sabato 27 giugno 2015

Scuola, concorrenza, meritocrazia

Ripubblico un intervento di Bontempelli del 2010, che era stato pubblicato su vari siti, per esempio qui. Si trattava della risposta ad un articolo di Michele Boldrin, pubblicato sul "Fatto Quotidiano" il 25 settembre di quell'anno. Al di là della polemica contingente, mi sembra interessante rileggere, in questa versione molto sintetica, le critiche di Massimo al pensiero liberista dominante. Approfitto inoltre per precisare che l'articolo, comparso anche con la mia firma, è interamente dovuto a Massimo, che mi aveva chiesto di sottoscriverlo pensando che una firma in più aumentasse le probabilità di pubblicazione sul "Fatto", dove l'avevamo inviato come lettera.
(M.B.)




Scuola, concorrenza, meritocrazia
Massimo Bontempelli


Dissentiamo con forza dal contenuto degli articoli di Michele Boldrin che vengono pubblicati, con una certa regolarità, sul “Fatto quotidiano”. Si tratta infatti, con tutta evidenza, di un signore allevato in quell'area conformista dell'accademia anglosassone, in cui si scambiano per realtà alcune astrazioni matematiche tratte dagli aspetti più superficiali del funzionamento dei mercati, e si scambiano per conoscenza saperi che hanno per oggetto segmenti isolati ed astratti della realtà. I risvolti storici, sociologici, di vita concreta e persino macroeconomici, delle questioni affrontate sono completamente ignorati. C'è poi negli articoli di Boldrin la presunzione di poter parlare ex cathedra di cose non conosciute, ma di cui si crede di avere un sapere esaustivo perché lo si è tratto dall'accademia.
Ci limitiamo qui a discutere quanto Boldrin ha detto sul problema della scuola nell'articolo sopra citato. I suoi ragionamenti su merito e concorrenza non sono solo ridicoli, ma anche eticamente riprovevoli. Dice infatti Boldrin che la concorrenza, mediante il mercato, è una gara sempre aperta, in cui anche se si è perso si può continuare a concorrere perché le gare aperte si susseguono continuamente, ed in ciascuna solo chi arriva ultimo è perdente, perché tutti gli altri, anche se non sono primi, ci guadagnano qualcosa. Peccato che gli operai di Pomigliano non leggano questi articoli, perché altrimenti capirebbero che, anziché resistere allo schiavismo di Marchionne, potrebbero mettersi a competere con lui e tra loro nella produzione di automobili, per la quale hanno tutte le competenze. L'articolo sembra ignorare il fatto che la possibilità di concorrere nel mercato presuppone quasi sempre risorse di vario tipo che si traggono dalla famiglia e dall'ambiente da cui si proviene. Non tener conto di questo è eticamente riprovevole perché significa colpevolizzare i perdenti nel mercato, inducendo loro l'idea falsissima che hanno perduto perché non sono stati abbastanza capaci. Viene ignorato anche l'altro fatto che la concorrenza produce sempre più beni inutili o addirittura nocivi, e distorce un sano orientamento psicologico delle persone. Come è stato detto, anche nei casi in cui produce le merci migliori, produce gli uomini peggiori. Certo, gli acuti economisti educati a una certa scuola anglosassone quando vedono le distorsioni prodotte dalla concorrenza dicono che quella non è la vera concorrenza, esattamente come alcuni comunisti disposti a riconoscere le malefatte dell'Unione Sovietica dicevano che quello non era il vero comunismo. Peccato che la concorrenza cosiddetta pura che si trova nei manuali dei cantori del cosiddetto libero mercato, a partire dal lontano Walras, proprio come il vero comunismo sognato dai comunisti utopici, non sia mai esistita nella storia. Nessun Boldrin che sapesse la storia potrebbe citare una sola regione del mondo di un solo tempo storico in cui sia esistita la concorrenza pura. La concorrenza concretamente esistente non è mai stata l'asettica concorrenza su costi e prezzi di cui parlano i corifei del cosiddetto libero mercato, ma è sempre stata condotta con tutti i mezzi, legali o illegali, disponibili nella società in cui si è svolta, tanto è vero che è stato anche proposto da diversi autori di modificate l'espressione «libero mercato» con quella più esatta di «mercato deregolamentato». Se non si viene da un altro pianeta, quando si parla della concorrenza, bisogna tener conto di quella realmente esistente. Nell'articolo sulla scuola, Boldrin, parlando della formazione che la scuola dovrebbe dare, non ha menzionato né l'educazione alla cittadinanza, né la conoscenza razionale della realtà storica in cui si vive, né la trasmissione da una generazione all'altra di fondamentali valori collettivi, cioè ha eliminato tutto l'essenziale, per ripiegare su un'angusta concezione pragmatica del sapere tipicamente anglosassone. Ha poi detto, scadendo nel ridicolo, che il successo formativo di una scuola può essere misurato, e che gli elementi che lo misurano sono le prove positive nei test standardizzati delle scuole successive e il successo poi ottenuto nei percorsi della vita. Quanto ai test, Boldrin ignora evidentemente la montagna di critiche che sono state argomentativamente rivolte al sistema dei test. Quanto al successo, dalla sua tesi si potrebbe dedurre che le migliori scuole italiane del dopoguerra erano quelle dei Salesiani frequentate da Silvio Berlusconi, il quale, come è noto, è l'uomo che ha avuto il massimo successo in Italia sia come imprenditore che come politico (e si potrebbero fare molti altri esempi simili). Anche sotto questo aspetto si può vedere come certe tesi, al di là della loro vacuità conoscitiva, siano anche eticamente riprovevoli. Infine, viene auspicato, come mezzo per migliorare l'istruzione, l'affidamento delle scuole a cooperative di insegnanti. Un'idea simile emerse in Italia, come è noto, all'indomani della legge Bassanini del 15 marzo 1997, il cui articolo 21 sembrava lasciare spazio anche ad una evoluzione verso un esito di tale tipo. Furono portate allora argomentazioni di ordine sociologico che dimostravano come una simile soluzione avrebbe avuto esiti profondamente negativi sulla trasmissione culturale nelle scuole, argomenti di cui il lettore dell'articolo è tenuto totalmente all'oscuro, e su cui pure esistono diversi buoni libri pubblicati negli ultimi anni del secolo scorso.
L'articolo di Boldrin mostra, una volta di più, come l'ideologismo neoliberista non abbia contatti con la realtà concreta. E non è affatto un caso, tra l'altro, che nessuno degli economisti neoliberisti, anglosassoni e non, abbia previsto la crisi mondiale, di cui avevano invece visto tutti i prodromi alcuni economisti meno ideologizzati. Per dei sostenitori di una concezione pragmatica del sapere non c'è male!







mercoledì 24 giugno 2015

Per la rinascita del sistema nazionale della pubblica istruzione

Ripubblichiamo un articolo di Bontempelli sulla crisi della scuola italiana. Apparve originariamente nella rivista "Indipendenza" (n.24, nuova serie, luglio/agosto 2008) ed è stato ripubblicato nel volume "Un pensiero presente", del quale abbiamo già parlato, che raccoglie tutti gli interventi di Massimo nella rivista. Ci sembra un testo ancora perfettamente attuale.
(M.B.)





Per la rinascita del sistema nazionale della pubblica istruzione

Massimo Bontempelli

Succede talvolta nella storia che corpose realtà cariche di importanza e significato per la società umana ad un certo momento rimangano soltanto intelaiature vuote, ingombranti simulacri di una sostanza svanita. Ad esempio, l’Impero Romano d’Occidente al tempo degli imperatori ravennati non era altro che la sopravvissuta facciata esteriore di una organizzazione storica ormai disgregata e ridotta allo stato larvale. Allo stesso modo oggi il sistema nazionale della pubblica istruzione ha la stessa realtà di quei palazzi che durante la guerra erano stati sventrati dalle bombe, e che sembravano ancora esistenti soltanto lungo quei tratti di strada da cui se ne vedeva il muro di facciata rimasto in piedi, senza vedere quel che ci stava dietro. La scuola italiana oggi è così. È una facciata di elementi di vita scolastica che si riproducono per lo più per inerzia, con qualche aspetto e momento isolatamente ancora valido, ma con una sostanza educativa crollata sotto le bombe di dinamiche sociali diseducatrici lasciate incontrollatamente operare, e di innovazioni ministeriali particolarmente devastanti a partire dal 1996. Tutto questo ha una tragicità su cui ci si sofferma troppo poco, perché la fine del sistema nazionale delle pubblica istruzione significa –anche per la crisi di altra agenzie educative, a cominciare dalla famiglia- che non c’è più trasmissione di saperi e valori da una generazione all’altra, che è recisa la memoria storica, e quindi la capacità di comprensione politica, e che i giovani si affacciano alla vita adulta privi di strumenti di decodificazione del funzionamento effettivo del mondo in cui vivono.
Proviamo ad esporre, di questa catastrofe di civiltà, prima la fenomenologia, poi l’eziologia storica, infine i modi più sensati ed adeguati di reagirvi.
La fenomenologia della morte della scuola è molto chiara, e per vederla bastano sguardi non instupiditi su ciò che vi accade riguardo al comportamento degli studenti e a quello degli insegnanti, ai programmi di studio, ai libri su cui si studia, ai metodi di valutazione, agli ambienti.
Il comportamento degli studenti è in larga percentuale descolarizzato. In alcuni tipi di scuola, in alcune fasce d’età ed in alcune zone del paese sono molto frequenti situazioni di indisciplina tale, talvolta persino da codice penale, da rendere qualsiasi insegnamento materialmente impossibile. In molti altri casi le situazioni non sono di gravità così estrema, ma la mancanza diffusa di attenzione, del giusto silenzio, della puntualità e dello studio a casa frappone ostacoli egualmente spesso insuperabili all’insegnamento. Sono pochi, e concentrati soprattutto nei licei, i casi in cui gli studenti sono disciplinati in classe e studiano a casa, ma anche in questi casi non mancano seri problemi, che riguardano essenzialmente la motivazione allo studio, talvolta, e sembra un paradosso, molto carente anche in presenza di una disciplina impeccabile e di molte ore passate sui libri.

domenica 21 giugno 2015

Un appello da Brindisi


Oltre alla lettera aperta a Renzi che abbiamo pubblicato giovedì, Elena Maria Fabrizio ci ha fatto cortesemente pervenire un appello contro il DDL scuola, espresso dall'assemblea dei lavoratori del suo Liceo. Lo pubblichiamo con piacere perché ci sembra un documento interessante del dibattito in corso.
(M.B.)



Appello per il ritiro del Ddl a salvaguardia della scuola pubblica, ugualitaria, laica e democratica

L’assemblea dei lavoratori del Liceo Scientifico Statale “Fermi-Monticelli” di Brindisi, riunitasi in data 29 maggio 2015, esprime il proprio deciso e motivato dissenso nei confronti del Ddl Scuola (stampato Camera n. 2994) attualmente in discussione al Senato.

L’assemblea rimarca innanzi tutto i fondamenti del vivere civile e democratico che impongono alla legge di essere sempre espressione del popolo sovrano; che tale sovranità si esprime tanto nel rispetto dei principi costituzionali, quanto nel rapporto sempre vivo tra il Parlamento che delibera e la sfera pubblica che avanza temi, contributi, ragioni e bisogni, ai quali il Parlamento non può rendersi pregiudizialmente impermeabile.
Sulla base del principio che la nostra Costituzione ci ha affidato una scuola pubblica, egualitaria, laica e democratica, l’opinione pubblica italiana (docenti, famiglie, alunni, associazioni, intellettuali, studiosi) si è mobilitata per affermare tutte le ragioni per le quali il Ddl non può considerarsi evoluta e giusta espressione di quel principio.
Il Ddl definisce una nuova riorganizzazione delle scuole nella direzione di un maggiore protagonismo dei dirigenti scolastici, ai quali sono attribuiti inspiegabili nuovi poteri tra i quali si segnalano:

il conferimento di incarichi triennali ai docenti inseriti negli ambiti territoriali (mercé chiamata diretta), la valorizzazione del merito dei docenti (art. 9, comma 1 e 2), la gestione dell’organico dell’autonomia assegnato (art. 1, comma 1 e 2, art. 2, comma 15, art. 7, comma 4, art. 8, comma 1, art. 9, comma 7, art. 10, comma 1);

la possibilità di utilizzare i docenti in classi di concorso diverse da quelle per le quali sono abilitati (art. 9, comma 2)

la scelta degli indirizzi a cui il Collegio dei docenti deve attenersi per l’elaborazione del Piano dell’offerta formativa (art. 2, comma 4: «Il piano è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico»)


Le norme indicate trascurano innanzi tutto un principio generale che richiama i fondamenti storici e costituzionali delle società democratiche secondo il quale i poteri, la cui natura è di tendere all’ingrandimento, hanno sempre bisogno di essere bilanciati e limitati per evitare la facile deriva autoritaria del loro esercizio. Nello specifico queste ed altre norme ad esse vincolanti vanno abolite per i seguenti motivi.

giovedì 18 giugno 2015

Una lettera a Renzi


Mi sembra meritevole di diffusione questa lettera aperta di Elena Maria Fabrizio a Matteo Renzi. La lettera è del 14 maggio ma non ha perso di attualità. Elena Maria Fabrizio insegna storia e filosofia nel Liceo Scientifico Fermi-Monticelli di Brindisi. Fa parte della redazione dell'interessante sito dialettica e filosofia.
(M.B.)






Gentile Presidente del Consiglio,

Lei e il Suo governo state portando noi docenti all’esasperazione; dovremmo pretendere un risarcimento per i danni materiali e morali conseguenti lo spreco di energie che abbiamo profuso in questi mesi. Abbiamo inserito le nostre critiche e proposte sulla piattaforma “Buona Scuola”, ci siamo riuniti in assemblee collegiali e sindacali dalle quali sono usciti documenti articolati, puntualmente inviati. Ciascuno di noi ha poi manifestato come poteva dissenso e proposte, della cui consistenza può rendersi conto consultando la sezione scuola della rivista Metro News. In Parlamento attende di essere discussa una legge di iniziativa popolare (Lip) che molti docenti hanno sottoscritto; è stata consegnata al Presidente della Repubblica Mattarella una petizione firmata da circa 80 mila cittadini, con la richiesta che il nodo spinoso del centralismo dirigenziale sia sottoposto al vaglio del dettato costituzionale. Abbiamo scioperato. Come vede c’è stata una pluralità di iniziative chiare, finalizzate a rimuovere o modificare l’assetto complessivo del Ddl.
Ora Lei, dopo l’emendazione del testo nella Commissione Cultura, che nella sostanza non accoglie le nostre richieste, ci chiede nuovamente di essere propositivi, attivandosi in una comunicazione ideologica e viziata dall’idea politica che vorrebbe inoculare nella scuola, tra l’altro perfettamente coerente con la precedente riforma Gelmini. Ogni volta che Lei scrive o comunica, come ha fatto ieri con la lettera e con il video, distorce la verità, quella che è scritta nel Vostro Ddl, ora alla discussione parlamentare.

1) È ideologica la Sua convinzione che la disoccupazione giovanile in Italia dipenda dalla scarsa alternanza scuola-lavoro e quindi dalla scarsa professionalità dei nostri giovani, e non dall’assenza di posti di lavoro. Il Ddl tra l’altro non spiega perché l’alternanza scuola-lavoro debba coinvolgere anche i Licei, cioè indirizzi di studi destinati allo sbocco universitario.

2) Ideologica e direi priva di spessore culturale, è l’idea che la dispersione scolastica possa essere risolta con l’alternanza scuola-lavoro, come a dire che tale angosciante problema possa essere spostato sul reclutamento della forza-lavoro. Si va così intenzionalmente a ignorare la matrice socio-economica di problemi come la scarsa alfabetizzazione e le difficoltà nell’apprendimento, spesso connessi alle diseguaglianze economico-sociali diffuse sul territorio italiano, che al contrario hanno bisogno di un programma di istruzione speciale che parta dalla scuola primaria e di un adeguato sostegno sociale. Perché se non si incide su questo fattore, la percentuale degli alunni con bisogni educativi speciali (Bes) non farà che aumentare.

3) Ideologica è la Sua idea di autonomia che affida ai Dirigenti la possibilità di scegliere i docenti da un Albo territoriale, di provvedere al Piano triennale dell’offerta formativa, di valutare i docenti, insieme a genitori e studenti. È una proposta antidemocratica che non accetteremo mai e di cui non si capiscono “apparentemente” le ragioni. Perché non lasciare questi compiti al Collegio dei docenti?

4) La chiamata diretta dei Dirigenti è inaccettabile perché mina l’autonomia dell’insegnamento. Come è possibile che non comprendiate questa elementare conseguenza? Vuole che le raccontiamo delle pressioni che alcuni Dirigenti, per le più svariate ragioni, esercitano sui docenti nel corso dell’anno scolastico e degli scrutini? Per le richieste spesso irragionevoli dei genitori, per scelte politiche, per dare un’immagine edulcorata della scuola o per la più nobile ragione di non perdere classi, che significherebbe perdere prestigio e anche docenti. Da tutto questo i docenti possono difendersi e resistere solo attraverso il sacrosanto principio dell’autonomia ed è irresponsabile da parte Vostra ignorare il valore altamente civico di questo principio.

5) Ideologica, poi, è l’autonomia della dotazione finanziaria, con la quale decidete che lo Stato possa abdicare alla sua funzione sociale ed economica e affidarsi ai privati per la gestione di un bene che è pubblico e tale deve rimanere, infliggendo così un ulteriore duro colpo al Welfare.

6) Ideologica è tutta la questione della valutazione dei docenti. L’incompetenza con la quale l’avete affrontata impone che essa venga subito cassata, per essere pensata e meditata con il contributo di esperti e del mondo della scuola. Da dove nasce il bisogno di valutare i docenti?
In questi mesi vi ho sentito esprimere pareri sui docenti inoperosi degni delle comari di Windsor. Invece di affidarvi a uno studio del fenomeno, vi siete limitati al pregiudizio che proviene dal sentito dire. Avete per caso istituito una commissione che abbia analizzato il problema e possa darvi contezza delle percentuali di docenti eventualmente “fannulloni”? Senza considerare che già esistono gli strumenti normativi per intervenire sulle piaghe dell’incompetenza e della pigrizia, che caratterizzano ogni settore della società. In ogni caso la valutazione non può in nessun modo essere associata alla “premialità”, essa ha senso solo se finalizzata al miglioramento della didattica e al perfezionamento del proprio patrimonio culturale, entro tale dimensione essa è incompatibile con il valore denaro.

7) E a questo proposito va detto che la prima cosa da fare è innanzi tutto adeguare i nostri stipendi alla dignità del nostro lavoro e alla sua funzione sociale, sulla base del principio che lo stipendio è il corrispettivo di una professione che si deve presupporre esercitata con dovere, responsabilità e rispetto delle regole. E invece voi trasportate il vostro sospetto che le cose non stiano così, il vostro pregiudizio soggettivo, in una norma che blocca gli scatti e gli adeguamenti stipendiali, per premiare i più bravi, secondo criteri oscuri, indeterminati e facilmente soggetti ad applicazioni arbitrarie.

8) Per inciso Le faccio notare che non esiste alcun nesso scientifico o automatico tra una scuola, come quella che viene rappresentata nel Ddl, ingorgata di attività, di iniziative, di progetti di ogni genere e tipo, e la qualità della formazione culturale sia degli alunni e sia dei docenti. Impegnati come saranno a organizzare di tutto e di più, i docenti non avranno affatto tempo per quell’aggiornamento obbligatorio che vi sta tanto a cuore. Aggiornamento, sia chiaro, che non prevede solo corsi e corsetti calati dall’alto, ma studio continuo, riflessione, adeguamento della didattica alle esigenze degli alunni, tutti ingredienti che richiedono tempo. Una proposta sensata sarebbe quella che a parità di stipendio diversifichi le funzioni, tra chi vuole dedicarsi alla didattica e chi vuole invece impegnarsi nelle altre attività dell'offerta formativa. Una seconda proposta attiene invece alla selezione e formazione in entrata, che richiederebbe una seria permanenza universitaria finalizzata ad apprendere il metodo della ricerca, che poi deve essere gestito in autonomia, attraverso lo studio, il confronto collaborativo, gli strumenti della collegialità, per diventare prassi della professione.

9) E a questo proposito: parlate della qualità della didattica e dell’apprendimento con una arroganza direttamente proporzionale all’astrattezza con la quale affrontate la questione. La condizione minima per favorire la qualità della didattica, e incidere con un certo successo su tutto il gruppo classe, è il numero di studenti per classe che non dovrebbe superare i 20-22 alunni.

10) A parte i piccoli aggiustamenti su musica, arte e sport, dove sta scritto che valorizzate la formazione umanistica? Come è possibile questa valorizzazione senza intervenire drasticamente nelle scellerate norme della Riforma Gelmini che ha depotenziato soprattutto le materie umanistiche? Pensate di poterla risolvere con l’autonomia?

11) L’Albo territoriale precarizza tutti, anche i docenti che sono da anni in ruolo, i quali non sono nella condizione di scegliere (Le ricordo che l’ultimo concorso del 1999 fu regionale), ma sono piuttosto costretti a chiedere un trasferimento per avvicinarsi alle famiglie. Costringe i docenti ad una continua mobilità che ricade sulla qualità della didattica, sugli già esigui stipendi e sulla loro salute psico-fisica.

12) Con le deleghe al Governo in materia di sistema nazionale di istruzione e formazione Vi assumete dei poteri che sfuggono completamente al controllo del Parlamento.
Ci sarebbero tante altre osservazioni da fare, perché è l’impianto complessivo, proprio quello che avete deciso di non voler modificare, a essere viziato da un’idea politica centralistica, antidemocratica, privatistica, che impone un drastico passo indietro. Tale visione non è estranea alla logica del mercato, che ha già in parte deteriorato la scuola, producendo il genitore/alunno cliente di cui occorre soddisfare tutte le richieste, con grave danno per la formazione. Tale visione è perfettamente coerente con l’accettazione acritica del Sistema di valutazione nazionale fondato sull’Invalsi che risponde ad una logica standardizzata, funzionale, strumentale che non incide in nessun modo sul miglioramento dei livelli di apprendimento, ma anzi li deteriora. Dal momento che per voi l’impianto complessivo è dogmaticamente intoccabile, ne consegue che le aperture Sue e del Ministro siano non vere, e che ancora una volta, con le nostre risposte, noi abbiamo perso il nostro prezioso tempo nel tentativo disperato di riportarvi alla ragione. Alla ragione di una comunicazione trasparente e onesta, che rispetti le regole della logica e del discorso veritativo; alla ragione di un linguaggio rispettoso del nostro ruolo; alla ragione di atteggiamenti educati e non supponenti e pregiudizievoli. E prima di tutto, perché è lì che tutto si fonda e si mantiene, alle ragioni e al rispetto della nostra Costituzione, che ci ha affidato una scuola democratica, egualitaria, pubblica e laica, e di cui il Vostro Ddl non può considerarsi evoluta espressione.

Cordiali saluti,

Elena Maria Fabrizio

Docente di Filosofia e Storia



martedì 16 giugno 2015

Come finirà in Grecia? Riforme volute dalla troika e ristrutturazione del debito

di Fabrizio Tringali
Le trattative fra governo greco e istituzioni internazionali vanno avanti ormai da diversi mesi.
Ogni summit è stato presentato come quello risolutivo. Ma ogni volta la stesura di un accordo è stata rimandata al vertice successivo.
Ora però siamo davvero, per la prima volta, di fronte ad una deadline. Fino ad oggi, infatti, Atene ha potuto far fronte ai propri debiti, seppur con fatica.
Ma per le scadenze di giugno i soldi non ci sono.
Entro fine mese la Grecia deve trovare un accordo con UE, BCE e FMI, oppure andrà in default.
Come è noto l'accordo appare difficile perché Tsipras ha vinto le elezioni promettendo la fine dell'austerity, lo stop alle privatizzazioni, la reintroduzione del contratto nazionale di lavoro, la protezione delle pensioni. 
E' abbastanza evidente che ottenere tutto ciò significherebbe cambiare radicalmente il volto dell'UE (anche a causa delle ovvie reazioni a catena che il successo greco scatenerebbe).
Gli scenari possibili sono tre:
  • la Grecia cede e accetta un accordo che ricalca in buona parte le proposte delle istituzioni europee, in cambio di qualcosa che permetta a Tsipras di provare a salvare la faccia in patria (per esempio una ristrutturazione del debito greco). In questo caso è probabile che Syriza si spacchi, l'esecutivo greco entri in crisi e si formi una nuova maggioranza politica.
  • le istituzioni cedono e accettano un accordo che ricalca in buona parte le proposte di Atene.
  • non cede nessuno, la Grecia va in default ed esce dall'euro.
Nessuno può avere certezza matematica di quale scenario si concretizzerà. Tuttavia, come i nostri lettori sanno, noi riteniamo che eurozona e UE siano irriformabili. 
Le motivazioni le abbiamo scritte già molte volte, e quindi escludiamo la seconda ipotesi.
Quanto alle altre due, le ultime dichiarazioni di Tsipras e del FMI sembrano escudere la terza. Il leader greco si dice disposto ad accettare un compromesso "doloroso" in cambio di una "soluzione sostenibile", proprio mentre il FMI sottolinea la necessità di scelte dure da parte di tutte le parti in causa.
L'impressione è che si apra la strada alla ristrutturazione del debito greco, cosa che consentirebbe a Tsipras di allentare un pochino le maglie dell'austerity. E alle istituzioni di realizzare il primo scenario che abbiamo indicato.
Se davvero andrà così, cioè se da una parte la troika otterrà quel che vuole in tema di lavoro e privatizzazioni, mentre dall'altra acconsentirà ad allungare le scadenza dei titoli greci, magari abbassandone i tassi, forse smetteremo per un po' di sentir parlare della Grecia.
Ma gli squilibri interni all'eurozona resteranno intonsi, così come le sofferenze del popolo greco.
E la situazione sarà tutt'altro che stabile.

sabato 13 giugno 2015

La didattica centrata sul cliente


Pubblichiamo un intervento sulla scuola di Paolo Di Remigio. Seguiranno altri interventi di altri autori, che comporranno una “mini-serie”, per usare il linguaggio televisivo, sulla questione della scuola. È probabile che anche in futuro il blog si aprirà a contributi esterni, su varie tematiche. Si tratta di una piccola novità, rispetto alle nostre abitudini. Penso sia bene segnalare subito che i vari interventi “esterni” non saranno espressione della “linea del partito”: il partito non c'è, personalmente me ne dispiace ma non posso farci molto. I contributi “esterni” saranno interventi rispetto ai quali da parte nostra c'è un accordo generale, scritti da persone di cui abbiamo stima. Ovviamente ciascuno è responsabile di ciò che scrive.
(M.B.)



LA DIDATTICA CENTRATA SUL CLIENTE
Paolo Di Remigio


Il ministro Giannini, di fronte alle proteste contro la riforma della scuola, ha dichiarato alla stampa: “Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra; vogliamo una scuola autonoma, responsabile e valutabile. Sono i principi della sinistra italiana progressista e illuminata che già aveva indicato Luigi Berlinguer”. È una frase che merita una riflessione.

Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra”. Di fatto l’autonomia scolastica è stata introdotta con un governo di sinistra, cioè dalla legge Bassanini nel 1997 e dalla legge Berlinguer del 1999. C’è però un problema: questi esponenti politici di sinistra attuavano una politica di sinistra, cioè favorevole al progresso e all’emancipazione dei lavoratori dipendenti, o addirittura volta all’instaurazione rivoluzionaria della nuova società socialista? No, affatto. La riforma Bassanini e quella Berlinguer sono volte ad adeguare lo stato italiano all’impianto neoliberista dell’Unione Europea. L’Unione Europea, anche a voler credere alle sue migliori intenzioni, è condizionata nell’azione dalla Banca Centrale Europea, autonoma dal potere politico, che per statuto persegue come obiettivo fondamentale la lotta all’inflazione; ma si lotta all’inflazione debilitando la domanda, quindi rallentando la crescita economica così da aumentare la disoccupazione e diminuire i salari; cioè lottare contro l’inflazione implica l’attacco al tenore di vita e alla dignità dei lavoratori dipendenti, come vuole la destra. L’Unione Europea è dunque di destra, e Bassanini e Berlinguer, introducendo l’autonomia scolastica, pur continuando a dichiararsi e a essere creduti di sinistra, erano al servizio di un progetto di destra. A modo suo il ministro Giannini lo dice subito dopo: “Sono questi i principi della sinistra italiana progressista e illuminata”; in altri termini: l’autonomia è la riforma voluta non dalla sinistra retriva e oscurantista, ossia fedele alla sua tradizione, ma dalla «nuova» sinistra, quella che ha tradito i lavoratori e si è impegnata a impoverirli e a umiliarli. In effetti, i governi di destra, pasticciando le loro riforme, non hanno mai messo in discussione l’autonomia scolastica.

La proposizione: “Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra” contiene dunque un termine contraddittorio: la sinistra di cui parla è una sinistra-destra. Agli insegnanti essa rimprovera l’incoerenza: protestano contro la riforma Renzi, che dell’autonomia è il semplice completamento, benché da quasi vent’anni si siano adattati alla riforma dell’autonomia; ma è un rimprovero a cui è facile ribattere che chi si appoggia a un fondamento contraddittorio si priva del diritto di lamentarsi dell’altrui comportamento contraddittorio. Non solo, richiamando le origini dell’autonomia dalla sinistra progressista e illuminata, il ministro fa un secondo passo falso: fa apparire la riforma dell’autonomia non estranea alla degenerazione attuale della scuola italiana. Il ministro vuole somministrare la riforma perché la scuola non funziona; ma ammette che la scuola che non funziona è quella che è già stata riformata. Quindi gli insegnanti che protestano non sbagliano: nella riforma sentono non un rimedio, ma l’esasperazione autoritaria di quel mutamento con cui si è innescato il disastro della «scuola autonoma, responsabile e valutabile», che distrugge la didattica e relega i giovani nell’ignoranza. Manca però loro la consapevolezza di quale specifico mutamento introdotto dall’autonomia scolastica sia responsabile del degrado.

lunedì 8 giugno 2015

"Buona scuola" o disastro antropologico?


Pubblichiamo un intervento di Fabio Bentivoglio sulla "buona scuola". Si tratta di un articolo in corso di pubblicazione sulla rivista Indipendenza.
(M.B.)



Buona scuola” o disastro antropologico?

Fabio Bentivoglio

(articolo tratto dalla rivista Indipendenza)



Prendiamo spunto da alcune “perle” relative alla cosiddetta riforma “La buona scuola” illustrata da Renzi nel corso del video con lavagna e gessetti. Il nostro, con lo sguardo rivolto alla mitica crescita, esordisce indicando che la riforma in oggetto mira a fare dell’Italia una “superpotenza culturale”; aggiunge poi che per contrastare il dramma della disoccupazione giovanile sarà previsto in tutti gli ordini di scuola un monte orario significativo di alternanza scuola-lavoro. Il giorno seguente l’approvazione alla Camera dell’articolo 9 del relativo disegno di legge che attribuisce ai dirigenti scolastici il potere di scegliere gli insegnanti più consoni alla realizzazione degli obiettivi indicati nel Piano dell’Offerta Formativa dell’istituto, Repubblica (19.05.2015) riporta il commento entusiasta della ministra Giannini: “Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra; vogliamo una scuola autonoma, responsabile e valutabile. Sono i principi della sinistra italiana progressista e illuminata che già aveva indicato Luigi Berlinguer”. Un merito va riconosciuto a Renzi e alla Giannini: è difficile condensare in così poche parole quello che a tutti gli effetti si configura come un disastro antropologico di cui forse manca ancora adeguata consapevolezza.

Che la politica scolastica della sinistra sia “illuminata” o che l’alternanza scuola-lavoro sia un antidoto alla disoccupazione dilagante sono affermazioni talmente grottesche (quella relativa al lavoro è oggettivamente insultante) da porre l’interrogativo di come sia possibile che simili sciocchezze possano essere pronunciate da personaggi che determinano la vita collettiva senza che ci siano reazioni adeguate, quantomeno della gran parte del ceto intellettuale e accademico uso a declamare il “valore della cultura” senza trarne mai vere conseguenze politiche.

venerdì 5 giugno 2015

Ancora su destra e sinistra

Mi sembra che il tema della dicotomia destra/sinistra, con le tesi contrapposte della sua perdurante validità oppure del suo superamento, sia sottinteso in alcune delle discussioni a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi (per esempio quella relativa a Diego Fusaro, partita da qui e proseguita per esempio qui). Si tratta però di una tematica che resta spesso sottintesa, o magari accennata e liquidata con poche battute. Il risultato è che sul tema del superamento di destra e sinistra vi è un certo grado di confusione. Penso sia bene provare almeno a dissipare un po' di questa confusione. Un'occasione per farlo può essere questo articolo, di qualche tempo fa, di Moreno Pasquinelli, che ha il merito di affrontare esplicitamente la questione. In realtà lo scopo ultimo dell'articolo mi sembra sia quello di portare un attacco al tentativo, attribuito a Fusaro, di creare di una forza politica sovranista ma non caratterizzata in termini di destra e sinistra. Non è però di questo che intendo trattare adesso: mi interessa invece discutere la ricostruzione della genesi della tesi sul superamento di destra e sinistra (d'ora in poi, per brevità , la chiamerò ”tesi del superamento”), ricostruzione proposta da Pasquinelli all'inizio dell'articolo. Mi trovo infatti a dissentire su alcuni aspetti di tale ricostruzione, e penso che esplicitare questo dissenso possa essere un contributo a fare chiarezza su questi temi.

martedì 2 giugno 2015

Guerra, ideologia e tecnica




Pubblichiamo l'intervento di Fabio Bentivoglio al convegno "1914-2014: Cento anni di guerre", tenuto a Napoli il 4-12-14, organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dal Rotary Club.
(M.B.)




Guerra, ideologia e tecnica
Fabio Bentivoglio
I cento anni di guerra (1914-2014) oggetto della nostra attenzione sono scanditi dalla Prima e Seconda guerra mondiale (1914-1918 e 1939-1945), dalla guerra fredda (1945-1991) e, in seguito, da un ciclo di guerre indicate in forma generica con varie dizioni: “guerra infinita”, “guerra globale” “guerra al terrorismo”… È mio intento cogliere dal punto di vista storico gli aspetti di continuità e discontinuità del fenomeno “guerra”, riguardo l’origine dei conflitti, l’ideologia e la tecnica.



Origine dei conflitti

Uno dei rari casi in cui nella storia è possibile registrare una costante, confrontando anche epoche molto lontane, è proprio quello sulla natura delle dinamiche che danno origine alle guerre: le guerre sono state e sono espressione di progetti politico-militari riconducibili a dinamiche economiche, di potere, predominio, ricchezza, controllo del territorio e simili. Ovviamente ogni epoca storica si differenzia dalle altre per la configurazione dei rapporti economici e per le forme di potere, ma i moventi che determinano le guerre hanno una matrice comune. Se in età feudale le guerre erano espressione di conflitti tra settori delle aristocrazie che si contendevano le rendite feudali - soprattutto nelle fasi in cui tali rendite declinavano - in età moderna i nuovi orizzonti geografici ed economici generano nuovi conflitti: si pensi alla guerra di successione spagnola (1700-1713), vera e propria prima guerra mondiale della storia moderna, la cui posta in gioco riguarda, attraverso la successione spagnola, il controllo dei traffici delle Americhe e di quelli dell’Africa e dell’Asia collegati con le Americhe. Insomma, mutano i quadri storici e mutano le forme attraverso cui i poteri dominanti esercitano la loro egemonia, ma nella sostanza non mutano le leve che muovono le guerre: sono leve antiche, come antica è l’arte della guerra che si ispira al principio del divide et impera. Ciò vale, come vedremo, anche nel 2014.



Le “cause” della guerra

Corollario del tema della guerra è l’indagine sulle “cause” all’origine dei conflitti. In sede storica “causa” è un termine da usare con attenzione: nell’ambito della scienza fisica e in Natura il termine rimanda alla sfera della necessità (il Sole è causa dell’evaporazione delle acque) mentre nell’ambito delle vicende umane siamo nella sfera della libertà per cui il termine va interpretato nel quadro di scelte frutto della libera volontà degli uomini. Pertanto, le analisi tese alla comprensione di quel fenomeno specificatamente umano che è la guerra, più che alle cause, devono mirare a identificare il contesto, o meglio, il progetto strategico che si prefigge uno Stato o un potere politico-economico dominante, perché è tale progetto che fa sì che un determinato evento o fatto diventi poi “causa” di guerra.

Non c’è alcuna necessità che l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando il 28 giugno 1914, a Sarajevo, diventi la “causa” della Prima guerra mondiale: lo diventa nel momento in cui, conclusa l’eccezionale fase di espansione economica 1896-1905, si restringono i mercati di sbocco generando tensioni tra le maggiori potenze economiche dell’epoca (Germania, Francia, Inghilterra, Russia…) non più risolvibili con mediazioni politiche. Lo stato maggiore tedesco dispone fin dal 1905 di un accurato piano militare (il cosiddetto “piano Schlieffen”) per condurre una guerra di annientamento contro Francia e Russia. È un progetto che mira ad annientare la potenza finanziaria della Francia e a impadronirsi delle risorse minerarie (zinco e piombo) della Polonia russa. La “causa” della guerra, dunque, non è l’attentato a Francesco Ferdinando (vicenda, tra l’altro, tutta interna alle irrisolte tensioni dell’Impero austro-ungarico) ma, in ultima istanza, è il progetto politico, militare ed economico tedesco - non compatibile con analoghi progetti di Francia, Inghilterra e Russia - che ha incorporata la guerra.



È dunque il progetto strategico politico-militare-economico che fa diventare un evento “causa” di guerra e non viceversa! È necessario attenersi a tale criterio metodologico per comprendere anche le guerre contemporanee. Non dimentichiamo in merito la lezione della filosofia: il “comprendere” –insegna Kant- consiste nel “sussumere il particolare nell’universale”. Se ad esempio osserviamo attentamente la tesserina (il particolare) di un mosaico (l’universale) la “comprensione” di quella tesserina passa attraverso la visione generale del mosaico di cui essa è parte. Un’osservazione isolata della tesserina potrà portare a conoscerla nei minimi dettagli e nelle sue più recondite sfumature, ma non certo a comprenderla. Questo tipo di approccio parziale caratterizza la nostra epoca dell’immagine: le guerre sono poste all’attenzione pubblica moltiplicando e replicando immagini sempre più dettagliate, senza però fornire la connessione di tali immagini con il “mosaico” di cui sono parte e che solo potrebbe consentirne la comprensione (a evitare equivoci ricordiamo che, in sede storica, comprendere non è sinonimo di giustificare). Gli episodi di una guerra sono compresi se letti alla luce della totalità storica (l’universale) che li ha prodotti, diversamente osserviamo frammenti sparsi che generano disorientamento, così da creare lo spazio per la diffusione di facili e superficiali schemi di lettura.