mercoledì 30 agosto 2017

L'origine delle ONG

(Riceviamo da Paolo Di Remigio e volentieri pubblichiamo questa traduzione del primo capitolo di un libro sulla storia delle ONG. Il testo è apparso anche su "Appello al popolo. M.B.)







L’origine delle ONG

Il libro di Engdahl, di cui traduciamo di seguito il primo capitolo, (Geheimakte NGOs, Kopp Verlag, Rottenburg giugno 2017) documenta come le principali ONG siano strumenti forgiati dalle oligarchie politiche ed economiche statunitensi, uno dei mezzi a cui esse, sulla base di un esasperato nazionalismo, ricorrono per condizionare e rovesciare i governi che ritengono non abbastanza allineati ai loro piani.
Dopo che la sequenza di destabilizzazioni, di colpi di Stato, di assassinii politici, di abusi nei confronti di cittadini stranieri e americani sollevò nell’America degli anni ’70 aspre polemiche che minacciavano di impacciare i liberi movimenti dei servizi segreti, nel 1983, durante la presidenza Reagan, il direttore della CIA, Casey, uscì dall’angolo con un colpo di genio: affidare le destabilizzazioni e i cambiamenti di regime non più a manovre coperte dietro le quinte, indifferenti se non ostili alla volontà dei popoli, dunque in contrasto con l’ideologia democratica professata dagli Stati Uniti, ma ad organizzazioni ufficialmente indipendenti dal governo che pure le aveva create e le finanziava in segreto, le quali in nome dei diritti umani, della democrazia e della lotta alla corruzione, creassero nei paesi da colpire avanguardie in grado di mobilitare la piazza contro i governi. La destabilizzazione e il cambiamento dei regimi assunsero così l’aspetto di un generoso movimento dal basso. Combatterlo avrebbe significato porsi nel campo opposto a quello della generosità, rinnegare cioè i diritti umani, la democrazia, la lotta alla corruzione, essere demonizzati come un regime paria, uno Stato canaglia, autorizzare così la ‘comunità internazionale’ al giusto intervento in difesa della popolazione angariata.
In questo modo le operazioni imperialistiche hanno assunto un aspetto tanto convincente di rivoluzione interna che molti sessantottini invecchiati non riescono ancora a capacitarsi come l’esito normale delle rivoluzioni sia la formazione di protettorati atlantici gestiti da regimi fascisti – da quello dei ‘Fratelli musulmani’ in Medio Oriente a quello dei neonazisti in Ucraina. Con un felice richiamo letterario, Engdahl suggerisce che Casey ha agito sul modello dell’abile diplomatico del racconto di Edgar Allan Poe, che sfugge alle perquisizioni ponendo la lettera rubata in un posto bene in vista anziché in un nascondiglio recondito.
Se vale l’osservazione di Hegel secondo cui il segnale della vittoria definitiva di un partito su un altro è lo scindersi del primo in una nuova opposizione, allora, dopo la vittoria sul blocco orientale, il blocco occidentale si è scisso e gli USA hanno iniziato a considerare l’Europa non più un alleato, ma un nemico virtuale da ridurre all’impotenza prima che possa formulare pensieri di autodeterminazione. Così la stessa Europa è finita nella morsa americana, stretta dalle regole della UE che ne devastano l’economia, dalla NATO che ne dirige la politica estera, dalle riforme sociali e culturali, dal terrorismo e dall’immigrazione incontrollata che ne disgregano la società.
Le esitazioni di una classe dirigente europea esecutrice dei diktat atlantici, intensificatesi con il drammatico declino della sua popolarità, sono superate dallo slancio delle organizzazioni non governative silenziosamente proliferate. Esse sembrano obbedire soltanto a un generoso idealismo impresso nella loro essenza: all’imperativo categorico di salvare vite umane, di aprire gli europei all’accoglienza, di organizzare l’integrazione, di intensificare il pluralismo, di lottare contro la corruzione e da ultimo contro i discorsi di odio. Il libro di Engdahl mostra che tutto questo è subdola ideologia, che la sensibilità delle ONG, selettiva e indifferente al valore della legalità, è la copertura del piano atlantico di destabilizzazione mondiale.


mercoledì 9 agosto 2017

Vacanza

Il blog si prende qualche giorno di vacanza. Ci risentiamo dopo ferragosto. Buone vacanze a tutti.

I progressi dell'intolleranza

Bisogna tutelare ogni diversità, tranne quella di chi la pensa diversamente



Anche la seguente notizia sul Brasile non è male (l'autore lavora in una Università brasiliana)



Non c'è bisogno, credo, di far notare il collegamento fra queste notizie e le leggi anti-negazionismo o i recenti tentativi di limitare la libertà di espressione sul web con la scusa delle "fake news". Si tratta in sostanza, nella mia opinione, di una lenta corrosione dei principi di base della società liberale, che evidentemente non sono più funzionali nell'attuale capitalismo decadente.

mercoledì 2 agosto 2017

Il crepuscolo di Toni Negri (Paolo Di Remigio)

(Riceviamo dall'amico Paolo di Remigio, e volentieri pubblichiamo, questo intervento su Negri. L'intervento era già apparso in "Appello al popolo". M.B.)





Il crepuscolo di Toni Negri

(P.Di Remigio)

Nel dicembre 2016 Toni Negri ha pubblicato un testo di una precedente conferenza, dal titolo enigmatico ‘Pour en finir avec la souveraineté?’, in italiano ‘Per finirla con la sovranità?’[1]. Il discorso di Negri, povero di conoscenza storica e di ragione filosofica, si risolve in errori sul passato, illusioni sul presente e rifiuto di ogni più sacro vincolo dell’umanità; la sua lettura attenta può nondimeno essere utile a mostrare la debolezza di ogni discorso politico che osi considerare lo Stato-nazione un patetico residuo del passato, e può contribuire a chiarire il concetto di sovranità e la sua stringente attualità[2].

Comincerò dalla critica dell’autonomia del politico (nazionale) sotto la cui bandiera si muovono varie posizioni, tutte nostalgiche della sovranità.

Parlando di nostalgia della sovranità, Negri fa un doppio errore: di contenuto, in quanto riduce la sovranità nazionale a un istituto che continuerebbe ad esistere solo nei libri di storia, mentre la realtà attuale è fatta di Stati con i loro territori, le loro leggi, i loro magistrati e i loro eserciti. Parlare di ‘nostalgia’, non di ‘esigenza’, di sovranità significa avere trasformato in una fase di storia universale le manovre imperialistiche svoltesi all’interno della UE, volte invece a sopprimere la sovranità della sola Europa meridionale in favore di quella settentrionale. È un grave errore di valutazione, la cui sorgente è l’illusione internazionalista, questa sì definitivamente passata – non solo perché non ci sono al momento rivoluzioni internazionaliste né soggetti politici ad averla in programma, ma anche perché tutte le rivoluzioni internazionaliste hanno mostrato di avere una determinazione essenzialmente nazionale (russa, cinese, cubana …), così che l’internazionalismo è sempre stato nel migliore dei casi una vuota retorica, nel peggiore l’ideologia dell’imperialismo sovietico. L’errore di contenuto va insieme a un errore di forma. Ogni confutazione ha un metodo: deve iniziare dalla verità del concetto da confutare e finire col mostrarne la falsità. Invece Negri, dopo aver promesso con il titolo della sua conferenza un’argomentazione che confuti il concetto di sovranità, dunque un’argomentazione che termini con l’annullamento del concetto, inizia presupponendolo già nullo.

“L’autonomia del politico” è infatti oggi da molti concepita come una forza di redenzione per la sinistra – di fatto la ritengo una maledizione dalla quale rifuggire. Uso la frase “autonomia del politico” per designare argomenti che pretendono che il processo decisionale in politica possa e debba essere tenuto al riparo dalle pressioni della vita economica e sociale, dalla realtà dei bisogni sociali.

La sovranità non ha nulla a che fare con la pretesa che la politica debba essere tenuta al riparo dalle pressioni della vita economica e sociale, dalla realtà dei bisogni sociali: chi mai ha potuto sostenere questa posizione? ‘Sovranità’, dal punto di vista interno allo Stato, significa che la politica regola il mercato capitalistico in modo da porlo al servizio dei bisogni sociali.
Negri distingue tre tipi di ‘nostalgici’ della sovranità.

Alcune delle figure contemporanee più intelligenti che propongono l’autonomia del politico lo concepiscono come un mezzo per restaurare il pensiero politico liberal (di sinistra) strappandolo al dominio ideologico del neoliberismo, come antidoto non solo e non tanto alle politiche economiche distruttive del neoliberalismo, ivi comprese privatizzazione e deregulation, ma piuttosto ai modi nei quali il neoliberalismo trasforma e domina il discorso pubblico e politico: il modo nel quale esso impone una razionalità economica sopra il discorso politico e mina ogni ragionamento politico che non obbedisca alla logica di mercato. […] Sostenere l’autonomia del politico in questo contesto è dunque un modo per rifiutare il dominio della logica di mercato e per restaurare il discorso politico della tradizione liberal, dei diritti, della libertà e dell’eguaglianza – dell’égaliberté, come la chiama Etienne Balibar – che ha forti risonanze nell’opera di Hannah Arendt  e che va indietro almeno fino a John Stuart Mill. Si può riconoscere che queste critiche liberal del neoliberalismo sono oneste ma si deve aggiungere che sono inadeguate ad un progetto democratico. Da un lato, nozioni politiche di libertà ed eguaglianza che non attacchino direttamente le basi economiche e sociali dell’ineguaglianza e della mancanza di libertà, in particolare le leggi della proprietà e del comando sopra la nostra vita produttiva e riproduttiva, fan da sempre prova della loro inadeguatezza. D’altro lato, la potenzialità ovvero l’esistente capacità della gente di governarsi collettivamente, sarà in questa luce sempre oscurata e, quindi, quella vera democrazia che è costituita da una moltitudine capace di determinare decisioni politiche, apparirà sempre e solo una nobile idea per qualche momento di un futuro indefinito. “I teorici liberal che guidano il treno dell’autonomia del politico non arriveranno mai a destinazione”: sottolinea con enfasi un mio amico.

La prima specie di nostalgia sovranista è l’esigenza sentimentale di tenere separato discorso politico e discorso economico per timore che il totalitarismo di mercato elimini il politico e la prospettiva della libertà e dell’uguaglianza. La critica di Negri, che questi nostalgici non attaccano le basi strutturali che producono ineguaglianza e non libertà e non hanno fiducia nelle virtù democratiche delle masse, non tocca però il cuore della questione perché, come i nostalgici che essa attacca, non riflette su libertà e uguaglianza: crede che si possa operare un’unica manovra per ottenerle entrambe; quest’unica manovra tuttavia non esiste perché libertà e uguaglianza sono in contrasto essenziale. È evidente che la libertà, intesa nel senso comune come autonomia individuale, produce ineguaglianza e che l’uguaglianza produce limitazione della libertà individuale. Come è proprio dell’essenza del mercato tenere ferma la libertà del singolo e produrre ineguaglianza così è proprio dell’essenza dello Stato tenere ferma l’uguaglianza e limitare l’autonomia del singolo. Non si può sfuggire a questo dilemma, lo si può soltanto comporre nell’idea di Stato costituzionale. Così, quando rifiuta con orrore la sovranità dello Stato, senza che se ne accorga, Negri rifiuta l’uguaglianza e si avvicina pericolosamente al liberismo, con il quale in effetti condivide l’idea che gli individui siano in grado di organizzare spontaneamente la società e l’economia. Il fatto che Negri non chiami ‘mercato’ questa organizzazione spontanea e non ne riconosca il potenziale di ineguaglianza non depone a suo favore: significa soltanto che non disponendo di una intuizione della realtà umana, si ferma al sentimento rousseauiano e che non ha la coerenza del liberismo. Egli non pensa la libertà e l’uguaglianza, le sogna; quindi crede che possano essere rimosse le basi economiche e sociali dell’ineguaglianza e della mancanza di libertà. Se però si rimuovesse l’illibertà individuale (cioè lo Stato) si produrrebbe l’ineguaglianza assoluta e se si rimuovesse l’ineguaglianza (cioè il mercato) si produrrebbe l’illibertà; se si rimuovessero entrambe l’uomo tornerebbe animale, né libero, perché cosa tra le cose, né uguale, perché preda delle differenze naturali. Lo Stato costituzionale sovrano le pone entrambe in quanto garantisce un’uguaglianza qualitativa autorizzando l’ineguaglianza quantitativa, ossia fissa la misura della libertà individuale così da consentire a ciascuno l’uguaglianza essenziale.