martedì 26 luglio 2022

venerdì 15 luglio 2022

Spiegare l'assurdo

 

Spiegare l’assurdo

(lettere al futuro 7)


Marino Badiale



1. L’assurdo

In un intervento precedente [1] ho osservato come sia paradossale la situazione dell’umanità contemporanea, posta di fronte al cambiamento climatico, e più in generale alla devastazione ambientale indotta dalla società attuale: da una parte si accumulano le conoscenze scientifiche che delineano un quadro di grande pericolo e grande urgenza, mentre le prime avvisaglie della crisi climatica in corso stanno concretamente interferendo con la vita di varie comunità sparse nel pianeta [2]; dall’altra, la società globalizzata contemporanea non sta in sostanza facendo nulla di essenziale per affrontare la crisi climatica e le altre problematiche ambientali. Dicendo “nulla di essenziale” intendo dire che le iniziative che si tenta di porre in essere, a livello sia degli individui sia delle comunità e delle istituzioni, per quanto lodevoli e necessarie, non appaiono tuttavia sufficienti rispetto alla gravità dei processi in atto. Il problema sta infatti nella struttura fondamentale della nostra organizzazione economico-produttiva, nei rapporti sociali ed economici che la strutturano e che possiamo riassumere come “capitalismo”. Senza toccare questi dati strutturali non è possibile un’azione realmente efficace di contrasto e contenimento della crisi climatica. Ciò che colpisce è il fatto che l’umanità contemporanea sembra ignorare questa “scomoda verità”, e quindi appare nella sostanza indifferente rispetto alla crisi climatica, nonostante le oscillazioni di maggiore o minore interesse che si possono avere negli anni. Questa indifferenza appare con molta evidenza nei ceti dirigenti dell’attuale società globalizzata, perché ovviamente sono loro ad avere il potere e i mezzi per “fare qualcosa”, ed è l’assenza del loro “fare” la principale responsabile della situazione in cui ci troviamo, e del cupo futuro che ci si prepara. Ma una tale indifferenza è anche molto evidente nei ceti subalterni, che non si mobilitano per imporre ai gruppi dirigenti azioni efficaci di contrasto alla crisi climatica, eventualmente sostituendoli con altri gruppi. Questa mancanza di azione da parte dei ceti subalterni colpisce in modo particolare, per il banale motivo che saranno loro le prime e più numerose vittime dei disastri che ci attendono, perché chi sta ai vertici della piramide sociale avrà i mezzi per sottrarsi, almeno in un primo tempo, ai danni peggiori.


Un esempio abbastanza evidente di questa sostanziale indifferenza è l’atteggiamento pubblico nei confronti della siccità che colpisce l’Italia nei giorni in cui scrivo questo intervento (estate 2022). Una delle previsioni sulle quali concordano i climatologi è infatti proprio quella di un progressivo inaridimento dell’area mediterranea, quindi ovviamente anche dell’Italia. Non è certo sorprendente, data la miseria del ceto politico italiano, il fatto che nella sostanza nessuno si sia preoccupato di queste previsioni, negli anni passati, quando esse erano appunto solo previsioni. Ma quest’anno le previsioni sembrano cominciare a trovare conferma nella siccità, che colpisce duramente anche zone del Paese (il Nord), normalmente esenti da questo tipo di problemi. La reazione comune, sia dei ceti dirigenti sia delle masse popolari, sembra essere però quella di considerare la situazione descritta come un’emergenza alla quale resistere, aspettando il ristabilirsi di condizioni “normali”. Nessuno sembra prendere in considerazione il fatto che siamo di fronte a cambiamenti epocali, che le condizioni “normali” stanno scomparendo, e che appare necessario e urgente attrezzarsi per sopravvivere nella nuova realtà: per esempio, limitandomi qui ad alcuni suggerimenti circolati nei media, costruendo invasi per raccogliere l’acqua piovana, intervenendo sulla rete idrica che ha molte perdite, costruendo impianti per la desalinizzazione dell’acqua di mare. Il mondo della politica non sembra impegnato a impostare le azioni necessarie, e, soprattutto, non c’è una pressione popolare perché tali azioni vengano intraprese. Se pensiamo a cosa significhi l’acqua corrente in ogni casa per la qualità della nostra vita quotidiana, questa sostanziale e diffusa indifferenza appare davvero misteriosa.


L’evidenza di questo paradosso (stiamo andando verso un collasso sociale mai visto prima, e a nessuno, o quasi, importa) colpisce tutti coloro che si interessano di questi temi, ed è naturale che si tenti di formulare una spiegazione per tale stranezza. In questo intervento esaminerò alcune di queste spiegazioni, cercando di argomentare la loro insufficienza, e poi esporrò alcune considerazioni sul problema in questione.


2. Spiegazioni insufficienti

Una prima spiegazione, che ho sentito ripetere in vari interventi e discussioni in rete, è quella che fa riferimento a una carenza di tecnica comunicativa da parte di scienziati e attivisti. Le persone che cercano di mobilitare l’opinione pubblica su questi temi, secondo l’opinione che sto analizzando, non sarebbero in grado di farlo in maniera appropriata, non riuscendo così ad ottenere l’effetto voluto.

Si tratta di una spiegazione apparentemente plausibile, che però, a mio avviso, ad un esame più attento si rivela alquanto debole. Si può infatti osservare che quando vengono formulate queste riserve non viene mai detto chiaramente quali dovrebbero essere le forme corrette di comunicazione: sembrerebbe, per esempio, sconsigliabile lanciare allarmi “catastrofisti” perché potrebbero scoraggiare il pubblico, ma d’altra parte sembra arduo sperare di convincere il pubblico stesso alle azioni, impegnative e costose, che appaiono necessarie per contrastare la crisi climatica, senza comunicare al tempo stesso l’urgenza e la gravità dei problemi che incombono sulla società contemporanea. Oppure, per fare un altro esempio, sembrerebbe controproducente produrre discorsi troppo tecnici, che difficilmente vengono correttamente intesi dalla massa del pubblico, ma d’altra parte se si rinuncia al rigore scientifico le parole di un climatologo non di distinguono troppo da quelle di un incompetente negatore della crisi climatica.

Quello che intendo dire è che, in mancanza di indicazioni precise su quale sia la “corretta comunicazione”, la tesi che stiamo discutendo appare imprecisa e poco utile. Per uscire da tale imprecisione chi agita questo tipo di critica dovrebbe fornire degli esempi reali di una comunicazione efficace, capace di smuovere l’indifferenza delle masse. Non mi pare che qualcosa del genere sia stato finora prodotto.

D’altra parte, se si prova a ricercare materiale disponibile su questi temi, sembra che si possa sostenere una tesi diametralmente opposta: nel campo della divulgazione sulla crisi climatica esistono ottimi esempi di comunicazione, e, quel che è ancora meglio, ne esistono di adatti a tutti i tipi di pubblico. Penso a un divulgatore come Luca Mercalli, assolutamente insuperabile nella capacità di rendere in maniera gradevole e accessibile contenuti scientifici [3], oppure al podcast “Bello mondo”, di Elisa Palazzi e Federico Taddia [4], anch’esso del tutto accessibile al largo pubblico. Chi desidera approfondimenti più tecnici può trovare in rete una enorme quantità di materiale. In sostanza, chiunque desideri essere informato su questi temi, trova facilmente, in rete o sul mercato editoriale, la comunicazione più adatta al proprio livello di preparazione.

Mi sembra che queste considerazioni portino a concludere che sia erronea la spiegazione che interpreta il problema che stiamo indagando come un problema di cattiva comunicazione.

Un altro tipo di spiegazione proposta fa appello a limitazioni dell’apparato cognitivo umano, dovute alla nostra storia evolutiva. L’idea è che noi discendiamo da primati bipedi vissuti per tempi lunghissimi nella savana africana, e siamo di conseguenza “calibrati” per certi tipi di percezioni e di pensieri, e non per altri. Per fare un esempio, Dalie Jamieson scrive, in riferimento al problema del cambiamento climatico: “l’evoluzione non ci ha fatti per risolvere, e nemmeno per riconoscere, questo tipo di problema: noi abbiamo una forte propensione per rilevare movimenti evidenti di oggetti di medie dimensioni percepibili con la vista; in genere, il cambiamento climatico non si presenta così” [5]. Confesso che un simile argomento, per quanto sostenuto da persone colte e preparate (come lo stesso Jamieson), mi lascia alquanto perplesso, perché sembra stranamente ignorare, più o meno, l’intera storia delle civiltà umane dal neolitico in poi, storia che ha dimostrato che gli esseri umani hanno le capacità cognitive per costruire infinite diversissime elaborazioni simboliche, senza nessun legame diretto con la vita degli australopiteci nella savana o nella foresta: dalla meccanica quantistica all’arte della fuga, dalla Cappella Sistina alla prova ontologica dell’esistenza di Dio, dalla costruzione delle grandi cattedrali gotiche ai buchi neri, dalle dimensioni frattali alla teologia negativa dello Pseudo-Dionigi. Gli esseri umani hanno dimostrato di essere perfettamente in grado di immaginare, pensare, creare, scoprire (e si scelga il verbo che si ritiene più adatto) realtà simboliche diversissime fra loro e completamente aliene rispetto a quello che poteva essere il mondo dell’australopiteco o dell’Homo abilis. Perché mai dovrebbero avere ora speciali difficoltà a concepire il cambiamento climatico? E infatti il cambiamento climatico è concepito e indagato da una comunità numerosa di studiosi che, mi risulta, discendono dagli stessi primati africani da cui discende il resto dell’umanità. E se i limiti cognitivi dai quali sarebbe gravata la nostra specie non hanno impedito ai climatologi lo studio scientifico approfondito del cambiamento climatico, perché mai dovrebbero impedire al resto dell’umanità di prendere atto delle elaborazioni scientifiche dei primi?

In definitiva, anche questa spiegazione appare poco convincente.


3. Una risposta semplice

Per comprendere la nostra situazione attuale, conviene forse tentare altre vie, rispetto a quelle, poco convincenti, delle quali abbiamo appena discusso. A me sembra infatti che l’essenziale per tale comprensione sia già stato detto, come spesso accade, molto tempo fa. Penso all’episodio del “giovane ricco” riportato dai Vangeli sinottici. Al giovane che gli chiede come ottenere “la vita eterna”, Gesù risponde di osservare i comandamenti. Il giovane risponde di averlo sempre fatto. Allora, prosegue il Vangelo

Gesù gli rispose: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quanto hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Il giovane, udite queste parole, se ne andò via rattristato, perché aveva molti beni. [6]

Il giovane sta confusamente cercando un modo per cambiare la propria vita, che, evidentemente, percepisce come insoddisfacente. Gesù gli espone la possibilità di un cambiamento radicale, ma il giovane si ritrae, e se ne va “rattristato”. Siamo di fronte ad un incontro mancato fra un bisogno di significato, da parte del giovane, e la proposta che gli fa Gesù. Come mai le due prospettive non riescono a incontrarsi? È forse un errore di comunicazione da parte di Gesù, che si è spiegato male? È forse un errore cognitivo del giovane, che non ha capito quello che intendeva dire Gesù, errore dovuto alle impostazioni cognitive insufficienti che ci vengono dai nostri antenati nella savana africana? Mi sembra si possa dire di no. Mi sembra che il punto non sia davvero l’incomprensione, ma anzi proprio il contrario: il giovane ha capito benissimo quello che Gesù gli ha detto, ed è perché lo ha capito, che rinuncia e se ne va. Non siamo di fronte a un problema di comprensione o di comunicazione. Siamo di fronte a un problema di scelte.

A me sembra che la nostra situazione sia del tutto analoga. L’umanità contemporanea, in sostanza, nei confronti della crisi climatica ha capito benissimo qual è il problema e quali sono le possibili soluzioni. Ha capito benissimo che tali soluzioni, in un modo o nell’altro, comportano un cambiamento radicale di quella che è stata finora l’organizzazione generale della vita. Comportano l’abbandono del consumismo esasperato delle società occidentali, e della rincorsa a tale modello da parte delle economie emergenti. E come il giovane del Vangelo, l’umanità ha fatto la sua scelta. Vuole la ricchezza e il consumo (sia che ne disponga attualmente, sia che speri di arrivarci in un modo o nell’altro), e quindi continuerà nella strada percorsa sinora, anche se essa porta al collasso di natura e società.


4. Articolando la risposta

La risposta semplice che abbiamo dato nel paragrafo precedente è però davvero troppo semplice. Il suo difetto principale sta nel parlare di una “umanità” indifferenziata. Nonostante questo, essa a mio avviso contiene un elemento di verità che può essere sviluppato, correggendo il difetto sopra evidenziato. È chiaro che dobbiamo almeno distinguere fra i ceti dominanti dell’attuale società globalizzata e i ceti subalterni. Ora, per quanto riguarda i ceti dominanti, credo che quanto detto nel paragrafo precedente rappresenti una descrizione essenzialmente corretta. Nella sostanza, i ceti dominanti internazionali hanno deciso che contrastare seriamente la crisi climatica potrebbe mettere in pericolo il loro potere e la loro ricchezza. Ho argomentato estesamente questo punto in alcuni interventi precedenti, ai quali rimando [7]. Mi sembra che gli sviluppi successivi agli interventi appena citati confermino la tesi in essi sostenuta, e ribadita nelle righe precedenti. È facile infatti rendersi conto che, con la guerra in Ucraina, il tema del cambiamento climatico è passato in secondo piano, nelle agende politiche e nei mezzi di comunicazione. Prima di tale guerra, poteva sembrare che i ceti dominanti si fossero finalmente resi conto della gravità della situazione e stessero assumendo impegni per fronteggiarla. Ma la crisi ucraina ha mostrato con chiarezza estrema che, davanti ad un vero scontro di potere fra gli Stati più importanti, le tematiche ecologiche vengono dimenticate in un batter di ciglia, tanto che oggi si parla tranquillamente di riaprire alcune centrali a carbone, notoriamente il combustibile peggiore, dal punto di vista delle emissioni di anidride carbonica.

Certo, i ceti dominanti sanno che in questo modo la società attuale va incontro a rischi gravissimi, ma in sostanza ritengono, a torto o a ragione, di essere in grado di usare potere e ricchezza per proteggersi dalla crisi climatica. La loro scelta è quindi chiara e netta: non rinunciare a nulla del loro potere e dei loro privilegi, anzi usare potere e privilegi per proteggersi dalle nefaste conseguenze della crisi climatica, lasciando che tali conseguenze colpiscano la stragrande maggioranza dell’umanità, che non avrà a disposizione mezzi per proteggersi. Come il giovane del racconto evangelico, sono stati posti di fronte ad una scelta morale, e hanno scelto. La loro scelta prefigura un orrore inaudito nella storia dell’umanità. Chi riuscirà a sopravvivere, e a ricostruire faticosamente una qualche forma di civiltà, guarderà agli attuali ceti dominanti con un orrore pari solo alla dimensione della catastrofe che colpirà il nostro mondo.


5. Solo una rivoluzione ci può salvare

La scelte dei ceti dominanti sono, nell’essenza, abbastanza facili da comprendere e da descrivere. Appare invece più difficile da decifrare l’atteggiamento dei ceti subalterni. Il resto di questo articolo è dedicato a questo problema, rispetto al quale non ho una risposta definitiva. Mi sembra però possibile offrire almeno alcuni elementi di una possibile risposta, alcune tessere del puzzle, per così dire.

È difficile capire la sostanziale passività dei ceti subalterni perché, come si è già detto, si tratta di coloro che maggiormente soffriranno del collasso che si avvicina. Si potrebbe pensare che i ceti subalterni siano preoccupati dal fatto che anche l’abbandono dell’attuale percorso sociale suicida porterebbe disagi e problemi, e fra essi l’abbandono del consumismo tipico dell’attuale società, abbandono che molti vivrebbero come una grave rinuncia. D’altra parte, disagi e rinunce potrebbero trovare un senso nell’accettazione di una organizzazione economica e sociale che, rinunciando al consumismo e alla crescita fine a se stessa, assicuri a tutti una vita dignitosa, tramite la soddisfazione dei bisogni materiali fondamentali, la piena libertà di sviluppo della personalità, e una significativa diminuzione delle attuali disuguaglianze sociali. Se si considera che l’alternativa è il collasso sociale ed ecologico che in ogni caso annienterà, per la stragrande maggioranza, gli attuali livelli di vita, la strada da percorrere non sembrerebbe negativa.

È anche facile capire cosa sia necessario per abbandonare la traiettoria che ci porta al suicidio sociale: una forte mobilitazione dei ceti popolari, con proteste diffuse, manifestazioni, scioperi e boicottaggi, mobilitazione che porti alla nascita di una o più forze politiche ben radicate, che a loro volta lottino contro i ceti dominanti per espellerli dal potere, sostituirli e iniziare un radicale cambiamento dell’intera organizzazione economica, nella direzione sopra indicata. In sostanza, utilizzando il titolo di un bel libro di Naomi Klein [8], solo una rivoluzione potrà salvarci. Il problema è che di una tale rivoluzione non si vede il minimo accenno: le masse popolari accettano passivamente il lento peggioramento delle loro condizioni di vita, e non si vede traccia della mobilitazione che sarebbe necessaria per fronteggiare la vastità e l’urgenza dei pericoli che ci sovrastano.

È possibile capire i motivi alla base di tale passività? Proviamo a indicarne qualcuno.

Una prima ovvia osservazione è che uno degli aspetti fondamentali del dominio dei ceti dominanti è l’egemonia sull’informazione e in generale sul discorso pubblico, che significa egemonia ideologica e culturale. Il mondo dell’informazione (giornali e televisioni) è rigidamente al servizio dei ceti dominanti ed esclude con cura la possibilità che voci alternative possano acquisire autorevolezza nei mezzi di comunicazione più importanti. D’altra parte, il mondo del web e dei social network è senz’altro meno controllato, ma proprio per questo è in larghissima parte un delirio sconclusionato di voci dissonanti, che non permette la discussione razionale necessaria per comprendere la realtà. Allo stesso effetto di irrazionalità diffusa concorre la crisi della scuola, che ha privato i ceti subalterni di quella minima base di cultura e di capacità critica necessarie all’impegno politico.

Queste osservazioni mi sembrano sostanzialmente corrette, ma ancora insufficienti. Vanno affiancate da un discorso più approfondito.


6. Il capitalismo intrascendibile

A me sembra che un problema di fondo sia la totale incapacità di pensare la propria esistenza al di fuori dell’attuale organizzazione economica e sociale. La stragrande maggioranza dell’umanità (che ci si trovi in alto o in basso nella scala sociale) non riesce a concepire seriamente che si possa organizzare un modo di vivere, alternativo a quello attuale, che sia accettabile, e magari anche migliore, da certi punti di vista. Ciò che l’intera umanità sembra aver introiettato è l’intrascendibilità della presente organizzazione sociale: essa appare come un dato di natura, del quale è assurdo pensare di fare a meno, come non si può fare a meno dell’aria o dell’acqua. Certo, tutti ormai si avvedono, in maniera più o meno cosciente, che tale organizzazione sociale crea problemi e anche disastri, ma questi sono appunto visti come disastri naturali, contro i quali è inutile protestare, mentre l’unico comportamento ragionevole appare l’adattamento. E magari l’adattamento può significare compiere azioni lodevoli come installare pannelli fotovoltaici o diminuire il consumo di carne, ma in ogni caso non implica la radicale messa in discussione della logica sociale capitalistica che ci porterà al collasso.

Questa incapacità di pensare la propria vita al di fuori dell’attuale logica sistemica è indubbiamente legata all’egemonia culturale dei ceti dominanti, alla quale abbiamo già accennato. Ma il fatto di accettare senza resistenze questa egemonia mi pare richieda una spiegazione.

Un primo punto rilevante, a questo proposito, credo sia il constatare una sostanziale fragilità della personalità umana nell’attuale “tardo capitalismo”. L’invasione di ogni sfera sociale da parte della logica capitalistica ha come conseguenza un sempre maggiore conformismo sociale: siamo tutti spinti alla maggiore diversificazione possibile dei gusti e dei consumi (per chi se lo può permettere, s’intende), ma al di sotto di questa superficie la vita sociale è in realtà rigidamente incanalata secondo la logica sistemica del profitto, proprio perché tale logica ha invaso ogni ambito sociale. Ciò significa che opporsi ad essa richiede dall’individuo una grande forza interiore, perché si tratta di una logica alla quale si soggiace in maniera quasi automatica, incorporata com’è nello scorrere quotidiano dell’apparato tecnico su cui si basano le nostre società. Ma proprio questa forza interiore, la forza di opporsi, di dire no alla logica sistemica, sembra essere oggigiorno venuta meno. Moltissimi protestano, per un motivo o per l’altro, ma sono quasi sempre proteste del tutto interne alla logica sistemica: proteste che quasi sempre hanno come scopo (quando ne hanno uno) la richiesta di qualche modificazione legislativa a favore del proprio gruppo di interesse, e magari di qualche finanziamento statale. E poiché questi vantaggi possono essere ottenuti solo se il sistema scorre senza inciampi, appare evidente che, nella maggior parte dei casi, le proteste di questo tipo non hanno la capacità, e direi nemmeno l’intenzione, di pensare una fuoriuscita dal capitalismo.

Se davvero la “personalità debole” è un aspetto importante dell’attuale incapacità di pensare un’alternativa, è probabile d’altra parte che una tale “debolezza” sia a sua volta un effetto della logica sistemica. Il capitalismo è stato descritto correttamente come la realtà sociale nella quale “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” [9]. Ma la personalità per svilupparsi ha bisogno di basi ferme, di punti di riferimento solidi. Anche per contrapporsi ad essi, e per crescere in questa contrapposizione. Sembra logico dedurre che un sistema sociale che annulla ogni passato e ogni tradizione, che dissolve ogni punto di riferimento, finirà col produrre personalità deboli e fondamentalmente insicure. Questa insicurezza di fondo delle persone mi sembra appaia con molta evidenza in una serie di fenomeni sociali oggi assai diffusi, legati in sostanza all’estrema facilità del sentirsi e dichiararsi offesi e feriti, che Guia Soncini ha efficacemente riassunto con l’espressione “era della suscettibilità”[10].

Un secondo punto fondamentale mi sembra quello della distruzione di ogni razionalità nel dibattito pubblico. È ormai venuto meno un piano di discussione comune, nel quale sia possibile elaborare e condividere interpretazioni del mondo forti e razionali, che possano costituire la base di un movimento di massa. Nel discorso pubblico si è prodotta una contrapposizione netta fra gli specialismi accademici e il linguaggio di massa. I primi conservano, almeno in molti casi, forti elementi di razionalità, ma è una razionalità che riesce a rimanere tale solo isolandosi dal dibattito pubblico. D’altra parte, il linguaggio di massa appare come un delirio cacofonico, una maionese impazzita di voci discordanti sulla base delle quali è impossibile costruire alcunché. Questo impazzimento lo si scorge con chiarezza, come si diceva sopra, nella comunicazione virtuale su internet, ma ormai appare evidente anche nei media “mainstream”, che sembrano aver imboccato la strada di un abbassamento continuo del livello intellettuale delle proprie produzioni.

Gli elementi indicati mi sembrano importanti, e si potrebbe ovviamente continuare con un lungo elenco, diciamo “fenomenologico”, di tutto ciò che, nello “spirito del tempo” attuale, appare indicare una decadenza. Ma un tale elenco diventerebbe davvero rilevante solo riuscendo a connettere i diversi fenomeni in una spiegazione complessiva che di tali fenomeni mostri le radici nelle forme di funzionamento attuali della logica autoriproduttiva del capitalismo.

Non ho la pretesa di svolgere qui un tale immane compito teorico. Penso sia possibile però fornire alcune indicazioni. Un simile lavoro non potrà, io credo, prescindere dai concetti elaborati da Massimo Bontempelli in alcuni testi scritti poco prima della sua prematura scomparsa [11]. Si tratta della nozione di “sussunzione reale della persona al capitale”, cioè della tesi che la logica di espansione senza limiti del modo di produzione capitalistico lo porta ad invadere ogni ambito della società, strappandolo alla sua logica specifica e piegandolo alla logica dell’estrazione di valore. Viene così meno ogni esempio di logica sociale almeno parzialmente autonoma rispetto alla logica capitalistica, che in questo modo arriva a dare forma alla stessa personalità individuale. Il compito teorico da intraprendere sarebbe allora, come detto poc’anzi, quello di connettere questi concetti generali alle manifestazioni empiriche odierne della subalternità diffusa alla logica sistemica. Si tratta purtroppo di un compito ancora largamente inevaso, e possiamo solo sperare che giovani forze intellettuali abbiano la voglia e la capacità di dedicarsi ad esso.

In mancanza di tale sistemazione teorica, l’argomentazione che ho qui proposto resta incompleta. Mi sembra però che, scontando tale incompletezza, essa permetta comunque di capire alcuni aspetti fondamentali della nostra attuale situazione, una situazione in cui i ceti subalterni appaiono privi di ogni autonomia intellettuale e morale rispetto ai ceti dominanti. È questa sudditanza che rende i ceti subalterni realmente tali, e che produce le assurdità che abbiamo sopra descritte. Tale situazione potrebbe ovviamente cambiare, ma, se sono corrette le considerazioni sopra svolte, un tale cambiamento richiederebbe un rovesciamento totale delle forme di coscienza odierne. Non è qualcosa di impossibile: dalla condizione di cacciatori-raccoglitori a quella attuale, grandi mutamenti culturali e antropologici non sono mancati, nella storia della nostra specie. Ma è assai difficile che un simile radicale mutamento avvenga nel breve tempo rimasto prima che la traiettoria mortifera che ci trascina diventi irreversibile. Sembra dunque inevitabile concludere che l’attuale civiltà proseguirà nella sua corsa folle fino all’autodistruzione, oltre la quale i sopravvissuti ricostruiranno forme di civiltà oggi imprevedibili.


(Genova, estate 2022)



Note


[1] http://www.badiale-tringali.it/2020/10/il-muro.html


[2] Si vedano i seguenti utili resoconti di tipo giornalistico: S.Liberti, Terra bruciata, Rizzoli 2020; F.Deotto, L’altro mondo, Bompiani 2021; R.Mezzalama, Il clima che cambia l’Italia, Einaudi 2021; M.G.Mian, Artico, Neri Pozza 2018.


[3] È sufficiente cercare su youtube alcune delle conferenze di Mercalli, per rendersi conto che difficilmente questi temi possono essere comunicati meglio di così. D’altra parte Mercalli è anche bravissimo a scrivere libri divulgativi: L.Mercalli, Prepariamoci, Chiarelettere 2011; L.Mercalli, Il clima che cambia, Rizzoli 2019; L.Mercalli, Non c’è più tempo, Einaudi 2018; L.Mercalli, La Terra sfregiata, Edizioni Gruppo Abele 2020; L.Mercalli, Salire in montagna, Einaudi 2020.


[4] https://open.spotify.com/show/71W3wVj56B3b7XH55SlhTR


[5] D.Jamieson, Il tramonto della ragione, Treccani 2022, pag.192 (faccio riferimento all’edizione digitale, non so se la numerazione delle pagine sia la stessa dell’edizione cartacea).


[6] Matteo 19, 16-26. Come si è detto, l’episodio è riportato negli altri sinottici: Luca 18, 18-27, Marco 10, 17-27, ma solo Matteo qualifica l’interlocutore di Gesù come “giovane”. Poiché questa qualificazione è diventata tradizionale, riporto l’episodio nella versione di Matteo. Cito dalla Bibbia nella versione delle Edizioni Paoline, 1979.


[7] http://www.badiale-tringali.it/2021/03/fine-partita.html,

http://www.badiale-tringali.it/search?q=fine+partita,


[8] Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà, Rizzoli 2015. Anche il titolo originale inglese, This changes everything, è ben scelto.


[9] M.Berman, Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, Il Mulino 2012.


[10] G.Soncini, L’era della suscettibilità, Marsilio 2021. La tematica del libro è ben descritta nella pagina di presentazione sul sito della casa editrice

https://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/2970987/l-era-della-suscettibilit


[11] Si veda il saggio “Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità”:

https://www.sinistrainrete.info/marxismo/1503-massimo-bontempelli-capitalismosussunzione-

nuove-forme-della-personalita.html

e inoltre i testi raccolti in M.Bontempelli, Un pensiero presente, Indipendenza-Editore

Francesco Labonia 2014, in particolare “Capitalismo e personalità antropologiche”,

pagg.49-62.









martedì 12 luglio 2022

Autoritarismi (A. Zhok)

Una riflessione di grande intelligenza, da parte di Andrea Zhok (da Facebook)


Quando si solleva il tema della crisi della democrazia in Occidente, con fastidiosa frequenza l'eventuale interlocutore ostile, quanto più si approssima alla fine dei propri argomenti, tanto più è incline a sbottare con un "Ma allora perché non te ne vai in... (segue nome di una qualche proverbiale 'dittatura'; Russia, Cina, Iran, ecc.).
Questo è uno di quei casi in cui la stupidità della replica è talmente robusta che c'è il serio rischio ci lasci tramortiti.
Affinché il tramortimento non sia preso per efficacia dell'argomentazione, è utile replicare con calma per iscritto.
1) Innanzitutto, e a futura memoria: tutti gli stati che proverbialmente vengono definiti dal mainstream come dittature - in quanto estranei al blocco dei protettorati americani in occidente - sono formalmente democrazie non meno di quanto lo siano la Francia o gli USA o l'Italia: ci sono governi eletti dal popolo in Iran non meno che in Russia o in Cina.
Poi certo, a questo carattere formalmente democratico non fa riscontro una realtà DAVVERO democratica, e ciò accade per vari motivi, e specificamente: a) per lo strapotere di alcune oligarchie politiche o economiche o teocratiche; b) per i severi limiti di cui soffre la libertà di stampa; c) per il condizionamento politico della magistratura.
Solo che a questo punto, chiunque ritenga di condannare quegli stati come autoritari (e personalmente io li considero tali) dovrebbe avviare qualche seria riflessione sull'eventualità che oligarchie, stampa e magistratura non siano ESATTAMENTE ALTRETTANTO COMPROMESSE nei maggiori stati occidentali di quanto lo siano nelle proverbiali 'dittature'. (Quanto all'Italia solo un cieco potrebbe nutrire dubbi).
2) L'argomento "se non ti piace qui te ne puoi sempre andare" è una classica applicazione della logica liberale di mercato alla politica. L'idea dei liberali è che i paesi sono come compagnie aeree: se non ti piace il catering o il servizio bagagli cambia compagnia. Così come l'elettrodomestico guasto non si ripara, si butta, così vale anche per la patria inadempiente.
Questo è uno di quei punti su cui purtroppo gli argomenti arrivano ad un termine. Per chi vive le proprie relazioni con il mondo come se esso fosse un servizio a noleggio, la forma di vita di chi ha con il proprio mondo delle relazioni di appartenenza non può che risultare incomprensibile. Qui si è posti di fronte ad una differenza antropologica e chi si pensa come un turista del mondo è per chi desidera coltivare e migliorare il proprio mondo sempre semplicemente una minaccia e un pericolo.
3) Il terzo e ultimo argomento è forse quello decisivo. Premesso che governi autoritari sono frequenti e ubiqui tanto nei confini dell'impero americano che al di fuori di esso, c'è tuttavia un punto di discrimine che va ben compreso. Spesso chi difende il modello liberaldemocratico, anche quando manifesta tratti pesantemente autoritari, lo fa immaginando che comunque nelle liberaldemocrazie si è molto distanti dal modello personalistico tipico delle dittature, dove l'esercizio della forza autoritaria si incarna spesso in figure specifiche, in personalità. Non ci sono un Putin o uno Xi Jinping o un Fidel Castro in Europa o in America. In occidente il potere sembra liquido, impersonale e perciò sembra meno oppressivo.
E questo è un errore profondo, un errore che deriva da un atavismo psicologico, ma che inverte il senso degli eventi.
L'atavismo psicologico qui è l'identificazione dell'esercizio del potere subordinante nella forma di una personalità autoritaria (il "padre padrone"), verso cui si possono concentrare l'odio e il timore. Quando, come avviene in occidente, il potere non presenta questo aspetto, psicologicamente in molti hanno l'impressione di una ridotta oppressione. Dopo tutto un Draghi o un Biden non hanno certo un potere personale comparabile ad un Putin.
E questo è vero, e a comprenderlo bene, è un elemento latore di profonda angoscia.
Noi infatti possiamo immaginare che ad un autocrate "cattivo" subentrerà un autocrate "buono", ad uno guerrafondaio uno pacifista, ad uno rozzo uno colto, ecc., ma nel nostro sistema sappiamo che il sistema oppressivo è immensamente resiliente, flessibile, e perciò stabile come solo i muri di gomma sanno essere.
La Russia dipende dalla salute e dalla lucidità di Putin, gli USA non dipendono da quella di Biden, né noi da quella di Draghi. Qui nessuno è indispensabile, anzi nessuno è importante, perché il sistema procede con un pilota automatico che nessuno domina, e che può perseverare nell'errore, qualunque errore, all'infinito.
Il carattere anonimo delle oligarchie tecnocratico-finanziarie le rende immensamente più pericolose di qualunque autocrazia classica (O'Brian non è malvagio quando porta Winston alla stanza 101: O'Brian è semplicemente fungente, ed è sostituibile da qualunque funzionario del Ministero dell'Amore).
Un tempo la promessa del sistema era che buone istituzioni sarebbero state capaci di riprodurre la virtù senza bisogno di personalismi.
La realtà odierna del sistema è che cattive istituzioni (il blocco tecnocratico e finanziario a guida americana) è in grado di riprodurre il male ed il vizio senza che il venir meno di questo o quel volto faccia la benché minima differenza.