Un intervento di Steve Keen
mercoledì 30 settembre 2020
domenica 27 settembre 2020
Sul gruppo del "Manifesto"
La recente scomparsa di Rossana Rossanda ha dato origine a qualche discussione sul ruolo storico del gruppo del "Manifesto". Ripropongo in proposito alcune brevi riflessioni, che risalgono a otto anni fa ma mi sento di sottoscrivere nella sostanza.
sabato 26 settembre 2020
venerdì 25 settembre 2020
La palude
La prima immagine che ci è venuta in mente dopo la recente tornata elettorale è quella di una palude.
L’Italia appare oggi una paese stagnante. Tanti cittadini dei ceti subalterni, che rappresentano la maggioranza della popolazione, intuiscono che il loro vero nemico, il principale agente della perdita dei loro diritti e dell’impoverimento e incattivimento della loro vita, è l’attuale ceto dirigente del paese, in tutte le sue articolazioni (politici di tutti i colori, grandi mezzi di informazione, grandi lobby affaristiche).
Purtroppo questa intuizione non riesce a tradursi in proposta politica. Anzi, questi cittadini cadono spesso preda del soggetto politico che in una certa fase sembra rappresentare il "cambiamento". Prima Renzi, poi il M5S hanno illuso e raccolto grande consenso, per poi inevitabilmente mostrare la propria vera natura di ceto politico di bassa leva, perdendo quanto raccolto in precedenza.
In questa situazione, il continuo peggioramento della situazione economica, assieme al continuo abbassamento del livello umano, morale e culturale del ceto dirigente, porta a una dinamica elettorale caratterizzata da due elementi: da una parte il voto appare fortemente volatile, i cittadini non sentono forte appartenenza verso un partito e spostano facilmente il proprio voto da uno all’altro; dall’altra parte, questo non determina alcun cambiamento reale, ma solo uno spostamento di forze ed equilibri fra partiti ed esponenti politici del tutto interni all’attuale sistema di potere nazionale e internazionale. Si vota per partiti e coalizioni diverse, che poi faranno tutti le stesse cose.
Oggi il Movimento 5 stelle viene severamente punito dagli elettori, ma i suoi voti tornano ai partiti tradizionali. La Lega di Salvini sembra non avere più il vento in poppa, ma in compenso nella destra guadagna posizioni il partito di Giorgia Meloni.
Tutto questo in un contesto in cui i problemi economici non sembrano trovare soluzioni, ma appaiono anzi aggravati dalla crisi originata dal covid-19. Mentre sullo sfondo incombono le catastrofi che il cambiamento climatico, da nessuno seriamente contrastato, ci sta approntando. Nel breve periodo, l’unica possibilità di cambiamento potrebbe venire dalla dissoluzione del Movimento 5 stelle, eventualità che auspichiamo con convinzione, visto il ruolo totalmente negativo che questo partito ha finito per assumere (l’orribile referendum sul taglio dei parlamentari è solo l’ultimo esempio). La dissoluzione del Movimento 5 stelle aprirebbe probabilmente spazio ad una crisi di questo governo. Ma soprattutto riaprirebbe la possibilità della nascita di una reale forza popolare antisistemica, fino ad oggi impedita proprio dalla capacità del M5S di catalizzare il consenso dei cittadini consapevoli della necessità di rovesciare il potere in mano all'attuale ceto dirigente.
Lì per lì, a livello di governo, ad approfittarne sarebbe ovviamente il centrodestra, e cadremmo da una padella ad un’altra padella. Ma forse potremmo coltivare qualche speranza per la nascita di forze di vera opposizione all'esistente, e magari vedremmo crescere chi ci sta provando, ma, privo di grandi mezzi di comunicazione, ancora stenta a raccogliere consenso
M.Badiale, F.Tringali
giovedì 24 settembre 2020
venerdì 18 settembre 2020
Domenica votiamo per difendere la Costituzione
NO alla diminuzione dei parlamentari. SI al sostegno alla lista per il recesso dai trattati europei
Un partito autenticamente popolare non nasce grazie a un volto noto o a un milionario. Ma dal lavoro lento, duro, quotidiano, di centinaia di persone. Per anni. E passa necessariamente dallo zerovirgola alle elezioni. Perché all'inizio i voti sono pochi. Ma quei voti sono importantissimi. Servono a fortificare quei militanti e a consolidarne l'esperienza. E poi lo zerovirgola crescerà. Riconquistare l'Italia non è una lista estemporanea, ma un partito nato anni fa. Che oggi si presenta alle elezioni in 3 regioni italiane. Ed è fondamentale sostenerne l'esperienza perché è l'unico partito che vuole davvero uscire dall'Unione Europea, senza razzismo o populismo, ma solo perché consapevole che è l'unico modo per poter realizzare la giustizia sociale enunciata nella nostra Costituzione. L'unico voto utile è per loro.
Se vogliamo dare la possibilità a forze fresche, autenticamente popolari, di entrare nella lotta politica, bisogna poi votare NO al referendum confermativo sulla riduzione del numero dei parlamentari. Accettare tale riduzione significa rinforzare il potere dell’attuale casta politica. Se provi disgusto per l'infimo livello medio dei politicanti attuali, se vuoi eliminarli o almeno diminuirne il numero, lasciando spazio a forze alternative, vota NO al referendum
Marino Badiale, Fabrizio Tringali
giovedì 17 settembre 2020
Sulla discriminazione compensativa
Si discute in questi giorni della proposta di introdurre forme di tassazione differenziata fra uomini e donne (ovviamente, favorevoli alle donne). Proponiamo a questo proposito un breve intervento, del tutto condivisibile, di Andrea Zhok.
Sottoscrivo in particolare la considerazione finale dell'autore:
"La mossa, peraltro, non è priva di genio: essa riesce a dipingere un atto discriminatorio con le tinte pastello del 'soccorso all'oppresso', mentre cela la realtà crudamente economica del privilegio e spezzetta la società in gruppi naturalmente ed irrevocabilmente concorrenti"
mercoledì 16 settembre 2020
Il banco innovativo (P.Di Remigio)
(Riceviamo dall'amico Di Remigio, e volentieri pubblichiamo. M.B.)
IL BANCO INNOVATIVO
Paolo Di Remigio
L’acquisto dei banchi da fornire alle scuole pubbliche prima
dell’inizio dell’anno scolastico si è svolto in modi così poco trasparenti da
dare origine a un’interrogazione parlamentare a proposito di uno dei contratti
di acquisto, stipulato con una ditta priva dei requisiti per onorarlo. Come se
ciò non bastasse, nella vicenda si è manifestata la solita ossessione a
innovare che i giornali attribuiscono al ministro della pubblica istruzione, il
ministro attribuisce invece ai dirigenti scolastici. Incombe così sulla scuola
italiana una fornitura di 450.000 costosi banchi monoposto a rotelle, destinati
a rivoluzionare la didattica in perfetta sintonia con lo spirito avventuroso
della legge 107 di Renzi e Giannini[1].
Già qualcuno ha notato che l’innovazione è in contrasto con
le precauzioni igieniche: se una delle più importanti misure di prevenzione del
contagio è il distanziamento, allora occorrono banchi e sedie inchiodati
al pavimento e forniti di cinture come i sedili delle auto; e che
infilare gli alunni negli innovativi banchi a rotelle significa piuttosto invitarli
ad avvicinarsi, se non addirittura a fare dell’aula scolastica un autoscontro.
Qualcun altro ha notato che il nuovo strumento, essendo di
fatto una sedia, è in contrasto con le misure di sicurezza antisismica, che
prescrivono di trovare protezione sotto il banco per tutta la durata della
scossa, prima di evacuare l’edificio. Chi in occasione dell’epidemia ha voluto
i banchi innovativi sembra aver dimenticato che la nostra adorata Italia,
mentre ospita una popolazione suscettibile di contrarre malattie contagiose,
continua a essere sismicamente attiva quasi ovunque. Da chi si è proposto come
guida della collettività ci si aspetterebbe la capacità di saper fronteggiare più
di un pericolo nello stesso tempo.
A mio parere tocca però il punto cruciale della questione
chi si è reso conto che l’innovatività del banco a rotelle non è né nel suo
ridursi a una sedia né nelle rotelle, ma nello striminzito piano di lavoro, che
esclude per sempre dalle scuole che lo accettano l’uso di libri e
quaderni di carta, la penna per scrivere, la matita per sottolineare, la gomma
per cancellare e le relative abilità. Senza una discussione nella società
civile, nel governo, in parlamento, approfittando di un’emergenza, ignorando
l’art. 33 della costituzione antifascista che sancisce la libertà di
insegnamento, con la semplice introduzione di un articolo d’arredo scolastico si
è voluto imporre a quasi mezzo milione di alunni un modello di scuola innovata
in cui non si legge sui libri, né si scrive sui quaderni, né si disegna sugli
album – una scuola in cui l’unica manualità fine consiste nel carezzare e
pigiare lo schermo del tablet. Ammettiamo che le neuroscienze[2]
non abbiano dimostrato che la didattica digitalizzata sia a volte inutile,
quasi sempre dannosa allo sviluppo non solo cognitivo dei ragazzi;
poniamo che abbiano documentato che pigiare tasti offra soltanto vantaggi;
resta comunque un mistero come qualcuno, che pure continua ancora a spostarsi
con i suoi tradizionali piedi dopo più di un secolo dall’introduzione delle
automobili, non riesca a pensare onestamente un altro rapporto tra vecchio e
nuovo che non sia la sostituzione.
Cosa stia accadendo è spiegato con franchezza in un interessante
filmato di una ditta produttrice di banchi innovativi, C2 GROUP[3].
Il suo responsabile delle strategie educative dichiara che l’attività
dell’azienda consiste nel «seguire le scuole italiane, portando innovazione
all’interno e cercando comunque di spingere il paradigma del cambiamento per
formare i ragazzi del futuro». Il tono è quello iperbolico delle pubblicità. Chi
potrebbe infatti affermare di conoscere così in particolare il futuro da poter
decidere che il cambiamento sia il paradigma giusto per affrontarlo? Nessuno,
ovviamente. Proprio per questo educazione e istruzione rinunciano da sempre a
spacciarsi per indovine e si attengono alle conoscenze universali, cioè sempre
valide e principi delle altre conoscenze (le regole del linguaggio, gli
elementi delle scienze), quelle che si insegnano, tra l’altro, con le lezioni
frontali.
«Siamo riusciti», continua il responsabile, «grazie alla
collaborazione con i maggiori produttori di piattaforme, quindi Google e
Microsoft, a formare più di 150.000 insegnanti d’Italia, fornendo
gratuitamente formazione…». Qui scopriamo anzitutto che la pressione sulla
scuola italiana affinché accolga il paradigma del cambiamento è così irresistibile
perché è esercitata dai giganti dell’informatica; poi comprendiamo che quanto
il responsabile chiama enfaticamente ‘formazione degli insegnanti d’Italia’ è
soprattutto pubblicità, cioè induzione di un bisogno inesistente, e che proprio
per questo è gratuita.
Si viene quindi a parlare della didattica a distanza
«che non va abbandonata», sostiene la voce fuori campo, «perché», continua il
responsabile, «è un potenziamento, è un avvicinamento anche verso il mondo del
lavoro dei ragazzi. Stiamo fornendo delle competenze veramente importanti,
richieste anche un domani dal mondo del lavoro». Torna qui la ὕβρις
della conoscenza del domani con cui per un verso si giustifica
l’istituzionalizzazione di un esperimento fallito, quello della didattica a
distanza, per l’altro si vuole «agevolare, magari, l’abbandono della didattica
frontale», cioè di un momento essenziale della conoscenza universale, l’unica
che resti valida in ogni tempo.
«La scuola ha bisogno, come dicevo, di una pianificazione,
ha bisogno di accettarlo, il prodotto. Non devono ordinarlo con un clic e
trovarselo arrivando a scuola, perché, secondo me, molti insegnanti sarebbero
spaventati». A parte l’oscurità dei soggetti (chi ha ordinato con un clic?
Evidentemente non chi si spaventa davanti al prodotto. Chi allora?) e l’aroma
di stalinismo che emana dal termine pianificazione, il responsabile non
si chiede perché mai gli insegnanti si spaventino; la risposta è infatti tanto
facile quanto scomoda: perché si trovano davanti a strumenti dall’aria inutile
o dannosa, che però devono essere utilizzati, che li costringono quindi ad
abbandonare i loro metodi, in cui magari credono e che magari danno risultati
eccellenti, per ridursi a dilettanti di pratiche estranee alla loro professione.
Lo spavento degli insegnanti deve essere superato e può
esserlo con uno spavento più forte; continua infatti il responsabile:
«L’idea è: gestire un prodotto, un’emergenza, affinché poi possa portare
un beneficio anche per il futuro». Non è precisato chi goda del beneficio
futuro, ma non è difficile individuarlo. «Questi strumenti esistono ormai da
8-9 anni» – e forse non è azzardato ipotizzare che in pochi li abbiano acquistati.
«Abbiamo visto, testandoli e parlando con tutti gli insegnanti e con i ragazzi
che li stanno utilizzando, che nel momento in cui sono inseriti all’interno di
una scuola l’insegnante ha voglia di sperimentare nuove metodologie didattiche».
‘Cosa fatta, capo ha’: l’oggetto imposto con un clic esercita con la sua
presenza un incanto irresistibile e ingenera in professionisti laureati,
vincitori di concorso e forse esperti la voglia, sì proprio la voglia,
di aprirsi a nuove tecnologie didattiche; nel contempo la scuola cessa di
essere il luogo in cui si insegna e si apprende, e diventa il laboratorio in
cui si fanno esperimenti. Che in questi esperimenti sempre falliti gli alunni fungano
da cavie, si preferisce ignorarlo. Che debbano fallire sempre è lo stesso
responsabile a confermarlo un attimo dopo: «… quindi diventa uno strumento non
che risolve il problema», in effetti ne crea soltanto, «ma un incentivatore
[sic] della voglia di cambiare, e questo è veramente positivo» –
alimenta infatti la corsa agli acquisti.
Che un’azienda assuma toni iperbolici per sollecitare le
voglie del cliente, che mostri impazienza o disprezzo per gli strumenti che
questi già usa, tutto ciò è nell’ordine delle cose. Molto meno ovvio, anzi
direi proprio abissale, che il MIUR si riduca a servitore di interessi
particolari al punto da violare la didattica e umiliare chi la esercita. Questo
stravolgimento non passi inosservato.
[1] Cfr.
le dichiarazioni contenute nell’articolo al seguente indirizzo https://www.ilpost.it/2020/08/21/azzolina-banchi-rotelle-non-ndispensabili/
[2] Quanto
all’impotenza del materiale digitale a migliorare la didattica è interessante
la seguente ammissione leggibile in un documento dall’intento apologetico
dell’Unicef (https://www.unicef.it/Allegati/SOWC_2017.pdf): «Il paradosso
legato alla rivoluzione digitale nel campo dell’istruzione è stato evidenziato
da Steve Jobs, fondatore e AD di Apple. Secondo Jobs, sebbene lui "sia
stato il primo a donare alle scuole apparecchiature informatiche, più di
chiunque altro sul pianeta", ha però aggiunto che "le lacune
dell'istruzione non possono essere risolte con la tecnologia" [sic]».
Quanto al danno della strumentazione digitale sullo sviluppo
e sulla didattica, cfr. per esempio Demenza digitale di Manfred Spitzer
tradotto da Garzanti nel 2013.
[3] Il
filmato che ho parzialmente trascritto è reperibile al seguente indirizzo: https://www.facebook.com/cremona1tv/videos/i-banchi-con-le-ruote-del-ministro-azzolina/3007010659411795/
martedì 15 settembre 2020
lunedì 14 settembre 2020
Sovranisti alle elezioni 3
Alessandra Contigiani, candidata Presidente della Regione Marche per Riconquistare l'Italia
domenica 13 settembre 2020
venerdì 11 settembre 2020
giovedì 10 settembre 2020
Le condizioni del MES
Un intervento di Guido Ortona
http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-grande-bufala-del-mes-sanitario-senza-condizioni/
mercoledì 9 settembre 2020
Sovranisti alle elezioni 2
Andrea D'Agosto, candidato Presidente della Regione Puglia per Riconquistare l'Italia
https://www.youtube.com/watch?v=xQyePNsz6b4&feature=youtu.be
domenica 6 settembre 2020
Fra Antropocene e Capitalocene
Fra Antropocene e Capitalocene
(lettere al futuro, 2)
Marino Badiale
1. La scoperta dell’Antropocene
La nozione di Antropocene è diventata un tema di riflessione di grande importanza nel dibattito culturale moderno. Introdotta nel 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, essa intende indicare il fatto che la specie umana è ormai divenuta un fattore di modifica delle dinamiche del pianeta, paragonabile quindi alle forze naturali che hanno agito, da milioni o miliardi di anni, sul pianeta stesso. La nozione di Antropocene viene proposta come una effettiva nuova epoca geologica, che pone termine all’Olocene, iniziato con la fine dell’ultima glaciazione. Su questa proposta la comunità scientifica non ha ancora preso una decisione finale, ma il termine, come si è detto, si è ormai imposto nel dibattito culturale, toccando ambiti molto vari, dall’arte alla filosofia e alla politica [1]. In attesa di una decisione da parte delle organizzazioni scientifiche competenti su questo piano, l’inizio dell’Antropocene è assegnato, da diversi autori, a diversi momenti della storia, che spaziano dalla scoperta dell’agricoltura agli anni ‘50 del Novecento. Mi sembra che le datazioni più lontane tendano a nascondere la novità rappresentata dalla modernità, e personalmente condivido l’opinione di chi propone per l’inizio dell’Antropocene una data posteriore appunto all'inizio dell'età moderna. Un altro rilievo importante da fare è che la nozione di Antropocene potrebbe apparire, sul piano assiologico, abbastanza neutrale, cioè come un dato di fatto che non si caratterizza né in senso positivo né in senso negativo. La preoccupazione per le conseguenze dell’attività umana sul mondo, e la sensazione diffusa che la specie umana stia distruggendo le stesse condizioni oggettive della propria esistenza, hanno però l’effetto di togliere questa apparente neutralità, per cui la discussione sulla nozione di Antropocene si carica quasi sempre di una forte preoccupazione per le sorti della biosfera e della specie umana al suo interno. In sostanza, la nozione di Antropocene fornisce un inquadramento generale ai dibattiti sull’ecologia e sui problemi ambientali, e aggiunge ad essi la coscienza del fatto che tali problematiche coinvolgono ormai l’intero pianeta, la casa comune degli esseri umani, che si trovano di fronte alla possibilità di catastrofi senza paragoni nella propria storia.
2. Critiche alla nozione di Antropocene
Fra le molte questioni legate alla nozione di Antropocene, intendo soffermarmi, in questo scritto, su quella sollevata da alcuni autori che criticano tale nozione in un’ottica marxista [2]. Le argomentazioni di questi autori insistono sul fatto che la nozione di cui stiamo discutendo mette al centro una concezione di “umanità” intesa come un tutto indifferenziato, occultando i rapporti sociali e la loro dinamica, e rendendo in sostanza incomprensibile la traiettoria distruttiva e autodistruttiva lungo la quale è avviata la nostra società. Per essere più specifici, gli autori di cui stiamo parlando sollevano obiezioni che riguardano da una parte le origini dei cambiamenti che caratterizzano la nostra epoca, dall’altra le loro conseguenze.
Per quanto riguarda le origini, i critici marxisti della nozione di Antropocene sostengono che parlare dell’influsso sulla Terra dell’attività umana astrattamente intesa sia fuorviante rispetto alle reali dinamiche storiche: se guardiamo all’effettiva evoluzione storica del rapporto fra l’essere umano e il suo ambiente, è del tutto evidente che la crescita esponenziale dell’impronta umana sul pianeta è legata a una specifica organizzazione economica e sociale, cioè a quello che chiamiamo capitalismo. Le società premoderne hanno sicuramente influito sulle dinamiche della biosfera, talvolta con esiti negativi, ma mai con l’impatto che è tipico della nostra società. Tutto ciò è legato a caratteristiche intrinseche al modo di produzione capitalistico, che è l’unico, fra i modi di produzione succedutisi nella storia, che abbia la crescita continua come condizione di esistenza, così da essere spinto per sua logica interna all’incessante superamento di ogni limite. Tutto questo, secondo i critici, viene messo in ombra dalla nozione di Antropocene.
Per quanto riguarda l’altro punto, quello delle conseguenze, i critici rilevano come sia fuorviante parlare degli effetti dei mutamenti epocali cui stiamo assistendo, se non si evidenzia come essi saranno fortemente differenziati. Essi colpiranno infatti fortemente zone del Sud del mondo le cui popolazioni hanno meno disponibilità di risorse per farvi fronte, e che, inoltre, hanno meno contribuito a tali mutamenti. Anche in riferimento ai paesi avanzati, è chiaro che gli effetti saranno differenziati secondo il ceto sociale, perché chi dispone di ricchezza e potere riuscirà senz’altro ad affrontare con maggiore efficacia i molti problemi che sorgeranno, mentre i ceti subalterni difficilmente potranno disporre di qualche forma di scudo protettivo.
Sulla base di queste argomentazioni, gli autori in questione suggeriscono quindi di abbandonare la nozione di “Antropocene” e di sostituirla con quella di “Capitalocene”.
3. La servitù volontaria
La obiezioni sopra riportate mi sembrano nella sostanza corrette, ed espressive di alcune importanti verità. Non mi sembrano però risolutive, cioè tali da decidere in maniera definitiva la questione se sia più corretto parlare di Antropocene oppure di Capitalocene. Questo perché, a mio parere, esse dicono la verità ma non dicono tutta la verità. La verità che esse trascurano è quella che si potrebbe indicare come la “servitù volontaria” dell’umanità al capitale [3]. La sostanza è semplice: il capitale si è ormai costituito come orizzonte totale della vita umana, informando di sé natura e società. Ciò significa da una parte che la stessa personalità è foggiata secondo la logica del capitale, e, dall’altra, che quest’ultimo appare un dato intrascendibile. Quello che si vede nella realtà del mondo contemporaneo è una diffusa accettazione del rapporto sociale capitalistico, inteso appunto come dato intrascendibile, ed una spinta universale a ricavare da questa realtà, mai posta in discussione, i maggiori vantaggi per sé. Di qui i dati fenomenici di consumismo, arrivismo, egoismo, distruzione di autentica relazionalità intersoggettiva, tante volte descritti, e che possono appunto intendersi come manifestazioni di una universale “servitù volontaria” dell’umanità. Per vedere con più chiarezza tale servitù, occorre rendersi conto che, come osserva Massimo Bontempelli in un inedito di recente pubblicato su questo blog [4], il capitalismo attuale è, nello stesso tempo, enormemente forte ed enormemente fragile. La sua forza sta nella situazione umana che abbiamo appena descritto, quella che ha portato F.Jameson ad affermare, con una battuta meritatamente famosa, che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Ovviamente, questo deriva proprio dal fatto che ormai il capitalismo è divenuto il mondo stesso, per gli esseri umani catturati nella loro “servitù volontaria”. Per capire invece la grande debolezza dell’attuale organizzazione sociale, basta pensare come sarebbe in realtà facile oggi mandare in crisi il capitalismo, almeno nei paesi occidentali. Sarebbe infatti sufficiente che la maggioranza della popolazione (il famoso 99%) si rifiutasse di acquistare qualsiasi merce nuova immessa sul mercato, che si tratti di un nuovo biscotto o un nuovo smartphone o un nuovo servizio in internet. Il capitalismo attuale ha bisogno dell’innovazione continua per sfruttare il più possibile la domanda solvibile, e il rifiuto generalizzato delle nuove merci manderebbe in crisi questo meccanismo. Se poi a tale rifiuto si accompagnasse una piccola riduzione dei consumi, tale da non mettere in questione la qualità della vita, è abbastanza evidente che il sistema capitalistico verrebbe privato di una domanda in continua crescita e entrerebbe in crisi. Si noti che nel fare questo nessuno rischierebbe nulla, né la repressione poliziesca né una visita della Gestapo.
È necessaria qui un precisazione, per evitare possibili incomprensioni: quanto appena prospettato non è e non vuole essere una proposta politica di una strategia di lotta anticapitalistica. Per poter pensare a qualcosa del genere, sono necessarie una serie di condizioni preliminari oggi del tutto assenti: strati sociali numericamente rilevanti interessati alla lotta anticapitalistica, un partito politico che sia espressione di tali strati, una discussione all’interno di tale partito sulla strategia di lotta. Se fossero presenti tali condizioni, le azioni sopra descritte potrebbero diventare un aspetto della lotta anticapitalistica. In mancanza di tali condizioni, quanto sopra descritto è un esperimento mentale che vuole solo mostrare in che senso si può affermare che il capitalismo attuale presenta una curiosa miscela di punti di forza e punti di debolezza.
Se restiamo ancora per poco su questo esperimento mentale, possiamo capire meglio, dopo la debolezza, la forza del capitalismo. Infatti, proseguendo il nostro esperimento mentale, se ammettiamo che l’astensione da alcuni consumi possa bloccare il meccanismo autoriproduttivo del capitalismo, la domanda ovvia da porsi è: cosa succede dopo tale blocco? È chiaro che il risultato sarebbe una tragedia sociale, esattamente per il motivo sopra indicato: il rapporto sociale capitalistico ha ormai informato l’intera realtà sociale, per cui tutte o quasi le sfere di vita sono regolate dalla logica capitalistica. Un blocco dell’autoriproduzione del capitale significherebbe allora un blocco dell’intera vita sociale, in una situazione in cui nessuno sa come organizzare una possibile vita sociale alternativa. È per questo che rimaniamo tutti nella nostra servitù volontaria: abbiamo troppa paura di uscire dal mondo del capitale, perché al di fuori di tale mondo non sappiamo se avremo cibo, acqua, medicine, protezione.
Per tornare alla questione “Antropocene o Capitalocene?”, ciò che si potrebbe allora replicare ai critici marxisti di cui abbiamo parlato, è appunto il fatto che la grande maggioranza dell’umanità sembra aver accettato la servitù volontaria al capitale. Se è vero che la dominanza del rapporto sociale capitalistico nel mondo attuale farebbe propendere per la nozione di “Capitalocene”, il fatto che tale rapporto sociale goda dell'adesione, magari implicita o inconscia, di larga parte dell’umanità, fa pensare che la logica del capitale agganci aspetti profondi dell’essere umano, e che l’attuale fase storica sia espressiva di tali aspetti, così che sia corretto parlare di tale fase storica come di “Antropocene”.
4. La parola al futuro
In definitiva, le considerazioni fin qui sviluppate non permettono di concludere la discussione “Antropocene o Capitalocene?”. Mi sembra che questo non sia un esito negativo, e che esso rispecchi un dato di realtà. Intendo dire che la questione non si può decidere ora perché è ancora aperta. La questione vera, infatti, è se l’umanità uscirà dalla servitù volontaria al capitale oppure no, ed è una questione che si risolverà nei prossimi decenni, perché il processo di autodistruzione della società capitalistica è ormai avviato. O la grande maggioranza dell’umanità saprà liberarsi dal capitalismo, evitando le catastrofi peggiori (alcuni sviluppi catastrofici sono, mi pare, ormai inevitabili) e la fine della civiltà, oppure il capitalismo andrà fino in fondo nella sua traiettoria mortifera trascinando nel baratro la civiltà umana.
Nel primo caso l’umanità, liberatasi grazie ad uno sforzo cosciente, avrà separato la propria storia da quella del capitale, e sarà allora corretto parlare del periodo di interferenza distruttiva col pianeta come del “Capitalocene”. Nel secondo caso, se l’umanità persisterà nella propria servitù volontaria fino alla distruzione della civiltà (e di larga parte della stessa umanità) sarà inevitabile parlare di “Antropocene”. Personalmente sono convinto che l’esito finale sarà il secondo che ho descritto, ma la questione è ancora aperta. La parola al futuro.
Note
[1] Per una introduzione alla nozione di Antropocene e alle discussioni ad essa legate si vedano: E.C.Ellis, Antropocene, Giunti Editore 2020; C.Bonneuil, J.B.Fressoz, L’Événement Anthropocène, Seuil 2016 (tr.it. La terra, la storia e noi, edizioni Treccani 2019); I. Angus, Anthropocene, Asterios 2020; S.L.Lewis, M.Maslin, Il pianeta umano, Einaudi 2019.
[2] Mi riferisco qui a A.Malm e J.W.Moore, e in particolare ai seguenti testi: J.W.Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, ombre corte 2015; J.W.Moore, Antropocene o Capitalocene? ombre corte 2017; A.Malm, Fossil capital, Verso 2016; A.Malm, L’Anthropocène contre l’histoire, La Fabrique éditions 2017.
[3] Riprendo l’espressione, ovviamente, da E. De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere 2011.
[4]http://www.badiale-tringali.it/2020/09/senza-illusioni-mbontempelli.html. Si vedano in particolare le tesi 26 e 27.
[ho fatto qualche piccola modifica in vari momenti fino al 19-9-20. M.B.]
venerdì 4 settembre 2020
Senza illusioni (M.Bontempelli)
(Pubblico un inedito di Massimo Bontempelli (1946-2011). Non riesco a ricostruire con precisione a quando risalga, direi comunque ai primi anni Duemila. M.B.)
SENZA ILLUSIONI
(TRENTA RIFLESSIONI SULL’UMANITA’ CONTEMPORANEA)
Massimo Bontempelli
1. Come si è giunti a questo punto? E come, a questo punto della storia umana, è possibile vivere in maniera umanamente degna? Senza affrontare queste domande, che i tempi impongono come cruciali, non ci può essere oggi pensiero.
Come siamo giunti a questo punto? Ad un punto, cioè, in cui le forze motrici della riproduzione sociale minacciano di distruggere le condizioni stesse della vita biologica umana, mentre ne hanno già quasi distrutto quelle del suo universo spirituale e morale? Occorre capire.
Un’immagine appropriata della situazione antropologica attuale, che è stata più volte proposta, è quella di un treno in corsa senza macchinisti né controlli esterni, dotato di un dispositivo interno che fa continuamente aumentare la sua velocità, e che ne provocherebbe un qualche scompaginamento ad ogni decelerazione comunque procurata. Non si tratta tanto di capire il treno (la formazione sociale capitalistica attuale), la cui meccanica di funzionamento e la fabbricazione da cui ha avuto origine stanno già scritte sui libri, quanto piuttosto i suoi passeggeri. Essi vedono la sua corsa sempre più pazzamente veloce, e non sanno quando e dove vadano a finire le sue rotaie. Tuttavia non ne deducono affatto che, siccome il treno andrà prima o poi a sfracellarsi contro qualcosa, e la conseguente strage sarà tanto maggiore quanto più sarà cresciuta la sua velocità, occorra allora fermare la sua corsa, finché ha ancora sotto di sé le rotaie e non ha ancora davanti un burrone, anche se la sua decelerazione non sarà affatto indolore, perché è costruito in modo tale da scompaginarsi ai rallentamenti (il sistema economico odierno si scompagina, a differenza di ogni altro sistema del passato, al rallentamento della produzione). No. I passeggeri di cui si parla si preoccupano soltanto dell’arredamento dei loro vagoni, senza fare alcun caso alla corsa del treno senza macchinista, senza pensare alla fine che farà andando sempre più veloce, ed anzi considerando coloro che vorrebbero fermare la corsa, soltanto perché sono pochissimi ed inascoltati dai ferrovieri, come degli strani eccentrici inadatti a viaggiare. I ferrovieri sul treno, infatti, che devono professionalmente occuparsi della corsa del treno, badano a che non rallenti, per evitare i danni della decelerazione del convoglio.
Come possono esistere passeggeri (e ferrovieri) simili? Forse che ogni treno crea i suoi passeggeri (il sistema economico-sociale i suoi individui)? Marx lo ha sostenuto (è l’essere sociale che determina la coscienza, non viceversa). Ma, a parte il fatto che era previsto che i passeggeri che fossero rimasti senza posto a sedere, e affollati nei corridoi e negli strapuntini, avrebbero rifiutato la corsa, mentre si sono rivelati, rispetto al problema che stiamo discutendo, uguali agli altri, il principio vale anche contro l’istinto di conservazione? Occorre capire.
2. Se un treno senza macchinisti avesse un dispositivo interno che lo facesse correre sempre più veloce impedendogli di fermarsi, i suoi passeggeri non avrebbero alcuna stazione da cui scendere e da cui vederne salire altri. Nei loro vagoni, quindi, scorrerebbe bensì il tempo, ma un tempo senza futuro. Futuro, infatti, non è un semplice dopo, è un orizzonte altro, non ancora determinato, e nel quale possono determinarsi speranze e progetti. Un dopo in un orizzonte identicamente determinato non è futuro, è continuazione del presente, e il suo sfociare nella morte non è futuro, è caduta nel passato.
La nostra odierna società è simile ad un treno di tal fatta. Non ha futuro. Ad ogni suo oggi, il dopo, anche vicino, si prospetta così sovvertito, dalla corsa sempre più veloce delle incessanti e insensate innovazioni, da non poter accogliere nessuna speranza e nessun progetto. Come progettarsi, infatti, in un domani in cui non si sa come, dove e se lavoreremo, non si sa se rimarranno in piedi i sostegni a cui oggi ci appoggiamo, non si sa se varranno le stesse regole di oggi? Tutto è incerto, tutto cambia demenzialmente, proprio perché rimane identico, e perciò non-futuro, l’orizzonte di tutto, che è l’orizzonte della flessibilità, della precarietà, della mancanza di garanzie.
La tecnica, diventata ambiente, abolisce il futuro, perché se l’incessante mutamento dell’ambiente tecnico rende ogni giorno obsoleti i modi di agire del giorno precedente, non vale imparare per il domani, non c’è esperienza e non c’è saggezza da trasmettere al domani.
Un meccanismo economico obbligato all'accumulazione senza fine (nel duplice senso di termine e di scopo), distruggendo risorse, inquinando ambienti, alterando il clima, macchinizzando la biologia, toglie alla società il suo futuro, circoscrivendola in un dopo di morte.
Senza futuro la vita perde la sua ragione. Eppure gli esseri umani a cui è tolto il futuro, invece di aggredire i mezzi di questo toglimento, vi cooperano. Tutti deprecano se il prodotto interno lordo non aumenta abbastanza, accettando così un’assurda organizzazione economica nella quale la distribuzione di lavori e redditi dipende da una crescita continua, alla lunga insostenibile per il pianeta, di produzione e consumo. Tutti si muovono in automobile, alimentando un’economia dl petrolio da cui nascono guerre, devastazioni ecologiche, assassinii, inquinamenti e mutamenti climatici. Tutti si disfano in modo indiscriminato di rifiuti, contribuendo a far sorgere discariche e inceneritori, e protestando, magari, contro quelle che si ritrovano sotto casa. Tutti usano i telefoni cellulari, compresi molti di quelli che protestano contro i ripetitori loro vicini. C’è dunque, negli esseri umani, un orientamento al male che deve esser spiegato.
3. Come si genera il male costituito da comportamenti collettivi che conducono una società a perdere il suo futuro?
L’umanità dell’uomo esige che le sue azioni siano giustificate di fronte alla ragione universale, quella ragione, cioè, che scaturisce dalla necessità del legame con l’altro per l’individuazione di ognuno, e dal conseguente valore della vita spirituale in ogni individuo della specie umana. Questa proposizione richiederebbe un lungo discorso filosofico per essere delucidata e mostrata. Qui si assume come assioma dal quale ricavare la generazione e il significato del male.
Il comportamento umano, a differenza di quello degli altri animali, anche quando sembra puramente istintivo od impulsivo, è raramente del tutto inconsapevole, ed è quasi sempre mediato mentalmente. Se dunque la motivazione dell’agire non è conforme alla ragione universale, è tuttavia l’espressione di una intellezione. Che cosa, allora, mette la particolarità di un’intellezione mentale in contrasto con la ragione universale?
La vita sociale si riproduce sempre attraverso una rete di simboli, che sono incorporati come prescrittivi nei segnali intersoggettivi, nelle convenzioni collettive, negli usi condivisi, e nelle cose stesse in quanto cose sociali. L’intelligenza motivante le azioni può attingere i propri contenuti, anziché (anche) alla ragione universale immanente ad ogni individuo umano, esclusivamente dalle prescrizioni insite nei simboli incorporati nell’esteriorità sociale. Se definiamo l’adattamento, in modo più ristretto di quanto fanno le cosiddette scienze sociali, come adeguamento di tutte le motivazioni comportamentali di un individuo o di un gruppo alle prescrizioni del suo particolare contesto di esteriorità sociale, allora è dall’adattamento che si generano quelle intellezioni particolari che orientano la mente motivante in maniera difforme dalla ragione universale.
L’adattamento è quindi quella deviazione dell’intelligenza e dell’azione dalla ragione universale di cui consiste il male individuale e sociale. Se perciò vogliamo comprendere come la nostra società sia arrivata a degradarsi fino a togliersi il futuro, dobbiamo individuarne e ripercorrerne i percorsi di adattamento.
Si possono distinguere cinque tipologie di adattamento, benché si presentino per lo più sinergicamente intrecciate nei comportamenti restrittivi e particolarizzanti dell’intelligenza motivante. C’è l’adattamento di autodifesa, con cui l’individuo si conforma ad una esteriorità in contrasto con la ragione e l’etica per non sentirsene distrutto. C’è poi l’adattamento di appartenenza, in cui l’individuo devia dalla ragione universale per continuare a sentirsi partecipe di un collettivo. C’è inoltre l’adattamento di immaginazione, in cui l’individuo trasfigura il senso di un’esteriorità perché conformandovisi conferma un’immagine positiva di sé. C’è l’adattamento di potere, in cui l’individuo si identifica con un determinato ruolo sociale anche quando la sua funzione diventa negativa, perché soltanto entro quel ruolo mantiene il potere cui si è abituato. E c’è l’adattamento di riduzione, che sarà spiegato (al § 9).
4. L’adattamento di autodifesa si ha come risposta ad una grave minaccia che pesa sull’individuo qualora non segua il dettato dell’esteriorità circostante, benché tale dettato disgreghi la sua originaria interiorità. L’individuo così collocato ha un adattamento che consiste nell’urlare dentro di sé ciò che gli viene detto dal di fuori, per non ascoltare ciò che gli dice la sua natura profonda. Tipico in questo senso è ciò che avviene nei sistemi militari, che addestrano a uccidere, e, in guerra, impongono di farlo, comminando gravi pene, anche la morte, per la disubbidienza. A parte i rari casi in cui l’imperativo di uccidere è giustificato dalla ragione universale dal suo circoscriversi alla necessità di garantire la dignità umana da un nemico malvagio (come è accaduto nella resistenza militare al nazifascismo), la prescrizione di violenza contraria a ciò che esige l’universalità umana squilibra la personalità di colui che vi si attiene, il quale, perciò, può attenervisi soltanto con quella sua urlata autoprescrizione di violenza che è l’indurimento e l’estremizzazione dell’atto violento.
L’adattamento di autodifesa è così generalizzato, quando se ne danno le circostanze, perché la sua unica alternativa è l’eroismo. L’odierna banalizzazione mistificatoria delle cose chiama a suo comodo eroi alcuni che sono semplicemente vittime innocenti di violenza politica, come i passanti casuali in un luogo in cui è fatta esplodere una bomba, o anche vittime non innocenti, come chi sta in un paese straniero al servizio di forze occupanti o di aziende in cerca di profitto al seguito dell’occupazione. Ma il civile che muore sotto un bombardamento aereo è una vittima innocente, non un eroe. Eroe sarebbe semmai il pilota del bombardiere se rifiutasse di eseguire l’ordine di bombardamento. Eroismo, infatti, è rifiuto di adattamento di autodifesa anche in presenza di una grave minaccia. La vittima di qualche bomba, se non ha avuto la possibilità di evitarla con un adattamento di autodifesa, e non ha potuto che subirla, non può essere detta eroe senza togliere senso specifico alla parola.
Ogni adattamento di autodifesa, essendo una caduta nel male per mancanza di coraggio, comporta il disprezzo di sé da parte dell’individuo che lo compie, e che compiendolo si rapporta a sé come malvagio e vile. Non essendo accettabile l’immagine di sé indotta dal disprezzo di sé, l’individuo deve coprirla con un’accettazione il più forte possibile dell’esteriorità a cui si adatta, che ne moltiplica la violenza. È questo l’urlo che gli è necessario per non ascoltare la natura universale umana in sé. Nell’adattamento di autodifesa, perciò, il sé profondo, in quanto elemento di penosissimo disturbo, diventa oggetto di odio, di cui l’individuo si sbarazza proiettandolo fuori di sé, ed accanendosi sull’altro reso ricettacolo di tale proiezione. Il potere può così trasformare esseri umani in macchine da guerra ed anche da tortura.
5. L’adattamento di appartenenza è stato, nella storia umana, il più vasto cimitero di nobili idealità. E’ dunque importante comprenderlo, per trovare il bandolo della matassa della degradazione sociale.
La vita umana è, sia in quanto vita animale, biologica e psichica, sia in quanto vita spirituale, intrinsecamente teleologica. Il suo svolgimento come vita associata, dunque, avviene sempre e necessariamente tramite istituzioni collettive organizzate in funzione di scopi da raggiungere, siano essi scopi espressivi della ragione universale, oppure semplicemente materiali. Ogni istituzione, inoltre, funziona nella misura in cui gli individui che operano per essa hanno interiorizzato la loro appartenenza ad essa come loro ruolo.
Il contesto storicamente mutevole pone prima o poi ogni istituzione nell’alternativa tra la conservazione dei propri scopi, al prezzo di una perdita vistosa di consistenza e forza, e la conservazione, o addirittura l’accrescimento, della propria consistenza e forza, al prezzo di un’alterazione degli scopi, non importa se dichiarata o implicita. La scelta dell’istituzione dipende da coloro che vi svolgono ruoli dirigenti, i quali scelgono sempre, per ragioni che spiegheremo (vedi §14-15), l’alterazione degli scopi. Ciò succede persino nel caso di dirigenti orientati alla fedeltà agli scopi, perché in tal caso vengono destituiti dall’organizzazione, e sostituiti con altri più flessibili.
Cosa succede a coloro che hanno interiorizzato l’appartenenza ad una istituzione quando la loro istituzione si orienta verso scopi diversi, o addirittura opposti, rispetto a quelli per i quali è stata costituita, ed in nome dei quali essi hanno in origine scelto di appartenervi? Anch’essi sono posti di fronte ad una alternativa. Possono scegliere la continuità degli scopi, uscendo dall’istituzione che li ha abbandonati. Sarebbero tenuti a farlo, per essere interiormente liberi ed eticamente strutturati, quando tali scopi concretizzano empiricamente la ragione universale, perché uomini e donne appartengono nel loro spirito alla verità, al bene e alla natura umana trascendentale in cui verità e bene si articolano, non ad una organizzazione collettiva in quanto tale. Ma possono, rinunciando alla scelta libera, mantenere la continuità della loro appartenenza all’istituzione, ritraendosi dagli scopi per i quali l’istituzione era stata costituita e per i quali vi avevano aderito.
L’individuo la cui intelligenza e la cui azione deviano dalla ragione universale per mantenere la particolarità di un’appartenenza, è un individuo intimamente vuoto, che, se un tempo ha cominciato a dedicarsi a un nobile scopo, lo ha fatto per coprire la sua brutta vacuità con una bella immagine di sé derivata dalla sua appartenenza. Avendo voluto già in origine non l’appartenenza per lo scopo, ma lo scopo per l’appartenenza, mantiene comunque l’appartenenza, cooperando al peggioramento dell’istituzione.
6. L’istituzione che meglio ha saputo coltivare nel corso della storia l’adattamento di appartenenza, riuscendo proprio per questa sua capacità ad attraversare indenne catastrofi di civiltà e mutamenti epocali, è stata senza dubbio la Chiesa cattolica.
Essa è stata così eccezionalmente competente a mantenere ben strutturata e capillarmente estesa la sua compagine attraverso l’abbandono, volta a volta, dei suoi scopi, perché è nata addirittura dall’abbandono degli scopi del suo Messia. La fedeltà agli scopi di Gesù, infatti, avrebbe escluso la fondazione di una Chiesa, per la quale, nell’orizzonte di Gesù, non c’era né ragione né tempo, essendo egli convinto di vivere sulla soglia escatologica, e di essere lo strumento dell’avvento del Regno di Dio. Secondo i Vangeli, Gesù inizia la sua predicazione dicendo che è compiuto il tempo dell’attesa del Regno di Dio. Ma se il tempo è compiuto, non c’è tempo per una Chiesa nel senso istituzionale del termine, e non ce n’è neppure ragione, in quanto con Gesù si compiono, a quanto lui crede, tutte le profezie di salvezza, e quindi dopo di lui non c’è più alcun bisogno di un’istituzione che prepari alla salvezza. La Chiesa, invece, nasce proprio come istituzione di tal genere, negando il credo di Gesù mentre ne divinizza la figura. Essa promuove addirittura il fanatismo dell’appartenenza, che le consente di mantenere la maggioranza dei suoi fedeli quando, al tempo dell’imperatore Costantino, accetta di ricevere privilegi e poteri dall’Impero Romano, alterando di nuovo i suoi scopi, che diventano una preparazione alla salvezza non più del Regno di Dio sulla terra, dove è riconosciuta come definitivamente legittima l’autorità dell’Impero, ma della sopravvivenza ultraterrena. La Chiesa accetta come sua propria suprema autorità, al di sopra dei suoi quattro o cinque papi, cioè dei vescovi delle più grandi e prestigiose diocesi urbane, l’imperatore di Costantinopoli. Ma poi, al tempo dei decreti imperiali sull’iconoclastia, la Chiesa si sgancia da Costantinopoli, e la sua suprema autorità diventa il papa di Roma. Successivamente essa si inserisce nell’ordine feudale, presentandone la gerarchia e i valori come discendenti da Dio. E così via.
La perpetuazione della Chiesa cattolica nella storia è avvenuta dunque attraverso la massima mobilitazione dell’adattamento di appartenenza, e ciò spiega tutto il male che ha diffuso. I fedeli sono infatti legati alla Chiesa quasi sempre dalla rassicurazione dell’appartenenza, e solo raramente da una fede autentica e non apparente. Del resto sono chiamati a credenze irrazionali, come una divinità di Gesù che neppure lui stesso si attribuiva, una sopravvivenza dell’anima individuale separata dal corpo, una sacralità dei papi che non trova molto riscontro nella storia reale della Chiesa. L’adattamento è evidente nelle gerarchie ecclesiastiche, fatte per lo più di uomini di apparato e di potere, senza fede.
7. L’adattamento di appartenenza ha operato rovinosamente nella storia della sinistra politica del XX secolo. All’inizio di quel secolo erano diffusi ed influenti in tutta Europa partiti socialisti marxisti, in linea di principio con scopi anticapitalistici mai perseguiti davvero nella pratica, e con scopi effettivi di emancipazione di alcuni gruppi sociali entro la società capitalistica, e di semplice umanitarismo.
Di fronte alla prima guerra mondiale, i partiti socialisti, per evitare dure repressioni, e per promuovere un migliore inserimento nello Stato delle loro organizzazioni politiche e sindacali, abbandonarono i loro scopi umanitari di tipo antimilitaristico. Benché l’abbandono fosse stato repentino e drastico, l’adattamento di appartenenza dei loro militanti ed elettori fu tale da farli rimanere consistenti ed influenti. La conseguenza fu l’obbrobrio di un socialismo schierato, con poche, e pochissimo vigorose, eccezioni, tra le quali quella del partito italiano, per la guerra e per la repressione dei suoi oppositori: un obbrobrio che contribuì alla catastrofe etica dell’Europa, da cui uscirono violenze e fascismi.
Il comunismo nacque dai grandi e piccoli gesti eroici di quanti, rifiutando l’adattamento di appartenenza, uscirono da un socialismo degenerato nel bellicismo imperialistico e patriottardo, e, abbandonandone anche il nome, ormai per loro screditato, si riallacciarono agli originari scopi anticapitalistici del marxismo. La rivoluzione d’Ottobre diede slancio al comunismo, facendo sorgere ovunque nuovi partiti comunisti dalle costole più vive dei vecchi partiti socialisti.
Nel breve volgere di pochi anni, però, lo svolgimento della rivoluzione d’Ottobre, deformato da continui attacchi esterni, sfociò in un sistema bensì non più capitalistico, ma organizzato, e gerarchizzato senza libertà individuali, da una asfissiante e sanguinaria dittatura burocratica. I partiti comunisti, benché a suo tempo nati dal rifiuto dell’adattamento di appartenenza ad un socialismo svuotato dei suoi scopi originari, pur di sopravvivere alle terribili circostanze create dalle controrivoluzioni e dai fascismi, si adattarono ad operare in funzione della ragion di Stato della dittatura staliniana.
Ogni partito comunista diventò allora un partito-chiesa interamente cementato dall’adattamento di appartenenza: il militante comunista era colui che credeva che la dittatura sovietica fosse l’incarnazione del progetto di Marx e Lenin, un dogma non meno irrazionale di quello che fa credere che Gesù sia l’incarnazione di Dio; era colui che credeva che lo sviluppo storico producesse per intima necessità le rivoluzioni proletarie e la sovietizzazione del mondo, che credeva, cioè, in una versione laica della provvidenza divina; era colui che vedeva nel suo partito il veicolo della verità storica, in forma non diversa dalla cattolica “nulla salus extra ecclesiam”.
8. Il comunismo è stato una grande tragedia del Novecento, in un certo senso più dello stesso fascismo, perché, per dirla in modo semplice, il fascismo è stato univocamente un male (anche se non il male assoluto di cui si è favoleggiato), e, quindi, dalla sua sconfitta è nato molto bene, mentre il comunismo è stato fortemente ambivalente, avendo racchiuso in un unico inestricabile intreccio tanto bene e tanto male, cosicché i suoi trionfi hanno canalizzato nel male vigorose energie buone, e la sua sconfitta ha generato effetti maligni, e ha aperto le porte al peggio.
Il militante comunista del Novecento è l’uomo delle azioni segnate dall’eterogenesi dei fini in entrambe le direzioni etiche, cioè come ribaltamenti di ciò che è fatto per il male in qualcosa di bene, e di ciò che è fatto per il bene in qualcosa di male, ed è dunque una figura tragica nel senso più proprio del termine. Non è mai un testimone della verità, perché in lui, con una duplice deformazione, la verità è la rivoluzione, e la rivoluzione, quindi la verità, è il partito. La sua verità, dunque, è l’appartenenza al partito. Tuttavia le sue azioni sono spesso motivate non dall’adattamento di appartenenza, ma dalle ragioni della resistenza, resistenza al fascismo, alle dittature agrarie e clericali, alle prepotenze sociali dei ricchi, e si tratta di ragioni che nascono da impulsi morali, anche se sono rappresentate secondo le categorie dell’appartenenza.
Così il comunista è l’uomo della servitù dell’appartenenza, a cui sacrifica affetti, radici e gioia di vivere, ed è l’uomo della libertà, nel suo inventare giorno per giorno la sua resistenza. È feroce, perché per il partito uccide, mente e tradisce, ed è generoso, perché si prodiga con il massimo disinteresse personale per gli oppressi ed i perseguitati (da fascisti e capitalisti, e non certo per le vittime del comunismo). È ottuso, perché crede alle verità incredibili del partito, ed è intelligente nelle analisi concrete.
La sinistra postcomunista nasce man mano che vengono meno tutti i riferimenti della tradizione comunista (la potenza sovietica, la combattività proletaria, il capitalismo del sottoconsumo). Rimane la vecchia organizzazione che, priva ormai di mete storiche, di un blocco internazionale alle spalle, e di ragioni ideali, non trova più altro scopo per autoriprodursi che l’occupazione di un potere fine a se stesso, da gestire con idee di giornata, che necessariamente sono quelle più forti, quelle cioè dell’ideologia del privato e del profitto. Ciò che ha reso possibile questa miserabile metamorfosi è stata un’eredità del comunismo, e cioè l’esasperazione dell’adattamento di appartenenza. L’esclusività di questo adattamento in circostanze così misere dipende a sua volta dalla spaventosa vacuità spirituale dell’odierno militante di ogni sinistra governativa, che lo rende bisognoso dei ruoli e delle relazioni che l’istituzione gli offre.
9. L’adattamento di riduzione è una deviazione dell’intelligenza e dell’azione dalla ragione universale, con un’adesione ad una esteriorità sociale eticamente negativa, attraverso una riduzione della negatività complessiva di quella esteriorità ad un suo caso particolare. Si tratta di un’operazione mentale di autoillusione e di malafede: l’individuo che sente vagamente di trovarsi inserito in un contesto da cui è reso indegno, e che è però privo della forza intellettuale e morale per sottrarvisi, può trovare la malafede necessaria per spegnere in lui tale giusto sentire, autoilludendosi che portatore della negatività del contesto sia un suo elemento particolare. Il male del contesto, cioè, non viene realisticamente attribuito alla sua funzionalità complessiva, ma viene autoingannevolmente considerato effetto dell’infezione sull’insieme di un singolo evento o gruppo o addirittura personaggio. In questo modo l’individuo può adagiarsi tranquillamente ad un contesto anche pessimo, senza sentirsi responsabile del male che esprime, anzi credendo di combatterlo combattendone il supposto corpo infettante.
Questo adattamento di riduzione spiega molte dinamiche storiche, ad esempio la sorprendente affermazione del fascismo, in una determinata epoca storica, come forza politica di estrema destra, a sostegno di oppressione e di violenza sanguinaria di egoistici interessi borghesi, dopo essere nato come forza di estrema sinistra, e virulentemente antiborghese. In realtà i fascisti che hanno un minimo creduto nel loro regime, senza esserne semplicemente profittatori, sono sempre rimasti antiborghesi. Solo che, con un progressivo adattamento di riduzione, hanno prima ridotto il male borghese al cosiddetto capitale improduttivo, anziché all’intero capitalismo borghese, poi hanno ridotto il capitale improduttivo al solo affarismo speculativo ed usuraio, ed infine hanno ridotto l’affarismo speculativo ed usuraio alla vita comoda e pantofolaia. Così, alla fine, i fascisti, pur dediti ai più loschi affari, e pur proteggendo i più gretti interessi padronali, hanno potuto autorappresentarsi addirittura come rivoluzionari antiborghesi, soltanto perché imponevano esercizi ginnici, gesti marziali e marce.
Si arriva a ridurre un male generale ad una sua figurazione particolare perché non si hanno identità e forza interiore per opporsi ad un male generale, e ci si vuole adagiare mantenendo l’illusione di esserne estranei. Ciò rinvia ad un vuoto interiore e ad una brutta vacuità dell’anima, in tutto simili a quelle dell’adattamento di appartenenza, del quale perciò l’adattamento di riduzione è spesso uno strumento. Ne è un esempio l’antiberlusconismo della sinistra governativa: milioni di individui per mantenere l’adattamento di appartenenza ad una sinistra priva di ideali e piena di miseria etica, sono accaniti contro il berlusconismo perché hanno bisogno di ridurre ad esso il corpo infetto della società, in modo da non accorgersi che il berlusconismo non è che la versione grottesca ed estrema di ciò che essi stessi sono.
10. L’adattamento di potere è una deviazione dalla ragione universale per conservare un potere, non importa se grande o piccolo, che può essere conservato soltanto aderendo ad una forza della esteriorità. Chi compie l’adattamento di potere non si fa illusioni, come nell’adattamento di riduzione o in quello di appartenenza. Non scambia il male per bene. Neppure, però, si adatta al male sapendolo come male. Semplicemente non formula, neppure dentro di sé, giudizi etici, perché il suo sviluppo psicologico lo ha reso privo di sentimento morale (ed occorrerebbe un intero libro per chiarire le circostanze sociali e familiari che inducono un tale sviluppo). Non rifiuta gli ideali, ma piuttosto non sa cosa siano nel loro rapporto con la realtà, e li scambia sempre per illusioni, o pretesti, o furbizie, o astrattezze, di fronte a cui fa valere il suo opportunismo come realismo.
Mussolini vide chiaramente, nel 1921, che lo squadrismo del nuovo fascismo agrario sovrappostosi all’originario fascismo sansepolcrista era delinquenziale, pazzoide e sanguinario (ne sono testimonianza articoli di quel periodo sul “Popolo d’Italia”, dove gli squadristi sono dipinti a colori non dissimili da quelli dei giornali più antifascisti), ma per lui, per quanto strano possa apparire, tali caratteristiche non incorporavano alcuna qualificazione etica. Voleva bensì rifiutarle, ma per motivi puramente pratici, e cioè perché riteneva che la violenza squadristica avrebbe trascinato il fascismo in una guerra civile in cui avrebbe avuto contro la monarchia e l’esercito, e da cui sarebbe uscito con le ossa rotte. Perciò, quando si accorse invece che la violenza squadristica era tollerata ed utilizzata in funzione antioperaia dai maggiori centri di potere del paese, non esitò a cavalcarla per andare a conquistarsi il potere politico. Infatti, dopo aver dato le dimissioni dal suo ruolo dirigente nel movimento fascista, motivandole con il suo rifiuto di essere un capo costretto a seguire i suoi gregari, appena pochi mesi dopo accettò di essere proclamato Duce del fascismo trasformato da movimento in partito: un Duce che, avvallando tutte le violenze decise dai suoi gregari squadristi, li seguiva anziché guidarli. La palese contraddizione, però, non lo turbò, perché sotto la pressione degli squadristi, con la loro marcia su Roma, conquistò la guida del governo: tipico esempio di adattamento di potere.
L’adattamento di potere, pur non avendo le illusioni dell’adattamento di appartenenza, le utilizza spesso a proprio vantaggio. Nella politica italiana, esemplari tipici, in periodi diversi, dell’adattamento di potere, sono stati Fanfani, Craxi e D’Alema. Quest’ultimo è un postcomunista proveniente da una famiglia di dirigenti comunisti e nato, per così dire, nel comitato centrale del partito comunista, a cui non è mai interessato nulla, in termini etici, di qualsiasi principio generale, e del comunismo, di cui ha però sfruttato le illusioni di appartenenza all’organizzazione per la sua scalata al potere. Per conservare il potere ha per primo violato il dettato costituzionale riguardo alla guerra, e ha venduto Ocalan ai carcerieri turchi. Ma non pensa di aver fatto nulla di male.
11. L’adattamento di immaginazione si distingue da tutti i precedenti tipi di adattamento perché il suo punto di partenza è una buona intenzione di opporsi a contesti di male travestito da bene, che sfocia in contesti ancora più maligni, a cui il soggetto tuttavia si adatta, riuscendo, con sofismi e scotomizzazioni di ogni genere, a darsene un’immagine trasfigurata in bene, per esorcizzare un sottostante terrore, intimo e di origine infantile, di fallimento esistenziale, terrore che lo irrigidisce nell’incapacità di riconoscere e correggere errori di vita. Come l’adattamento di potere tende a strumentalizzare al proprio scopo l’adattamento di appartenenza, l’adattamento di immaginazione, più refrattario all’appartenenza, tende a strumentalizzare a proprio scopo l’adattamento di riduzione.
L’immaginazione che promuove un adattamento al male è sempre l’altra faccia di una scotomizzazione, ed è per questo che si combina bene con il meccanismo dell’adattamento di riduzione. Si considerino, ad esempio, le leghe monarchiche, ultracattoliche ed antisemite sorte nella Francia della Terza Repubblica sulla scia del boulangismo. Sappiamo quanto male abbiano fatto. Ciò non toglie che la gioventù studentesca che vi aderiva muovesse da un’intenzionalità anche buona, ovvero dal disgusto morale per la Terza Repubblica, la cui vita politica era intessuta di corruzione e di bassi compromessi di potere, la cui democrazia era la vuota ritualità di masse pigramente ed egoisticamente chiuse nei loro piccoli interessi quotidiani, le cui lotte parlamentari erano misere beghe di potere tra gruppi di ceto politico, le cui carriere erano regolate dalla massoneria e dal clientelismo. Questa gioventù, però, era anche superficiale nel suo bisogno di autoaffermazione, priva di cultura filosofica e di conoscenza storica, e mossa, nella sua rancorosa e virulenta opposizione al sistema repubblicano, tanto da impulsi morali quanto da desideri egocentrici di emergere dalla massa. Così si adattava alle ingiustizie sociali del tempo, che avrebbero richiesto troppo coraggio spirituale per essere combattute, e riduceva l’affarismo corrotto della Terza Repubblica, le cui radici stavano nell’intero contesto dei rapporti sociali, al solo predominio delle banche sulla politica, per ridurre poi il predominio delle banche a quello degli ebrei. Il bene, quindi, veniva visto non già nella fedeltà ad un ideale di giustizia, ma nell’immaginario ordine etico garantito dalla vecchia monarchia, nell’immaginario comunitarismo garantito da un cattolicesimo rigoroso ed etico, e nelle immaginarie virtù dell’onore militare. Esso portò all’orrore del caso Dreyfus, un capitano dell’artiglieria francese condannato nel 1894 alla deportazione perpetua nella Caienna da una corte marziale che lo aveva giudicato con leggerezza, perché il suo essere ebreo e di origine tedesca faceva sembrare plausibile l’accusa di spionaggio a favore della Germania. Quando emersero prove della sua innocenza, e l’esercito non volle prenderle in considerazione, le Leghe, per mantenere l’immaginazione dell’onore militare e del male ebraico, lo vollero ancora colpevole e deportato.
12. Un esempio molto istruttivo di adattamento di immaginazione è costituito, nel primo Novecento, dal percorso politico dell’intellettualità francese definitasi come antidreyfusarda dopo il riconoscimento ufficiale dell’innocenza di Dreyfus. Si è detto che l’adattamento di immaginazione, pur portando spesso ad esiti terribili, ha alla sua origine una buona intenzione, data dall’opposizione ad un falso bene. Nell’esempio considerato, appare a prima vista assurdo che possa esserci una originaria buona intenzione nel filone antidreyfusardo venuto dopo l’accertamento, anche giudiziario, dell’innocenza di Dreyfus, come pare assurdo che possa esserci qualcosa di male nel bene apportato dal movimento dreyfusardo.
Il movimento dreyfusardo, in realtà, non è stato soltanto la splendida battaglia iniziata sul piano politico con il famosissimo “J’accuse” di Zola sull’Aurore del 13 gennaio 1898, per restituire alla vita un innocente deportato in un luogo infernale, smascherando il castello di menzogne costruito dalla casta militare, in nome di valori universali di libertà, giustizia, dignità umana. E’ stato anche il “Blocco repubblicano”, costituito nel 1898 per difendere la Terza Repubblica dagli attacchi eversivi portati nel febbraio e nel giugno di quell’anno dalla destra clericomonarchica, su iniziativa di Georges Clemenceau, che, scissosi dal partito radicale, e fondato quello radicalsocialista, ha poi coalizzato attorno ad esso radicali e socialisti, sindacalisti e repubblicani moderati. La vittoria di questo “Blocco repubblicano” nelle successive elezioni del 1899, del 1902 e del 1906, ha creato un contesto politico in cui, in nome della battaglia dreyfusarda e della difesa repubblicana, si sono espropriate le congregazioni religiose, abolite le scuole cattoliche, e sottomessi i comandi militari ai poteri civili, ma si è sviluppato anche un parlamentarismo intessuto di compromessi e di affarismo. In nome della battaglia dreyfusarda e della difesa repubblicana, i socialisti francesi hanno abbandonato le originarie, seppure velleitarie, idee rivoluzionarie, e sono passati alla collaborazione con i repubblicani, anche con i più moderati, con vantaggi sostanziosi per i loro capi, cooptati nel ceto politico dirigente, e vantaggi modesti per gli operai, tali, comunque, da indurli all’adattamento. Georges Clemenceau, che ha costruito la sua fortuna politica con la battaglia dreyfusarda, se ne è servito prima per coprire il suo coinvolgimento nello scandalo finanziario della società del canale di Panama, poi per reprimere da “democratico” le lotte operaie.
La buona intenzione da cui è partita l’intellettualità antidreyfusarda degli anni Venti e Trenta è stata dunque l’opposizione a gruppi parlamentare “uscieri di Rotschild” e all’integrazione del socialismo operaio nel mondo borghese. Questa intellettualità ha colto l’ipocrisia della “difesa repubblicana”, spesso velo di affarismo, corruzione e politica ridotta alla semplice amministrazione della società borghese. Essa è stata però a sua volta ipocrita e malefica nel credere, con un adattamento di immaginazione, che il suo spirito idealistico fosse rispecchiato dal fascismo.
13. Un esempio istruttivo è dato dal percorso di vita di un intellettuale come Emmanuel Mounier. Nato nel 1905 da una famiglia della piccola borghesia rurale cattolica, ed educato alla filosofia cattolica neotomista di Jacques Maritain, è stato poi molto influenzato, nel primo dopoguerra, dal pensiero di Charles Peguy. Questi, morto in guerra, dove era andato volontario, nel 1914, era stato uno strenuo difensore, come Zola, dell’innocenza di Dreyfus, ma aveva avversato il successivo movimento politico dreyfusardo, che, come usava dire, aveva dato ad una grande battaglia ideale il misero sbocco di una politica ridotta a servire i banchieri e a far guerra ai curati. Mounier ha assorbito queste idee leggendo i “Cahiers de la Quinzaine”, pubblicati da Peguy nei primi anni del Novecento, ed è stato molto influenzato anche dalla lettura di “Notre jeunesse”, dove Peguy, nel 1910, respingendo sia il cristianesimo clericoreazionario che il socialismo operaio-marxista, aveva proposto un cristianesimo socialista, per il quale la giustizia sociale doveva servire a togliere gli ostacoli economici all’apertura delle persone allo spirito e alla fede.
Mounier fonda così, nel febbraio 1932, la rivista culturale “Esprit” per trovare una terza via spiritualistica tra due materialismi, quello liberalborghese e quello operaio-marxista. La terza via è per lui il personalismo, cioè il valore supremo della persona, intesa non come mera individualità, ma come soggettività spirituale, ovvero individualità che fonda le sue scelte nel pensiero e ne assume la responsabilità. Uno Stato che si basi sul valore della persona deve sentirsi impegnato a rimuovere quelle situazioni economiche che, schiacciando l’individuo nella penuria o nella dipendenza servile, gli impediscono di personalizzarsi. Esso non può dunque essere una democrazia liberalborghese, che abbandona gli individui alla competizione economica, ma deve essere una dittatura materiale, che imponga anche coercitivamente e anche alla maggioranza l’equità economica. La dittatura materiale è personalistica se è limitata dal rispetto di un nucleo di diritti umani intangibili, e se è integrata da una libertà spirituale totale, non soggetta alla benché minima repressione.
Con queste idee Mounier avrebbe potuto essere un’autorità intellettuale e morale, se la paura dell’emarginazione non lo avesse spinto al più tipico adattamento di immaginazione nei confronti del fascismo, considerandolo prima della guerra un risveglio spirituale, sia pur rozzo e un po’ deviante, e dopo la sconfitta della Francia come il male minore, correggibile nei suoi aspetti più negativi. Meglio Vichy della Terza Repubblica, egli ha sostenuto, perché la Terza Repubblica era quella senza ideali dell’affarismo delle classi dirigenti e della pigra chiusura della masse nei piccoli interessi egoistici. La realtà immaginaria di una Vichy idealista ed eroica anche nel male, che egli voleva vedere per continuare a pubblicare “Esprit” e ad insegnare, non gli faceva vedere che Vichy era nata proprio dall’egoistico interesse della masse alla tranquillità ed alla mediocre normalità, che aveva imposto la resa, e dall’affarismo dei ceti dirigenti, attratti dai lucrosi contratti offerti dalla Wermacht, e che l’idealismo e l’eroismo erano quelli di De Gaulle e dei resistenti.
14. L’orientamento al male che è prevalso negli esseri umani fino a portarli al punto in cui oggi siamo, cioè alla soglia di una degradazione dell’umanità lasciata senza civiltà e senza futuro in balia di forze economiche socialmente devastanti, si manifesta e si sviluppa in tutte le forme di adattamento ad una esteriorità particolaristica che si sono esaminate. Tali forme di adattamento impediscono agli esseri umani di vivere in quelle maniere socialmente equilibrate, reciprocamente solidali, e alla fine più appaganti per tutti, che pure astrattamente rientrerebbero nelle loro possibilità.
La ragione per cui la tendenza sempre prevalente negli esseri umani è quella dell’adattamento ad esteriorità che chiudono le loro migliori possibilità, un adattamento, cioè, che schiacciando le loro menti in angusti particolarismi, li riduce a miseri simulacri di ciò che potrebbero essere, è che essa è espressione della loro stessa natura, che consiste in un essere per il quale è estremamente impegnativo farsi empiricamente ciò che trascendentalmente è.
L’essere partorito dalla donna, e quindi biologicamente umano dalla nascita, infatti, diventa effettivamente umano acquisendo, attraverso la sua relazione con umani, le potenzialità della specie, in un senso però diverso da quello degli altri animali. Mentre infatti le potenzialità delle altre specie animali sono puramente genetiche, e contenute, quindi, nel corpo di ogni esemplare della specie, le potenzialità umane sono contenute anche nel linguaggio acquisito, e la differenza rimane essenziale anche se la stessa predisposizione al linguaggio è genetica.
Le potenzialità della specie umana insite nel linguaggio intersoggettivo, proprio perché dipendenti non direttamente dall’espressione genica, ma da complesse mediazioni relazionali, si attuano necessariamente soltanto in pochi esemplari della specie, e questa è una seconda differenza essenziale dagli altri animali. Poiché, ad esempio, la potenzialità di volare è insita nell’essere di specie degli uccelli, ogni uccello che non muoia subito dopo la nascita, ad un certo momento effettivamente vola. Non è così, invece, per la potenzialità, insita nella natura umana, di far volare il suo pensiero, la sua volontà e la sua emozionalità nel cielo dell’universalità di specie. Benché, infatti, questa potenzialità sia reale, tanto che alcuni soggetti hanno pensieri ed emozioni riguardanti la storia da cui provengono e la società nazionale e mondiale in cui vivono, e vogliono cose che presuppongono o cercano il rispetto dovuto ad ogni essere umano, i più, in maggioranza in ogni epoca storica (il variare dei tempi può rendere soltanto più o meno grande questa maggioranza), non hanno pensieri ed emozioni che trascendano i piccoli perimetri delle loro situazioni particolari, e non vogliono niente altro che ciò che è richiesto dalle circostanze a cui direttamente si trovano riferiti. Le istituzioni, non potendo mantenere la loro solidità senza un ampio consenso nella loro area di riferimento, tendono a lasciar cadere i loro scopi originari ogni volta che essi intralciano il loro adattamento agli adattamenti collettivi. Occorre capire perché la natura umana sia così fatta.
15. La logica che emerge dall’esistenza storica degli uomini e delle donne manifesta una loro configurazione essenziale che si ripete identica in ogni epoca ed ambiente, e che è quindi un loro tratto di permanenza, una natura.
Questa natura, certo, non va pensata come un contenuto di sostanza, non importa se materiale (la determinante biologica) o immateriale (l’anima, la “res cogitans”). Un simile essenzialismo sostanzialistico, filosoficamente e storicamente confutabile, lascia spazio all’opposta credenza di un essere umano senza fissa natura, illimitatamente riplasmabile dalle forze storiche, che è egualmente confutabile, ma corrisponde all’immaginario contemporaneo. L’individuo di oggi, infatti, si sente, senza neanche saperlo consapevolmente, così spiritualmente inconsistente da fargli apparire ovvia la sua integrale modificabilità, ed ha inconsciamente un tale disprezzo di sé da non sentirsi violato da qualsiasi trasformazione antropologica.
La natura umana, invece, è una realtà, non come contenuto sostanziale, ma come forma del costituirsi della soggettività nella relazione interindividuale. Non si dà soggetto al di fuori della relazionalità, e ciò comporta che ogni comportamento umano sia mediato dall’immagine di sé del soggetto che lo compie. D’altra parte, proprio per la costitutiva relazionalità del soggetto, la sua immagine di sé è a sua volta mediata da un’immagine altrui di lui mediata dalla sua immagine dell’immagine altrui di lui. Il soggetto, di conseguenza, in quanto ha un essere intrinsecamente affidato a questo intreccio di mediazioni, non può assumerlo senza considerarlo valido per lo sguardo altrui. L’uomo, quindi, è l’unico animale che non può esistere come esemplare della sua specie senza dare valore al suo essere. Questo valore, in quanto relazionale, presuppone il valore dell’alterità che lo convalida, e, rispetto ad esso, è alterità ogni altro che possa averne un’immagine, dunque ogni altro essere umano.
L’universalità, che come spazio del pensiero è verità, del volere giustizia, e del sentire bellezza, è dunque uno spazio aperto dalla realtà umana, ed in essa insito, vale a dire è ontologico. Le condizioni della sopravvivenza umana sono tuttavia non ontologiche, ma semplicemente empiriche, e gli esseri umani, costruendole e riproducendole con la loro attività, la prassi, costruiscono e riproducono una loro esteriorità che rispecchia loro l’immagine più immediata di loro stessi. Questa esteriorità si organizza attorno ad un meccanismo autoriproduttivo le cui esigenze particolari possono negare quelle dell’universalità. In tali casi gli esseri umani, non potendo assumersi se non come giustificati nella loro immagine dallo sguardo altrui, ed avendo la loro alterità universale distanziata da un lungo percorso di mediazioni, sono immediatamente attratti dall’immediatezza dell’altrui riconoscimento, e si adattano per lo più ad esso, riproducendo così ed allargando il male dell’esteriorità. L’ontologia, proprio perché non è mai immediatamente empiria, è assiologia, cioè non fatto esistente, ma norma a cui i fatti sono chiamati a conformarsi. Essa non esiste come fatto, ma la sua esistenza di norma è ben più forte e permanente di qualsiasi fatto, è la dimensione allontanandosi dalla quale il mondo antropologico si autodevasta quanto più se ne allontana. E’ il bene richiesto dalla ragione universale contro ogni facile adattamento.
16. La natura umana universale chiama tutti gli individui umani ad esprimersi nel suo orizzonte di universalità, consentendo però soltanto a pochi non predeterminati di loro di affacciarsi a tale orizzonte. Ciò significa che i luoghi di espressione dell’universalità, come la filosofia, l’arte o la coerenza morale, sono poco frequentati, mentre quelli dell’adattamento, come la religione conformistica, l’intrapresa affaristica, o lo spazio della tecnica, sono sempre affollatissimi. Lo Stato è un luogo dell’adattamento come burocrazia e amministrazione, ma un luogo dell’universalità come teleologia politica, che è la sfera dell’universalità e della cittadinanza. L’orizzonte del governo politico dello Stato è perciò accessibile a pochi, o addirittura, in certe epoche, a nessuno di coloro che dispongono dei mezzi del potere, come nella nostra epoca, in cui la politica dei governanti, di destra o di sinistra che siano, non è in realtà politica, ma semplice amministrazione degli effetti sociali di un meccanismo economico mai messo politicamente in questione. Ma se la sfera della statualità, in quanto sfera universalistica, non è mai mentalmente accessibile a grandi numeri di individui, ne consegue che la democrazia, intesa secondo il suo etimo come potere del popolo, non può esistere.
Che cosa sono allora gli Stati democratici, se non sono quello che dicono di essere, cioè Stati del cui potere è titolare il popolo, ma hanno tuttavia una loro specificità nel ruolo che attribuiscono al popolo? Una democrazia è sempre la finzione di se stessa, in quanto ciò che essa chiama potere del popolo non è in realtà potere del popolo, ma è tuttavia qualcosa di specifico, e cioè il ruolo attribuito al popolo di arbitro in ultima istanza (soltanto in ultima istanza) delle controversie fra gli effettivi gruppi di potere, mediante il voto.
La migliore definizione della democrazia reale e non immaginaria è perciò quella data dal grande giurista boemo Hans Kelsen: essa è un sistema di procedure puramente formali atte a far dipendere in ultima istanza la scelta dei governanti dal voto della maggioranza del popolo. La democrazia reale, quindi, non si contrappone affatto all’oligarchia, ma è quella forma particolare di oligarchia in cui i pochi, in grado di contendersi il potere dello Stato, vi accedono sulla base di procedure il cui criterio selettivo è il voto popolare. L’oligarchia nella sua veste democratica consente dunque la soluzione senza violenza dei conflitti tra i diversi gruppi oligarchici, e permette al potere oligarchico di funzionare sperimentando senza traumi diverse opzioni di governo dello Stato.
17. Un sistema politico si può definire democratico non già quando il popolo è sovrano, o partecipa al governo, o ne determina l’indirizzo, perché se così fosse la democrazia non esisterebbe, in quanto tali condizioni non si danno mai nella storia, ma quando il voto della maggioranza del popolo risolve le competizioni di potere tra distinti settori dell’oligarchia. Di conseguenza l’estensione effettiva della democrazia dipende essenzialmente da quattro requisiti del sistema politico.
Il primo e basilare, ancorché nascosto e mai formalizzato giuridicamente, dei requisiti della democrazia, è quello costituito dalla differenziazione effettiva dei gruppi oligarchici che si contendono il potere attraverso il voto popolare. Un sistema politico, cioè, è di fatto inevitabilmente tanto più democratico quanto più ampia è la distinzione tra i settori partecipi dell’oligarchia abilitata a governare, e quanto più marcata, di conseguenza, è la differenza tra gli indirizzi di governo ammessi. È infatti l’articolazione interna dell’oligarchia di potere che promuove gli altri requisiti caratterizzanti di un sistema politico democratico.
Un secondo requisito della democrazia, quello che ne manifesta più distintamente l’esistenza, è costituito da un sistema elettorale atto a far davvero dipendere in ultima istanza la scelta dei governanti dal voto della maggioranza del popolo. La democrazia esige dunque che tutti i cittadini adulti dello Stato abbiano il diritto di voto riguardo alla scelta dei governanti, e che ogni voto abbia pari peso. Non c’è quindi democrazia se manca il suffragio universale, o se il suffragio universale non riguarda la scelta dei governanti, o se i voti sono calcolati diversamente secondo l’ordine sociale, ma c’è anche poca democrazia se il sistema elettorale non è proporzionale. In assenza di proporzionalità, infatti, i voti non hanno pari peso, ed alcuni, come quelli dati ad un candidato perdente in un collegio uninominale, contano zero. Quando può succedere, come in Inghilterra, che un capo del governo, in questo caso Blair, ottenga un’amplissima maggioranza assoluta in parlamento avendo raccolto poco più del 20% dei suffragi degli aventi diritto al voto, è chiaro che il sistema elettorale fa mancare quel requisito essenziale della democrazia che è la legittimazione del governo dalla maggioranza popolare.
Un terzo requisito della democrazia è la libertà di informazione, senza la quale l’elettore, non avendo neppure la possibilità di informarsi riguardo a ciò che vota, è privato della sostanza del voto. Un quarto requisito è il rispetto dei fondamentali diritti civili ed umani, senza i quali si ha una coartazione incompatibile con la libera manifestazione del voto.
18. La democrazia è quel sistema politico che, mediante la finzione della sovranità popolare attraverso cui si rappresenta, regola un potere oligarchico determinando specifiche procedure per risolvere le competizioni tra diversi settori dell’oligarchia con il mezzo del suffragio popolare.
La democrazia reale, e non quella della sua illusoria ed ingannevole autorappresentazione, è perciò un mero sistema di procedure formali, astratto da qualsiasi contenuto sociale. Di conseguenza il sistema democratico in quanto tale non ha alcuna intrinseca finalità etica, alcun proprio orizzonte spirituale. Il proceduralismo nel quale esso si risolve ha avuto tuttavia indubbi meriti storici, che si rendono visibili quando un potere oligarchico espresso in forma democratica (la democrazia non è mai altro che una forma particolare di regolazione dell’oligarchia), per prevalere su forze sociali dalle quali si sente minacciato, si sottrae alle procedure democratiche. Le procedure democratiche sono in questo caso sostituite da una imposizione violenta del potere che, violando diritti civili ed umani, e restringendo le possibilità di informazione, degrada paurosamente l’esistenza umana.
Ciò che è antropologicamente valido della democrazia non è, come comunemente si ritiene, il voto popolare, che sceglie quasi sempre male, ma è il rispetto di fondamentali diritti civili ed umani (dall’habeas corpus all’imparzialità del processo giudiziario), connesso alla libertà di pensiero, di accertamento e di informazione. Questi due requisiti sono gli elementi da salvaguardare della democrazia, che paradossalmente, però, è la stessa democrazia reale che spesso disperde, ogni volta che le distinzioni interne all’oligarchia si restringono.
Negli Stati Uniti d’America, per esempio, le ultime elezioni presidenziali con due candidati realmente diversi sono state quelle del 1972, in cui, non a caso, il candidato peggiore, Richard Nixon, violatore del Watergate e sterminatore di vietnamiti, ottiene molti milioni di voti in più del candidato migliore, George McGovern. Successivamente, gli enormi finanziamenti necessari al sostegno della candidatura vincolano i candidati ai grandi centri del potere, cosicché, al di là delle apparenze, Carter e Ford nel 1976, Reagan e Carter nel 1980, Reagan e Mondale nel 1984, Bush padre e Dukakis nel 1988, non esprimono linee politiche realmente diverse. La competizione tra Clinton e Dole nel 1996, tra Bush figlio e Gore nel 2000, e tra Bush e Kerry nel 2004, non muta in nulla le tendenze imperialistiche imposte dall’assetto dell’economia americana. Questa mancanza di differenze sostanziali all’interno dell’oligarchia spiega la progressiva manomissione dei diritti civili e della legalità internazionale nell’America di Clinton e di Bush.
19. Il voto democratico contrasta quasi sempre il bene comune della collettività. La credenza che la maggioranza dei cittadini sia di per se stessa, proprio in quanto maggioranza, depositaria del bene comune della cittadinanza, poggia su una doppia falsa identificazione, quella del bene collettivo con la somma delle utilità particolari, e quella dell’utilità singolare con l’interesse soggettivamente rappresentato. Se ciò che l’individuo si rappresenta come proprio interesse sul piano collettivo fosse il suo effettivo utile singolare, e se l’insieme preponderante di singole utilità fosse il bene comune, allora il voto democratico, in cui ognuno esprime il proprio interesse politico, manifesterebbe il bene comune. Ma entrambe le premesse di questo ragionamento sono false.
La sfera della politica è la sfera dell’universalità della cittadinanza, nella quale la maggioranza degli individui non sa concepirsi, perché la natura umana spinge i più all’adattamento, anche mentale, alla particolarità. Il popolo, quindi, per poter esercitare quel simulacro del suo potere sovrano che è la partecipazione elettorale, deve farsi somministrare informazioni, orientamenti e alternative di scelta da mediatori funzionali, che variano a seconda delle epoche (possono essere autorità religiose, clan di notabili, partiti politici, sistemi di comunicazione), e che sono comunque espressione di poteri oligarchici. I mediatori funzionali della democrazia creano in ogni epoca un immaginario politico che deforma la rappresentazione mentale degli interessi rispetto alle utilità effettive. Diventa, così, normale che moltissimi elettori votino sulla base dei propri supposti interessi, in contraddizione con ciò che sarebbe loro effettivamente utile. Ne è un esempio il referendum abrogativo del sistema elettorale proporzionale svoltosi in Italia il 18 aprile 1993. Era elementare utilità del cittadino comune mantenere il peso del proprio voto e la possibilità di farlo contare a vantaggio della forza politica a lui più congeniale. Ma i grandi mediatori (unanime la stampa) costruirono la rappresentazione di un interesse del cittadino a liberarsi, attraverso l’eliminazione del proporzionale, della crisi di governo e delle paralisi decisionali, di tangentopoli e della partitocrazia. Così l’82% dei votanti votarono per la futura espropriazione del loro voto, a meno che non fosse dato ad una delle due coalizioni speculari, credendo di votare, secondo quanto loro suggerito dalla maggioranza dei partiti (DC e PDS in testa), contro…i partiti!
Peraltro, quand’anche gli elettori dessero il loro voto ciascuno in funzione della sua effettiva utilità (cosa che in genere non accade), rimane il fatto che, come diceva Socrate, l’utile della maggioranza non è il bene della città. Anche se il mantenimento del sistema di vita americano corrisponde all’utile della maggioranza del popolo americano, esso lo degrada spiritualmente e ne prepara la rovina.
20. Socrate e Platone, culturalmente formatisi entrambi nello spazio dell’antica democrazia di Atene, individuarono filosoficamente il difetto del sistema politico democratico nel suo indifferentismo etico, connaturato alla sua assolutizzazione del principio di maggioranza. Quello che Norberto Bobbio ha sempre considerato il pregio della democrazia, vale a dire il suo consistere di regole soltanto procedurali, avulse da ogni contenuto della vita statale, in modo da lasciare la determinazione dei contenuti da realizzare volta a volta alla maggioranza dei cittadini, era stato individuato da Socrate e Platone come il suo più grave e irrimediabile difetto. Un sistema politico che, per il suo puro proceduralismo congegnato soltanto per arrivare a una decisione di maggioranza, non incorpora alcuna finalità etica, distrugge secondo loro il concetto stesso del bene comune, la cui perdita non può che significare la rovina della comunità. La perdita del senso del bene comune consegue alla democrazia, nell’indagine di Socrate e Platone, proprio perché essa, in quanto democrazia, ne affida le determinazione, secondo le sue regole procedurali, al voto della maggioranza del popolo, cioè mediante una forma di determinazione del tutto incongrua rispetto all’oggetto in questione. Il bene, infatti, è un oggetto di natura ideale e teoretica, che non può quindi essere determinato che da un sapere specifico. L’intera filosofia di Platone, come, molti secoli dopo, quella di Hegel, converge nella elaborazione delle specifiche argomentazioni dialettiche attraverso le quali si può giungere al sapere del bene. Ma se la nozione del bene comune può essere afferrata soltanto da quei pochi che ne possiedono lo specifico sapere, non ha senso metterne ai voti il contenuto. Chiunque, dice il Socrate dei dialoghi platonici, considererebbe assurdo mettere ai voti la soluzione di un problema di geometria, e riterrebbe sensato soltanto affidarla all’esperto matematico. Ma mettere ai voti un problema etico-politico è ancora più assurdo, perché il concetto del bene, da cui soltanto può discenderne la soluzione, è di comprensione ancora più difficile di un teorema di geometria. La massa popolare, del tutto priva delle alte capacità argomentative e della logica specifica con cui afferrare il bene, non sa pensare in termini etico-politici. La politica, quindi, quando rende il popolo arbitro in ultima istanza delle sue decisioni, perde il suo nesso con l’etica e decade nell’utilitarismo, il quale decade a sua volta in una atomizzazione della società che rende irriconoscibile perfino l’utile. Questa tendenza della democrazia a distruggere l’etica e degradare la politica ha una controprova storica: persino i due tentativi di costruzione della democrazia sorretti da una forza ideale e da uno sforzo di educare il popolo alla politica, come quello dell’Atene periclea e della Francia convenzionale, sono decaduti dall’etica all’utilitarismo violento.
21. La democrazia è una forma politica che tende a dissolvere, nel suo contenuto decisionale, ogni riferimento al bene comune della collettività, in quanto si esaurisce in regole non eticamente connotate, ma puramente procedurali, che fanno prevalere la maggioranza solo perché maggioranza.
Ciò accade necessariamente, sia per la ragione individuata da Socrate e Platone, e cioè che la determinazione del bene esige uno specifico sapere teoretico del tutto estraneo alla pragmaticità ignorante del voto di maggioranza, sia per una ragione che Socrate e Platone non potevano sapere, perché soltanto l’emergere del capitalismo può darne la coscienza.
Si tratta di questo: la democrazia è un sistema formale, costituito cioè da regole puramente procedurali, prive di intrinseche finalità di contenuto sociale; il contenuto sociale di un sistema politico formale si organizza però esso stesso in sistema, un sistema di relazioni dotato di una propria dinamica autoriproduttiva; nella misura in cui il sistema politico è formale, il suo contenuto sociale dà luogo a un sistema che, non essendo organizzato da quello politico, gli si rende sempre più autonomo, diventando autoreferenziale; nella relazione tra una forma politica priva di scopi propri, e un contenuto sociale regolato da intrinseci scopi sistemici, la forma politica subisce l’attrazione gravitazionale degli scopi sistemici, e le sue procedure si deformano per adattarvisi.
La democrazia antica, per questo motivo, è stata un sistema di regole definite come formalmente neutre rispetto ai contenuti sociali, ma di fatto operanti in funzione degli scopi del sistema sociale schiavistico, cioè dell’esenzione dal lavoro degli uomini liberi e della riduzione delle intere persone dei lavoratori ad oggetti di proprietà acquistabili come merci. Questa situazione, tuttavia, non risulta individuabile dal pensiero antico, perché non si era compiutamente sviluppata nei fatti. La democrazia non era del tutto formale, perché le sue regole sotto certi aspetti erano connesse alla sfera del sacro ed alla identità etnico-religiosa della comunità, e, di conseguenza, gli scopi intrinseci al modo di produzione schiavistico non erano del tutto autoreferenziali, ma erano invece parzialmente innestati nell’autoriproduzione della comunità politica.
Il capitalismo invece, emerge come il primo sistema sociale integralmente “privato”, cioè autonomizzato compiutamente dal sistema politico. Ma è proprio questa sua autonomizzazione che, da un lato, economicizza la società (l’economico non è che il sociale avulso da determinazioni sacrali ed etiche), e, dall’altro, isola il sistema politico nella sua formalità, quindi come democrazia. Il capitalismo, quindi, porta a compimento la democrazia, ma, proprio nel compierla, la avvia alla degradazione, perché ne piega le procedure, solo apparentemente neutre, al suo scopo integralmente economico, cioè allo scopo della mercificazione e dell’accumulazione senza scopo dell’astratto valore di scambio.
22. La democrazia reale, dunque, è un’oligarchia capitalistica che si appella al consenso popolare, e che, per ottenerlo, degrada progressivamente il pensiero e la prassi del popolo stesso, e progressivamente spoglia di ogni qualità spirituale, e di ogni autentica politicità, la dirigenza politica.
Ciò sembra contraddetto da molteplici esempi di storia gloriosa delle democrazie: citando a caso, la guerra vittoriosa delle democrazie anglosassoni, assieme alla Resistenza europea, contro il nazifascismo; le democrazie nate dalla Resistenza, di cui è monumento la nostra Costituzione del 1948; Il New Deal roosveltiano; le democrazie del Welfare State; e, più indietro nel tempo, la democrazia rivoluzionaria francese del 1792 o del 1848; o, ancor più remotamente, la democrazia ateniese vittoriosa a Maratona e a Salamina.
Sarebbe facile mostrare, in ognuno di questi momenti della democrazia, sottostanti avidità commerciali, limitazioni classiste, violenze eticamente ingiustificabili, aree oscurate di esclusione dall’applicazione dei principi ideali, che ne rendono la storia meno gloriosa di quanto sia stato propagandato. Ma non è questo il punto. Perché comunque, per quanto siano state fattualmente difettive le idealità in quei momenti conclamate, esse furono idealità che riempirono effettivamente di senso la democrazia, in ragione delle loro ricadute storiche. Il fatto che nella guerra delle democrazie anglosassoni al nazifascismo abbiano giuocato i duri egoismi d Churchill, l’esigenza americana di esportare tecnologie americane nel Vecchio Continente, per renderlo acquirente dell’America, l’abbandono della Resistenza italiana con il proclama Alexander, il bombardamento terroristico di Dresda, e quant’altro, non le toglie il grande merito storico di aver sottratto il mondo all’orrore hitleriano, di aver suscitato nei popoli slanci generosi, di aver fatto crescere un immaginario di libertà.
Il punto vero è che, ad esaminarli bene, questi valori storici espressi da alcuni momenti della democrazia si rivelano non prodotti sistemici della democrazia, ma sue contingenti protesi esterne, costruitesi nel congiungimento di tradizioni anteriori alla democrazia capitalistica, sopravvissute per inerzia sociale, con minacce mortali alla democrazia stessa. Non ci sarebbe stato il New Deal senza la minaccia della grande crisi economica del ’29. Non ci sarebbe stato il Welfare State senza le minacce del comunismo e del sottoconsumo. Non ci sarebbero stati i principi della nostra Costituzione del 1948 senza la minaccia proiettata sul futuro della notte fascista.
Contro queste minacce, la democrazia ha assunto, accanto agli scopi prettamente capitalistici che da soli l’avrebbero lasciata soccombere, scopi di coesione sociale, di ordine legalitario, di riduzione dell’uso e dell’arbitrarietà della violenza, che le hanno consentito di parare vittoriosamente le più gravi minacce, ma che non sono derivati dai suoi propri principi proceduralistici e maggioritari, bensì sono un’eredità di storie passate che la sua pura formalità aveva lasciato sussistere.
23. La democrazia, in quanto sistema politico costituito dal formalismo di regole procedurali, senza alcuna finalità di contenuto sua propria, può proprio per questo storicamente connettersi a finalità di altri sistemi. La democrazia dei cosiddetti “livellatori” del Seicento inglese si intrecciava alle finalità del sistema etico-religioso puritano. La democrazia dei rivoluzionari francesi di fine Settecento si intrecciava con le finalità del sistema ideale della nazione, era la democrazia della “grande nazione”. Nell’Ottocento il luogo della democrazia, si pensi a Mazzini e a Kossuth, è apparso lo Stato-nazione, e, d’altra parte, gli stati democratici hanno assunto le finalità del sistema del costume sociale borghese.
Questi intrecci hanno mantenuto in vita sistemi democratici non compiutamente formali e proceduralistici, e quindi non compiutamente tali, per l’eterogeneità dei sistemi etici, religiosi, etnici e di costumi rispetto al sistema politico democratico. L’unico sistema di contenuto omogeneo ad un sistema politico formale come la democrazia è un sistema puramente economico, quindi il capitalismo, perché un contenuto senza forma e una forma senza contenuto, entrambi senza idealità e senza eticità, possono perfettamente integrarsi.
La democrazia compiuta è quindi la democrazia capitalistica, perché dal capitalismo la democrazia non può trarre alcun principio ideale di regolazione sociale, che esso non ha, da cui risulti alterato da incrostazioni di teleologia sociale il suo puro proceduralismo. Ma in quanto capitalistica, la democrazia reale è antropologicamente degradante. I mediatori funzionali del consenso popolare, infatti, per svolgere efficacemente la loro funzione, debbono avere la forza di manipolare il consenso, che non possono trarre altro che dall’uso delle forze diffuse dal capitalismo, quali il danaro, la reificazione, la mercificazione, la strumentalità dei rapporti. I mediatori funzionali della democrazia, quindi, tendono a degradare lo spirito del popolo, e, di conseguenza, a degradarsi, perché l’occupazione dei ruoli di potere politico, dipendendo dalla suddetta forza di manipolazione del consenso, seleziona i peggiori dal punto di vista etico. Man mano, quindi, che il capitalismo va ad occupare tutto lo spazio sociale, diventandone l’unico sistema, e dissolvendo i sistemi precedenti, come la nazione, la democrazia non eredita più dalla storia scopi ideali, per cui la sua vita si degrada ad oscure e sordide lotte di potere tra fazioni prive di vera progettualità politica.
24. La democrazia reale, come sistema di pure procedure, prive di qualsiasi loro propria finalità sociale, mediante le quali l’accesso al potere statale di diversi e antagonistici gruppi oligarchici viene regolato senza violenza dal voto popolare, diventa dunque compiutamente tale quando si costituisce davvero come formalismo procedurale, lasciando autonomizzarsi il contenuto sociale in una dinamica autoriproduttiva sua propria, vale a dire meramente economica e perciò capitalistica, e piegandosi alle determinazioni sociali che essa autonomamente e incessantemente produce.
Democrazia compiuta è dunque il sistema statuale proprio di un’economia capitalistica (senza che sia vero l’inverso, perché un’economia capitalistica può esprimersi in un sistema statuale anche niente affatto democratico). Ciò in quanto l’economia capitalistica, avendo la capacità di riplasmare ogni aspetto dell’esistenza umana come propria determinazione, degrada alla fine il popolo a massa atomizzata di venditori e compratori di oggetti e di prestazioni lavorative, incapace di utilizzare le procedure democratiche al di fuori delle canalizzazioni predisposte da sempre più ristretti gruppi oligarchici. Questa utilizzazione delle procedure, attraverso la quale una massa serializzata e senza identità si distribuisce in maniera irriflessa e meccanica tra proposte precostituite e strutturalmente simili, dando i numeri in base ai quali il potere statuale viene distribuito fra gli oligarchi, rappresenta infatti l’unico modo in cui la democrazia può realmente funzionare.
Nel 1970, in Cile, le forme procedurali della democrazia decretarono la vittoria di Salvador Allende e della sua proposta politica di restituire alla nazione cilena le sue ricchezze minerarie espropriate dal capitale straniero e le rendite drenate dalla sua oligarchia economica, al fine di garantire un’esistenza dignitosa a tutto il popolo. Fin dall’inizio, questa proposta politica viene contrastata non mediante le procedure democratiche secondo le quali era risultata vincente, ma con gli strumenti dell’eversione violenta, dei complotti sotterranei, degli attacchi terroristici, promossi e coordinati dalla CIA e dal segretario di Stato americano Kissinger. L’uccisione di Allende con l’attacco militare alla Moneda dell’11 settembre 1973, e il successivo orrore dei 30000 sequestrati, torturati e assassinati hanno rappresentato il paradigma di come la democrazia cessi automaticamente di funzionare quando le sue procedure sono usate in maniera antioligarchica. Essa può tornare a funzionare soltanto come regola di soluzione dei conflitti e di scelta dei governanti entro un ambito strettamente oligarchico, cioè appunto come democrazia capitalistica.
25. Un diffuso senso comune, che può ancora oggi sembrare dotato di un’evidente verità, ha per lungo tempo ritenuto ovvio che la soppressione violenta della democrazia, ogni volta che le sue procedure abbiano avvallato scelte politiche contrarie agli interessi complessivi dell’oligarchia del denaro, dimostri proprio il contrario di un’omogeneità tra capitalismo e democrazia. Le procedure democratiche, cioè, sarebbero distorte nel loro funzionamento dagli interessi capitalistici, sempre abbastanza forti da piegarle al loro servizio, per cui la democrazia, perennemente incompiuta e in larga misura ineffettuale finché rimane soltanto formale, e perciò incapace di resistere ad un contenuto socioeconomico che la deforma, potrebbe compiersi diventando espressione di una società regolata da principi di eguaglianza economica. La democrazia capitalistica, quindi, non sarebbe affatto la democrazia reale, ma sarebbe, al contrario, una falsa democrazia, e la democrazia potrebbe inverarsi e compiersi come democrazia proprio superando il suo carattere formale, con cui si adatta al capitalismo, e dandosi un contenuto socioeconomico egualitario oltre il capitalismo.
L’apparente verità di questa posizione deriva dall’evidente constatazione che, in regime capitalistico, la democrazia non è che una oligarchia del denaro. Non si riflette, però, sul fatto che da questa constatazione possono logicamente derivare due conseguenze, non una: o che la democrazia reale è quella che da formale si fa sostanziale, sostanziandosi nell’eguaglianza socioeconomica, oppure che la democrazia reale non è che una forma particolare di oligarchia che si autorappresenta come sovranità popolare. La prima tesi può essere vera soltanto sulla base del postulato che il popolo, liberato dalla sua sottomissione al sistema capitalistico, diventi capace di far funzionare un suo reale autogoverno.
Le cosiddette democrazie popolari nate dopo la seconda guerra mondiale rappresentano la smentita fattuale di tale postulato. Esse hanno abolito la democrazia formale, ma tale abolizione, che nella loro autorappresentazione ideologica era il suo inveramento in una democrazia sostanziale centrata sulla classe operaia e proiettata verso il futuro di una società senza classi, è stata una realtà di regressione ad una forma di dominio ancor più restrittiva delle libertà civili della democrazia capitalistica.
26. Il problema se il popolo, liberato dalla sua sottomissione al sistema capitalistico, sia capace o meno di esprimersi in una democrazia sostanziale, è stato poi cancellato sul piano fattuale dal processo di autoriproduzione dei rapporti capitalistici di produzione.
Questo processo storico e sistemico, infatti, estendendo oltre quanto sembrava concepibile la sussunzione reale al capitale di ogni aspetto del mondo umano e naturale, ha disperso la soggettività rivoluzionaria, degradato l’idea di nazione, e destrutturato il popolo. Ne sono residuati sterili fondamentalismi contrapposti e intrecciati, figli entrambi della postmodernità ipercapitalistica, quello religioso dei paesi deboli, e quello mercantile dei paesi forti.
Nei paesi forti a democrazia capitalistica ogni determinazione sociale è direttamente dettata dal meccanismo economico autoreferenziale, e le procedure democratiche servono a selezionare e gerarchizzare, nell’ambito del ceto professionale cosiddetto politico, gli amministratori della società creata dal capitale.
Non ci sono più reali alternative sociali, politiche, ideali. La massa serializzata che non è più né nazione né popolo, peraltro, accetta la sottomissione alla dittatura dell’economia mercantile non perché costretta da una forza che annulla la sua volontà democratica, ma, al contrario, perché non ha alcuna volontà democratica di rifiutarla. Essa vota dappertutto, ininterrottamente, alla quasi unanimità o, nella meno peggiore delle ipotesi, a larghissima maggioranza, a favore dei dettami imposti alla società dalle regole dell’economia asociale. Vota in questo modo non tanto nella scelta, una volta ogni tanto, dei partiti che lo rappresentano nelle istituzioni, quanto piuttosto nelle scelte, quotidiane e più sostanziali, dei beni da consumare, dei mezzi con cui spostarsi, degli obiettivi da perseguire nelle relazioni con gli altri.
Il consumo di massa di beni superflui, l’adesione di massa ad ogni nuova tecnica proposta, l’uso di massa di mezzi di trasporto basati sul consumo di petrolio, e la diffusione di massa della priorità data alla carriera, all’utile monetario ed al successo d’immagine come obiettivi di vita, rappresentano un voto democratico generale per il capitalismo, che è a sua volta espressione di una compiuta incorporazione della società nel capitale. Il problema di cosa sia capace il popolo liberato dalla sottomissione al capitalismo è dunque cancellato dal fatto che il popolo non vuole affatto liberarsene, e non esiste neanche più come popolo.
27. L’odierno capitalismo assoluto, quanto più estesamente e profondamente sequestra la vita umana, animale e vegetale alla sua dinamica autoriproduttiva, tanto più diventa, paradossalmente, vulnerabile dalla soggettività, al punto che la semplice esistenza di una soggettività diffusa lo dissolverebbe. Esso è fortissimo e senza alternative presenti perché, sussumendo a sé tutto, anche l’animo umano, ha eliminato a livello di massa la soggettività stessa.
Altre fasi del capitalismo hanno dato luogo a soggetti collettivi antagonistici al suo sistema di dominio, e tuttavia privi della forza pratica e ideale per superarlo, che hanno speso sangue e sofferenze nella lotta contro di esso. Oggi, là dove, nei paesi deboli, si versa ancora più sangue in una resistenza comunque meritoria ad un imperialismo ancora più orribile, le ideologie di resistenza non mettono in questione il capitalismo, e le loro pratiche ne riproducono l’imbarbarimento. Nei paesi forti non ci sarebbe neanche bisogno di sangue e di sofferenze per una lotta efficace al capitalismo, e basterebbe, per distruggerlo, una soggettività ancora diffusa, neanche antagonistica. Esseri umani che fossero ancora soggetti, e non singoli svuotati di soggettività e ridotti ad esecutori meccanici degli imperativi sistemici, manterrebbero, anche in mancanza di antagonismo ideologico, soltanto per non sentirsi invasi dalle coazioni, derubati di danaro e privi di spazio interiore, uno stile di consumo più sobrio, evitando di riempire ogni volta i carrelli dei supermercati, di cadere nella trappola dello scambio obbligato e faticoso di regali alle feste comandate (dal capitale, ormai), di acquistare troppi abiti e troppo costosi, di entrare nelle profumerie e nelle gioiellerie. Manterrebbero, inoltre, un’inerzia al rinnovamento dei mezzi tecnologici offerti con ritmo incessante a tempi sempre più demenzialmente rapidi. Perché, ad esempio, adottare la carta di credito, che ha le sue comodità, ma anche i suoi costi ed i suoi rischi, e di cui, soprattutto, si può fare tranquillamente a meno? Perché acquistare senza una specifica necessità il telefono cellulare, di cui appena poco tempo fa nessuno avvertiva la mancanza, e che rende perennemente invaso e nevroticamente frammentato il proprio spazio comunicativo privato? La diffusione di uno stile più sobrio di consumo e di una sana diffidenza per le novità della tecnica bloccherebbe il meccanismo di realizzazione del plusvalore, e dunque l’accumulazione senza fine di denaro. Così come una scelta diffusa, anche motivata soltanto dalla riscoperta del piacere individuale, al di là delle coazioni seriali, di spostarsi a piedi, in bicicletta, in monopattino, in tranvai, usando mezzi motorizzati individuali soltanto in mancanza di alternative praticabili, metterebbe immediatamente in crisi sotto vari aspetti il modello capitalistico di vita. La potenza intrascendibile del capitalismo, in conclusione, è molto più che in fasi precedenti un’illusione e non una realtà, ma la base di questa illusione, cioè la sussunzione della stessa singolarità personale al capitale, da cui risulta abolita la soggettività, è una ben consolidata realtà e non un’illusione.
28. Possiamo tirare ora conclusioni che sono di un’evidente verità, anche osservabile, e tuttavia rimosse ed esorcizzate dal pensiero sociologico e politico.
Il modo di produzione capitalistico, fino a pochi decenni fa limitato, entro ogni formazione sociale in cui operava, da altre istituzioni, che ne proteggevano bensì gli interessi e ne promuovevano lo sviluppo, ma seguendo al loro interno criteri non capitalistici, è diventato capitalismo assoluto, perché ha distrutto ogni logica istituzionale non capitalistica, arrivando per la prima volta nella storia a coincidere, nei paesi più sviluppati, con la formazione sociale, e perché ha economicizzato, e quindi trascinato nella sua dinamica riplasmatrice a fini accumulativi, anche qui per la prima volta nella storia, territori della realtà, come interi segmenti di vita biologica, un tempo considerati naturali. Queste sono le vere caratteristiche nuove del fenomeno che perciò solo impropriamente è chiamato globalizzazione. E’ improprio, tale termine (che ormai è entrato nell’uso) perché quella mondializzazione dei mercati a cui la parola allude non è affatto una novità storica.
Questo capitalismo assoluto è nello stesso tempo vulnerabile come mai il capitalismo è stato nella storia, e forte come mai il capitalismo è stato. E’ vulnerabile al massimo, perché non si riproduce se non con uno sviluppo incessante (il treno di cui si è parlato nei §§1-2) giunto al punto di provocare una devastazione dell’ambiente naturale tale da ripercuotersi, in prospettiva, in costi insostenibili per il sistema stesso; se non con una distruzione di ogni etica destinata a trasformare sempre più gli affari in malaffari alla fine ingestibili; se non con uno squilibrio tra offerta produttiva, capacità di consumo (via via inferiore) e capitale finanziario (di massa enormemente maggiore) che prima o poi si tradurrà in catastrofiche crisi finanziarie ed economiche.
Questo capitalismo è nello stesso tempo forte come non mai, perché le sue contraddizioni sempre più devastanti non attivano alcun vero antagonismo al suo interno, in quanto esso ha inglobato in sé persino la formazione mentale degli individui, svuotandoli di soggettività e trasformandoli in ottusi adattati. La democrazia, sia pure sempre più amputata di diritti umani e di canali informativi, e ridotta a mera registrazione di consensi e dissensi su figure di governo e controversie marginali enfatizzate come grandi alternative (registrazione che può essere anticipata e guidata dai sondaggi, tanto che si potrebbe parlare di una democrazia dei sondaggi), diventa così il terreno più omogeneo e favorevole, sul piano statuale, allo sviluppo del capitalismo: una volta che gli individui, perduta la loro soggettività, sono diventati consumatori bulimici, servi delle tecniche, drogati dell’automobile, nevrotici carrieristi, il suffragio universale di questi automi del capitale non può che portare consenso democratico agli automatismi del capitale, ed il capitalismo non può che lasciare spazio a questa democrazia.
29. Ma perché questo quadro così realistico è inaccettabile all’intero mondo intellettuale e politico, compresi quei militanti che, dicendosi impegnati a costruire una società diversa da quella attuale, dovrebbero voler guardare alla società che vogliono superare con la spregiudicatezza della verità, senza immaginarsi che vi siano cose che non vi sono?
Il mondo intellettuale e politico vive per la democrazia e della democrazia, per cui non potrebbe vederne il carattere oligarchico, corruttore, antimeritocratico e deemancipatore, senza disprezzare i poteri, i ruoli, le immagini e le prebende che ne riceve, e quindi si vieta di vederlo.
I settori più progressisti di questo mondo denunciano bensì difetti anche gravi della nostra democrazia attuale, ma, vietandosi di vederne l’inerenza strutturale alla democrazia reale, ne prospettano superamenti illusori. Ogni difetto viene così ricondotto ad una carenza di democrazia, il cui rimedio sarebbe quindi quello di realizzare più democrazia con il metodo della democrazia. Meno e più democrazia sono però espressioni ambigue, perché possono riferirsi sia alla sfera dei diritti e delle garanzie dei cittadini, sia alla derivazione delle decisioni politiche dal consenso popolare. Coloro che vogliono più democrazia mescolano questi due significati, come sarebbe lecito se si fosse all’epoca della Resistenza e all’alba della Repubblica, quando erano effettivamente intrecciati, ma come non è più lecito fare oggi, quando sono diventati addirittura antagonisti. Il consenso popolare non sostiene, infatti, nella democrazia reale contemporanea, l’allargamento della sfera dei diritti, ma avalla piuttosto il suo restringimento. Il maggior numero di voti popolari mai andati nella storia ad un presidente americano è stato ottenuto nel novembre 2004 da George Bush, l’uomo che negli anni precedenti ha abolito l’habeas corpus, eliminato le garanzie processuali, introdotto la detenzione senza processo a tempo indeterminato, autorizzato la tortura dei prigionieri, creato i lager di Guantanamo, Bagram, Diego Garcia. Queste informazioni erano di pubblico dominio quando è stato rieletto secondo le procedure democratiche. Si dovrebbe dunque prendere atto che alla maggioranza della popolazione non interessa affatto la violazione più brutale di elementari diritti umani, che non è su questo metro che valuta i suoi governanti. Invece, non volendosi riconoscere che democrazia della maggioranza numerica e democrazia dei diritti ormai divergono, e mantenendosi l’idea mitica che la maggioranza popolare democraticamente espressa ha sempre ragione, si cercano gli errori commessi nella presentazione della proposta politica al popolo. Questa ricerca, condotta con strumenti mentali rozzi ed approssimativi, sfocia sempre nelle solite due diagnosi, che sono in realtà presupposte: o si dice che non si è andati abbastanza incontro ai sentimenti diffusi nell’elettorato spoliticizzato e moderato (all’italiana: non si è saputo conquistare “il centro”), oppure che non si è mobilitato con proposte più incisive e radicali il proprio elettorato potenziale.
La prima diagnosi ha il solo effetto di rafforzare l’omologazione delle forze cosiddette politiche nella subalternità ai dettami dell’economia asociale. Questa omologazione è comunque in atto, perché è il presupposto della democrazia reale. Si è già osservato come la popolazione voti ogni giorno democraticamente per il capitalismo più asociale consumando tutti i beni offerti dal mercato, adottando ogni nuova tecnica sfornata dall’industria, usando sempre l’automobile. Ma essa vota per il capitalismo più asociale anche quando vota per i partiti nelle elezioni ufficiali. Si dovrebbero trarre le conclusioni dal fatto che sempre e dappertutto in Occidente le coalizioni di partiti di centro-destra e centro-sinistra che si alternano nella conduzione dello Stato accettando la dittatura dell’economia fanno il pieno dei voti popolari.
La seconda diagnosi rimane invece priva di effetti. Le forze che, avendo qualche peso, mirano ad una politica non totalmente subalterna all’economia e volta anche alla giustizia, infatti, non mantengono poi un impegno conforme ai loro scopi dichiarati, perché, per garantirsi una presenza nelle istituzioni democratiche, si alleano con una coalizione abilitata a governare, o addirittura entrano a farne parte, ritenendo, con un puro adattamento di immaginazione, di poterla parzialmente sottrarre alla dittatura dell’economia. La base reale di questa illusione è un ceto politico professionale mai attrezzato a far politica al di fuori delle risorse e della visibilità garantite dalle istituzioni.
30. Qual è, allora, la strada?
Una strada già tracciata, che richieda solo la raccolta di forze atte a percorrerla, non c’è, e non c’è neppure un progetto compiuto da tradurre in pratica con la mobilitazione politica. Le grandi strade percorse dalla politica del Novecento, vale a dire la liberaldemocrazia, la socialdemocrazia, il fascismo ed il comunismo, si sono rivelate tutte strade senza uscita, terminate in altrettante barriere che le chiudono al futuro.
Il problema dell’oggi non è quello di disegnare un sistema socioeconomico e politico alternativo a quello vigente, semplicemente perché un sistema nuovo è fuori dall’attuale visibilità storica, e non ci sono gli elementi con cui progettarlo.
Il problema, oggi, è quello di uscire al più presto dal sistema socioeconomico e politico vigente, semplicemente perché esso ha ormai innescato effetti catastrofici per l’intero genere umano.
Ma come si fa ad uscire da una strada se non ce n’è davanti un’altra? La risposta corretta a questa domanda è che ci occorre che gli interventi sociali e politici siano fatti non più secondo il criterio oggi unico della convenienza aziendale, per il quale si può fare soltanto, e si deve fare comunque, ciò che, fatto da un’azienda ad un determinato costo monetario, possa essere venduto dall’azienda stessa con un ricavo monetario significativamente superiore al costo sostenuto, ma secondo criteri diversi. I nuovi criteri regolatori degli interventi sociali e politici dovrebbero essere i seguenti: non tutto ciò che è aziendalmente conveniente produrre dovrebbe essere prodotto, in mancanza di evidente utilità sociale; l’introduzione di nuove tecniche dovrebbe essere sospesa a tempo indeterminato, salvo eccezioni dirette a soddisfare ben individuati bisogni essenziali; dovrebbe essere data, ad ogni bisogno meritevole di soddisfacimento, tra le diverse possibili configurazioni di beni e servizi atte a soddisfarlo, quella incorporante la minore quantità di merce, consumo energetico e spostamento geografico; nel calcolo del costo di un bene economico, per verificare che non ecceda la convenienza a produrlo, dovrebbero essere considerati non soltanto i prezzi monetari dei suoi fattori di produzione, ma anche i danni sociali in termini di emissioni nocive, inquinamento acustico, disgregazione etica, stravolgimento territoriale; ugualmente, nel calcolo del ricavo utile alla produzione di un bene economico dovrebbe essere considerato non soltanto il ricavo in danaro, ma anche quello dell’eventuale vantaggio sociale di migliori servizi alla popolazione e di una più equa distribuzione delle risorse; sul piano politico e amministrativo le scelte dovrebbero essere guidate dallo scopo di assicurare a tutti senza eccezione la soddisfazione dei bisogni essenziali ed il godimento dei diritti civili, garantendo l’applicazione di una legge realmente eguale per tutti.
Affidandoci a questi principi, usciremmo da un sistema che sta portando a rovina sicura ed abissale il genere umano. Avremmo davanti, però, non la strada della transizione verso un nuovo sistema previsto dalla conoscenza storica o prefigurato da un progetto collettivo, ma un cammino verso l’ignoto irto di ostacoli capaci di spezzarci le gambe. Facciamo un solo esempio di questi ostacoli. Seguendo i nuovi criteri esposti di intervento sociale e politico, i bisogni collettivi dovrebbero essere soddisfatti con un volume progressivamente ridotto di merci consumate, energia impiegata, trasporti utilizzati, scambi commerciali effettuati. Ciò è perfettamente attuabile sul piano tecnico ed assolutamente necessario su quello ambientale (il cosiddetto sviluppo sostenibile è infatti soltanto un mito, essendo oggi ogni sviluppo in quanto tale ambientalmente insostenibile), ma è contrario alla logica del funzionamento capitalistico, che, d’altra parte, non può essere messa fuori giuoco in tempi brevi, avendo essa distrutto le forme preesistenti di integrazione sociale, e creato connessioni sue proprie come le uniche esistenti tra gli elementi atomizzati della società. Questa logica di funzionamento farebbe automaticamente derivare, da una costante diminuzione annua del prodotto interno lordo, aumenti vertiginosi di disoccupazione, fallimenti industriali per contrazione di domanda monetaria, crolli di borsa, crisi finanziarie. Si tratterebbe, allora, di affrontare questi problemi con i nuovi principi, attraverso una ristatualizzazione dell’economia ed una rottura di accordi internazionali, badando a non farsi spezzare le gambe da problemi così grossi (sarebbe comunque meno peggio continuare carponi il cammino, che farsi uccidere a gambe ancora funzionanti dalla valanga della rovina inevitabile del sistema oggi vigente).
Ma i problemi più grossi non sono neppure quelli che incontreremo uscendo dall’attuale strada verso l’abisso. Sono piuttosto i seguenti: se tutte le forze politiche attuali, di peso anche minimo, sono integrate nel sistema democratico a sua volta integrato nell’economia asociale, e se non esistono soggettività sociali davvero antagonistiche, che cosa potrà mai veicolare un’uscita dal sistema vigente? Chi mai potrà imporre nuovi criteri di intervento sociale e politico, e con quali mezzi, quali apparati statuali adeguati che oggi non esistono?
Diciamo la verità: a tempi brevi la partita è già persa. A tempi brevi non esistono che le illusioni di una militanza integrata anche quando si crede alternativa. I mitici movimenti, compreso quello pacifista e antiglobalizzatore, si muovono episodicamente, alle scadenze imposte dal potere, senza morderne le basi. Gli ambientalisti accettano cariche ed aderiscono a schieramenti in cui nulla si può fare per fermare il degrado ambientale.
A tempi brevi quel che occorre è un manipolo coeso che testimoni i criteri di giudizio politico e sociale adatti a farci uscire dalla strada verso l’abisso, e che tragga la sua coesione dalla coerenza ideale della sua testimonianza, intesa non come la vecchia dogmatica sulla storia, le classi ed il partito della scolastica marxista, ma come adesione a valori anticapitalistici riguardo a tutte le sfere, non soltanto alcune, dell’esistenza sociale e individuale. Questa testimonianza va tenuta in vita perché la sua proposta acquisti efficacia storica quando il dominio dell’attuale sistema sulla vita e l’anima degli uomini sarà incrinato dall’ingigantirsi e dal rendersi sempre più immediati e visibili dei suoi danni.