lunedì 29 agosto 2016

Un discorso di Hegel


(Nel 1808 Hegel assunse l'incarico di rettore del Ginnasio di Norimberga. Nel settembre del 1809, a conclusione del primo anno scolastico, tenne il seguente discorso sul significato degli studi classici. Paolo Di Remigio ci propone questa traduzione commentata. Leggendola siamo stato colpiti dalla lucidità e dall'attualità delle parole di Hegel su cosa siano cultura ed educazione. Per questo ci sembra interessante proporvelo. Ringraziamo l'amico Di Remigio per questa opportunità. Il testo appare anche su "Appello al popolo". M.B.)




In occasione del conferimento solenne dei premi che l'Autorità Suprema conferisce agli alunni distintisi per i loro progressi al fine di gratificarli e ancor più di spronarli, sono incaricato da Graziosissimo Ordine di illustrare in un pubblico discorso la storia del Ginnasio nell'anno passato, e di toccare quegli argomenti di cui può essere utile parlare per la loro relazione al pubblico. L'invito alla deferenza con cui ho da compiere questo incarico è proprio della natura dell'oggetto e del contenuto, che consiste in una serie di liberalità del Re o di loro conseguenze, e la cui illustrazione implica la necessità di esprimere la più profonda gratitudine per esse –una gratitudine che, insieme al pubblico, mostriamo alla cura sublime che l'Autorità dedica agli Istituti pubblici di istruzione1. – Ci sono due rami dell'amministrazione pubblica per il cui buon ordinamento i popoli usano essere più di ogni altra cosa riconoscenti: buona amministrazione della giustizia e buoni istituti di istruzione; infatti soprattutto di questi due rami, dei quali uno tocca la sua proprietà privata in generale, l'altro la sua proprietà più cara, i suoi figli, il privato comprende e sente i vantaggi e gli effetti immediati, vicini e individualizzati.
Questa città ha riconosciuto il bene di un nuovo ordinamento scolastico con tanta più vivacità quanto maggiore e più universalmente sentito era il bisogno di un cambiamento2.
Il nuovo Istituto ha poi avuto il vantaggio di seguire Istituti non nuovi, ma antichi, durati più secoli; così gli è si potuta connettere la pronta rappresentazione di una lunga durata, di una permanenza, e la fiducia corrispondente non è stata disturbata dal pensiero opposto che il nuovo ordinamento sia qualcosa di soltanto fuggevole, di sperimentale, – un pensiero che spesso, in particolare quando si fissa negli animi di coloro ai quali è affidata l'esecuzione immediata, finisce con lo svilire di fatto un ordinamento a un mero esperimento3.
Un motivo interno di fiducia è però che, nel migliorare ed estendere essenzialmente il tutto, il nuovo Istituto ha conservato il principio dell'antico e ne è soltanto una prosecuzione. Ed è notevole che questa circostanza costituisca il caratteristico e l'eccellenza del nuovo ordinamento4.
Poiché l'anno scolastico che si conclude è il primo e la storia del nostro Istituto in questo anno è la storia del suo sorgere5, è troppo vicino il pensiero di tutto il suo piano e del suo fine, perché possiamo distoglierne la nostra attenzione e dirigerla già a suoi casi singoli. Poiché la cosa stessa è appena nata, la sua sostanza tiene ancora occupate la curiosità e la riflessione pensante. Quanto c'è di singolo, poi, in parte è noto dagli annunci pubblici; in parte è contenuto insieme all'ulteriore dettaglio (che cosa e come e a quanti alunni sia stato insegnato quest'anno), nel catalogo scolastico stampato che sarà distribuito al pubblico. Mi sia dunque consentito, all'alta presenza di Sua Eccellenza e di questa eminente assemblea, di attenermi al principio del nostro Istituto e di esporre alcuni pensieri generali sulla sua condizione, sulla sua struttura e sul loro senso, per quello che l'attività dispersiva che in questo momento il mio ufficio porta con sé mi permette di mettere insieme6.
Lo spirito e il fine del nostro Istituto è la preparazione allo studio teorico, una preparazione che è costruita sulla base dei Greci e dei Romani. Da qualche millennio è questo il terreno su cui è impiantata, da cui è germogliata e con cui è stata in costante rapporto ogni cultura. Come gli organismi naturali, piante e animali, si svincolano dalla gravità, ma non possono abbandonare questo elemento della loro essenza, così ogni arte e scienza è cresciuta su quel terreno; e sebbene sia diventata autonoma, non si è liberata dal ricordo di quell'antica formazione. Come Anteo rinnovava le sue forze al contatto con la Madre Terra, così ogni nuovo slancio e vigore della scienza e della cultura è sorto dal ritorno all'antichità7.
Come però è importante la conservazione di questo terreno, così è essenziale il cambiamento della sua situazione di un tempo. Quando ci si accorge di ciò che di insufficiente e di nocivo hanno i principi e gli ordinamenti antichi, e i mezzi e gli fini educativi ad essi legati, il primo pensiero che emerge è la loro completa eliminazione. Invece la saggezza delle Autorità, superiore a questo rimedio di facile apparenza, soddisfa nel modo più vero l'esigenza del nostro tempo, perché pone l'antico in un rapporto nuovo col tutto e così non solo ne conserva l'essenziale, ma lo muta e lo rinnova8.

venerdì 26 agosto 2016

Le grida

Dopo l'ennesimo disastro, le solite sacrosante parole di buon senso:


http://www.huffingtonpost.it/2016/08/24/mario-tozzi_n_11672740.html?utm_hp_ref=italy


http://sollevazione.blogspot.it/2016/08/scosse-che-altrove-non-uccidono.html




Parole sacrosante che non porteranno a nulla, grida manzoniane, come negli infiniti disastri precedenti, perché soltanto una classe politica degna di questo nome potrebbe farne buon uso. Ma quella che abbiamo in Italia non è una classe politica,  come abbiamo tante volte ripetuto, ma un ceto affaristico-delinquenziale unicamente interessato ai propri meschini interessi personali.


Aggiungiamo, a completamento, altre sacrosante parole, dovute a Bagnai, anche se i nostri lettori sicuramente le conoscono già:


http://goofynomics.blogspot.it/2016/08/amatrice-dormitio-virginis.html


http://goofynomics.blogspot.it/2016/08/qed-66-le-asimmetrie-europee.html

mercoledì 24 agosto 2016

Non c'è stato il diluvio

Uno degli argomenti dei sostenitori del sì, nella prossima campagna referendaria, sarà probabilmente quello della paura di conseguenze economiche negative, nel caso di vittoria del no. Può essere utile allora segnalare questo articolo pubblicato sul "Guardian", e tradotto da "Voci dall'estero", che mostra come le analoghe previsioni di sventura, in riferimento al referendum inglese, siano state smentite.

domenica 21 agosto 2016

L'Occidente è liberale?

Segnalo da "Militant" un articolo che condivido largamente


http://www.militant-blog.org/?p=13518


D'accordo, sono polemiche estive e fra poco avremo altro di cui occuparci. Mi sembra però rilevante un aspetto di queste vicende: è banale osservare che fra i principi fondamentali della civiltà liberale vi è quello per il quale ciascuno è libero di fare quello che vuole finché non lede la libertà altrui. Il corollario è ovviamente che ciascuno va vestito come gli pare, con blandi vincoli di rispetto del "comune senso del pudore" (e il "burkini" non crea certo problemi di questo tipo!) e di eventuali norme di sicurezza (che sono l'unico fondamento sensato al divieto di coprire il volto in luoghi pubblici). Insomma, questo tipo di polemiche sarebbe semplicemente impensabile all'interno dei riferimenti mentali della civiltà liberale, per come l'abbiamo conosciuta. Quello che voglio suggerire è che questo tipo di polemiche estive rappresenti un altro piccolo segnale del declino di tale civiltà.

venerdì 19 agosto 2016

Ancora Stiglitz

Ancora sul libro di Stiglitz, segnalo questo intervento di J.Sapir, dal solito benemerito "Voci dall'estero". Risale a qualche mese fa, ma mi pare attuale.


http://vocidallestero.it/2016/03/04/sapir-king-stiglitz-e-leuro/

mercoledì 17 agosto 2016

Inizia la campagna d'autunno

I manuali militari insegnano, credo, che le offensive sono precedute da massicci bombardamenti. Sta iniziando, a livello internazionale, il bombardamento mediatico a favore del Sì al referendum:


http://www.repubblica.it/politica/2016/08/17/news/referendum_costituzionale_allarme_usa_ue-146115431/

lunedì 8 agosto 2016

Democrazia e conoscenza (P.Di Remigio)


(Riceviamo da Paolo Di Remigio e volentieri pubblichiamo questo intervento, già apparso su "Appello al popolo". M.B.)


Democrazia e conoscenza
Paolo Di Remigio

I discorsi abituali sulla politica e sull’uomo riservano valore ai desideri e disprezzo alla realtà fattuale. Poiché ai desideri corrispondono i giudizi di valore, sembra che questi, dopo essere stati distinti dai giudizi di fatto, abbiano la furbizia di predicarsi di se stessi, sembra che di essi si possa dire che valgono proprio perché sono giudizi intorno al valore. Ma una breve riflessione è sufficiente a vedere l'errore e a capire che le cose stanno al rovescio: i desideri espressi dai giudizi di valore sono la sfera irriflessa dell’io, la libertà allo stadio primitivo, soltanto potenziale; la realtà fattuale è l'altro dell'io, il giudizio che la concerne presuppone un io ben più forte di quello desiderante, un io capace di accettarla, di conoscerla e di affrontarla. Così l’io che sopravvaluta i propri desideri fino a farne il proprio oggetto privilegiato e in base ad essi disprezza la realtà fattuale, qualunque essa sia, confessa soltanto la propria debolezza.

Neanche si può ammettere che l'assolutezza del desiderio debba soltanto andare perduta di fronte alla durezza dei fatti. Il concetto di libertà implica un rapporto con la realtà migliore della rassegnazione. Nella filosofia hegeliana la libertà è la sostanza dell'io, come la gravità lo è della materia: questa è il proprio tendere ad annullarsi in un centro ad essa estraneo, quella è il centro del proprio movimento. Questo essere centro di se stessa implica che la libertà – al contrario di quanto è presupposto dal pregiudizio comune – non è compatibile con le barriere; non a caso il carcere è la rappresentazione della sua mancanza. Se però l'uomo fosse soltanto finito, la libertà gli sarebbe estranea ed attribuibile soltanto a Dio. Ma non è così. Innanzitutto, la fedeltà dell'uomo all'assolutezza del desiderio può spingerlo a infrangere le barriere e a realizzare una libertà in forma negativa; e in quanto la sua stessa vita può rappresentare una barriera, l'uomo può addirittura rinunciarvi. La realtà del desiderio assoluto consiste nell'impulso di morte che anima ogni coraggio e che quando diventa esclusivo si traduce in fanatismo.

La libertà ha poi un secondo significato, positivo, balenante in ogni azione riuscita. La libertà che sente se stessa soltanto come infrazione del limite è vuota, soltanto formale, dunque bisognosa di un contenuto estraneo. Se il soggetto è comunque riferito a un oggetto, che sia il nulla o il qualcosa, sembra che si sia ritornati all'inizio, alla constatazione che la libertà sia impossibile per l'uomo. Non è così: l'inizio dal nulla mostra che la libertà è incompatibile con la positività immediata e che la sua stessa positività deve essere considerata una forma di negatività. In questo senso, la libertà è propriamente un risveglio: come il soggetto, in quanto desiderio, ha perduto la sua assolutezza negandosi nell'oggetto, così la recupera in quanto l'oggetto si nega in soggetto. Questo recupero di sé nell'oggetto è la libertà, con tutta l'assolutezza del desiderio, senza la sua distruttività astratta. Ma la conoscenza è proprio questo: scoprire la soggettività nelle cose; in questa scoperta che è insieme un riconoscere, la libertà acquisisce il suo significato più profondo, positivo tramite una doppia negatività. Giudizio di valore e giudizio di fatto, desiderio e conoscenza, anziché essere in opposizione irriducibile, sono nel rapporto di domanda e risposta.

La libertà non è originaria – anzi, essa nella sua originarietà è distruttiva; il suo è un essere risultante dalla mediazione del negativo. Questa difficoltà che le è insita, il fatto che la sua natura sia conoscenza anziché esserle presupposta, si propaga all'intero ambito in cui si realizza, l'ambito dello spirito. Hegel ha detto una volta che alle epoche di felicità corrispondono le pagine bianche del libro della storia; viceversa, la lettura delle sue pagine scritte provoca un brivido d'orrore che spesso costringe il discorso politico a ritrarsi nel desiderio; ma il discorso politico che evita l'orrore della storia e, incapace di sopportarlo, tanto più di ritrovarvisi come conoscenza, vuole restare nondimeno positivo, è costretto a fare del desiderio la cosa stessa e della cosa stessa una parvenza che sembra meritare solo annullamento.

Non solo la cosa gli sembra meritare solo annullamento, la stessa conoscenza storica gli appare una sconvenienza: la taccia di inadeguatezza alla nuova prospettiva aperta dal desiderio. Questo disprezzo non è mai giustificato; anche la concezione più empirica, che non si preoccupa della libertà come essenza dell'uomo, riconosce la conoscenza come potere, come produzione dello strumento con cui il soggetto si sottrae al contatto logorante con l'oggetto e afferma la sua libertà rispetto al mondo delle cose. Il disprezzo della conoscenza nasce dal desiderio di evitare il tormento di un'esperienza da cui l'io, che vorrebbe muoversi tra le sue immagini predilette come se fossero le cose, è costretto ad assumere determinazioni dapprima estranee, a ritornarvi di continuo fino a farle proprie, in altri termini a portarle con sé come cibi indigesti prima di poterle assimilare. Contro la disciplina dell'imparare, con cui potrebbe accedere alla conoscenza e diventare libero, l'io regredisce alla magia. Magia è il presumere l'onnipotenza dell'io ineducato, professare l'onnipotenza del desiderio.

Privi per lo più di accettazione della storia nella sua realtà, i discorsi politici hanno da sempre caratteristiche magiche: sono il trionfo del desiderio incolto, incapace di intendere la natura conoscitiva della libertà, che dall'interesse particolare più o meno consapevole salta direttamente alla sua trasfigurazione in prospettive epocali, perdendosi così nel gioco della casualità. Il desiderio che si difende dalla conoscenza storica con l'utopia, si difende dalla politica con la rappresentazione della liberal-democrazia: da una parte le attribuisce il potere di conoscere e assicurare il bene comune, dall'altra la capacità di determinarlo a partire dai desideri strettamente individuali; che i desideri di una maggioranza di individui, nella loro immediatezza ineducata, abbiano accesso alla conoscenza del bene comune e delle scelte opportune per attuarlo, è pensiero magico.

Mentre il problema di ogni aggregazione umana è come gli individui di cui è composta possano adeguare i loro desideri alla conoscenza del bene comune, cioè adeguare la loro singolarità all'universalità così da realizzarla e realizzarvisi, la liberal-democrazia si ostina a presupporre ogni potere come cattivo, ogni desiderio dei singoli come sacro. Se si riflette che il potere è sempre l'universale, e il desiderio è sempre particolare, ci si accorge subito che si tratta del perfetto rovesciamento della verità; cosa potrebbe essere più evidente del fatto che la cattiveria del potere è il suo diventare strumento della singolarità e che la bontà del singolo è il suo superare il desiderio egoistico così da rispettare l'universale? Già Montesquieu ha visto che la repubblica presuppone individui virtuosi, ossia individui non in preda ai propri impulsi, ma abituati a riconoscere il proprio sé nella libertà universale, per i quali l'osservanza della legge non è un limite ma un vanto. La polis greca ha offerto un modello del genere. Essa fu spazzata via dal sorgere dell'autonomia individuale al tempo dei sofisti: Socrate fu l'esempio più nobile di questo individualismo; e la grande filosofia greca è la comprensione di una ingenuità etica che si era già consegnata al passato; ma ormai nessuna società più della nostra è lontana dall'eticità elementare della Grecia democratica.

Il senso comune moderno, modellato sulla rappresentazione liberal-democratica, concepisce il desiderio individuale come fonte della legittimità del potere; questa concezione, che sembra tributare il massimo omaggio all'individuo, poiché lo concepisce ridotto alla sua immediatezza naturale, ne è in realtà il massimo disonore. Poiché il desiderio individuale è concepito come non mediato con l'universalità, la sua libertà è ridotta a una elezione di contenuti esterni o addirittura di individui, durante la quale una propaganda farsesca lo adula fino al ridicolo per sottolinearne il formalismo puro. Così, da una parte l'art. 67 della Costituzione italiana, secondo cui i rappresentanti degli elettori non li rappresentano come individualità desideranti, ma come Nazione, quindi nella loro universalità, d'altra parte la natura farsesca delle elezioni, che ha ridotto l'espressione degli elettori a un semplice prediligere immotivato, consentono ai rappresentanti la perfetta irresponsabilità nei confronti e dei singoli e della Nazione. In generale, quanto più i rappresentanti vantano di trarre la loro legittimità dai desideri, cioè dall'irrazionale degli individui, tanto più determinano l'oggettivo, l'interesse della Nazione, in modo altrettanto irrazionale; rappresentanti che fanno appello all'individuale restano legati all'individualità nella loro azione; la loro universalità si manifesta non nella disposizione a conoscere il bene comune, ma in quella a tener conto solo dei desideri più vicini all'universalità, cioè di quelli più influenti, sperando che in questi siano contenuti tutti gli altri, sperando che la loro attuazione non porti con sé conseguenze severe o addirittura catastrofiche.

Nasce così il problema di stabilire se la Nazione, l'universale sulla cui base la Costituzione consente la delusione del desiderio individuale e, contro il senso comune liberal-democratico, riduce la rappresentanza da fonte unica a un elemento tra gli altri della legittimità, sia determinabile in modo conoscitivo, dunque libero, oggettivo. La soluzione è questa. L'apertura all'universale ha una precisa condizione, quella di negare il desiderio perché dalle sue ceneri nasca la conoscenza. Proprio questa negazione è il contenuto del concetto di sovranità dello Stato. Essa è negatività esterna, cioè indipendenza dello Stato dalle altre individualità statali, ed è negatività interna, Costituzione, ossia l'architettonica del potere per cui esso acquisisce una propria individualità in cui tutte le individualità immediate, desideranti, sono abbassate a membri ed elevate a cittadini. La sovranità statale dunque è condizione necessaria del bene comune e della democrazia effettiva: soltanto se lo Stato ha assunto la sua individualità, è spezzata la pretesa di onnipotenza dei desideri individuali che così possono aprirsi alla conoscenza e alla libertà; senza sovranità statale non c'è libertà pubblica, ma dispotismo del desiderio più forte e non per questo meno cieco, appena mascherato a scadenza periodica dalla democrazia solo formale.

Tutto questo dà la misura della profonda abiezione della politica italiana. Stordita da un cosmopolitismo posticcio, essa rinuncia alla sovranità esterna prostrando lo Stato ad ogni sorta di vassallaggio verso altri Stati; vanifica l'architettura costituzionale permettendo il costituirsi dell'indipendenza del potere finanziario, e la sfigura accettandone i suggerimenti. Non è un caso che i suoi rappresentanti parlino sempre e soltanto di desideri e si aspettino che una magia impedisca le conseguenze catastrofiche delle loro scelte; non è un caso che si allontanino sempre più da una realtà su cui nessuno può più farsi illusioni.