questa idea significa iniziare un’altra discussione, che forse possiamo fare di persona.

  

sabato 2 febbraio 2019

"Un progetto concepito male"

[nota tecnica: grazie alla segnalazione di un amico, mi sono reso conto che nei mesi scorsi sono andati persi dei commenti. Mi scuso con chi non ha visto pubblicato il proprio commento, per il futuro il problema dovrebbe essere risolto. M.B.]


Ancora un articolo di Ashoka Mody. La versione originale risale a qualche mese fa, ma vale la pena di leggerlo.


http://vocidallestero.it/2019/02/02/leurozona-sta-attraversando-una-crisi-di-identita-e-litalia-ne-sosterra-il-peso/