domenica 25 settembre 2016

Pillole di verità dal mainstream

Come abbiamo fatto notare più volte, le analisi che l'area antieuro  proponeva anni fa sono ormai diventate mainstream. Un esempio è questo articolo sul Corriere, di Federico Fubini:


http://www.corriere.it/cultura/16_settembre_25/surplus-commerciale-tedesco-ea7b56b6-8286-11e6-8b8a-358967193929.shtml


Il passaggio più interessante è quello in cui Fubini dice che l'euro è una moneta sottovalutata per la Germania e sopravvalutata per Italia e Francia, ma aggiunge che "la soluzione non può essere la rottura dell'euro". E allora quale mai sarà la soluzione? Fubini non lo dice, perché ovviamente non c'è nessun'altra soluzione, almeno nessuna politicamente praticabile nelle condizioni date.


Intanto, in attesa che qualcuno trovi la soluzione alternativa che Fubini non sa indicare, la situazione continua a peggiorare:


http://www.corriere.it/economia/16_settembre_24/crescita-dimezzata-vincoli-ue-337a00b4-8297-11e6-8b8a-358967193929.shtml

giovedì 22 settembre 2016

lunedì 19 settembre 2016

La rivolta per i compiti a casa (P.Di Remigio)

(Riceviamo e volentieri pubblichiamo un contributo di Paolo Di Remigio sul tema dei compiti a casa, del quale abbiamo parlato qui. M.B.)

Forse il rifiuto di fare i compiti per le vacanze voleva essere un ultimo gesto contro l'autorità della scuola1 – in ogni caso è sprofondato nelle sabbie mobili di una imperturbata tolleranza: la scuola non ha reagito punitivamente; configurata infatti secondo il modello dell'ospizio, come potrebbe scomporsi se un suo cliente non segue delle prescrizioni dettate più dall'abitudine che dalla convinzione? Rifiutarle, anziché essere un atto di coraggiosa rottura, somiglia piuttosto all'accanimento contro un corpo senza vita; e solo per questo trova un'eco nella stampa italiana. Essa infatti sopravvive offrendo ai suoi lettori, anziché informazioni, soddisfazioni occulte dei loro desideri2 e alimentando il sentimento di sé dell'ignoranza; il dilettantismo, l'incapacità di argomentare, l'incolta soggettività che si riduce ad avere se stessa come unico oggetto, possono acquisire nei suoi articoli un'aria di importanza.

Al padre che non ha fatto fare i compiti estivi al figlio perché lo ha impegnato in tante bellissime attività, si poteva obiettare che lo svolgimento di quei compiti non precludeva quello delle bellissime attività, che le lunghe giornate estive offrono tempo per quelli e per queste, che in generale durante le vacanze non solo ci si diverte e riposa, ma ci si lava, si pulisce casa, si cucina come quando si lavora – che insomma il rifiuto è del tutto pretestuoso dal punto di vista pratico. Dietro l'inconsistenza pratica del rifiuto sarebbe allora apparsa una sublime quaestio juris, il principio per cui gli insegnanti devono insegnare ciò che hanno da insegnare nei limiti del tempo-scuola loro concesso, e non devono esorbitare sui pomeriggi e sui giorni di vacanze. In questa prospettiva il lavoro domestico degli alunni appare una corvée imposta dal mancato lavoro scolastico di insegnanti infingardi – un capitolo nel lungo romanzo della corruzione e delle inadempienze dei lavoratori pubblici. È per questo che nel rifiuto dei compiti a casa si avverte un certo tono da denuncia al tribunale amministrativo o almeno quello della rivendicazione sindacale. Toni del tutto fuori luogo: quanto alla rivendicazione sindacale, forse non è superfluo ricordare che essa è legittima per i produttori di ricchezza, per i lavoratori, che gli studenti, benché ugualmente lavoratori, non producono tuttavia ricchezza, che, anzi, la scuola costa alla famiglia e alla collettività, che dunque ogni consegna scolastica non ha nulla a che fare con l'estorsione di lavoro non pagato; quanto alla denuncia del presunto illecito, essa si basa sulla grossolana ignoranza dei fatti elementari della didattica. Innanzitutto, la richiesta di limitare il lavoro scolastico a scuola presuppone la convinzione discutibilissima che questo lavoro non offra strumenti di applicabilità universale, in grado di rendere l'individuo adeguato ai problemi di ogni ambito vitale, che cioè le cose imparate a scuola per principio servano solo a scuola e a null'altro. Se fosse così, allora sarebbe meglio abolire del tutto l'obbligo scolastico – certi ambienti neoliberali non si augurano di meglio. In secondo luogo, il rifiuto di lavorare a casa implica la convinzione che il lavoro senza la presenza dell'insegnante possa e debba essere sostituito dal lavoro con la presenza dell'insegnante. Mentre la prima convinzione equivale al rozzo pregiudizio dell'inutilità del pensiero teorico, la seconda convinzione nasce dai profondi equivoci che dominano la didattica da quando vi è stato importato il modello anglosassone – quello che in ottemperanza all'anarco-liberalismo fa dell'alunno un cliente.

Non è questo il luogo di confutare il rifiuto della teoresi – lo ha già fatto la storia del mondo. Può essere invece utile ricordare che dalla frequenza della scuola l'alunno deve trarre competenze – deve saper parlare, scrivere, capire e risolvere problemi in generale – e che l'insegnante può dare molto ma, disgraziatamente, non le competenze, perché queste non possono essere trasmesse magicamente, ma ognuno se le forma a partire dal proprio lavoro privato e nella misura estensiva (quanto tempo) e intensiva (con quanta accuratezza) in cui lo svolge. Compito della scuola è 1. scegliere, ordinare e illustrare i contenuti scientifici, 2. prescrivere, correggere e valutare le esercitazioni. Si vede subito che l'insegnante è protagonista del primo punto, che lo studente lo è del secondo. Lo svolgimento puntuale del primo, per quanto stimolante e creativo sia stato, equivale a «scrivere sull'acqua», come scrive Hegel nel brano proposto più sotto, se non gli si accompagna lo svolgimento altrettanto puntuale del secondo, che è compito individuale, solitario, dell'alunno. L'insegnante non può imparare al posto dell'alunno, né lo può fare un alunno al posto dell'altro, come accade di solito nei lavori di gruppo; può stimolarlo con la sua scienza e creatività, può obbligarlo con la minaccia delle valutazioni negative – in ogni caso l'alunno diventa competente con il proprio lavoro, esercitandosi.

Il frammento seguente, tratto dal discorso che Hegel in qualità di rettore tenne il 14 settembre 1810 al Ginnasio di Norimberga, contribuirà a sollevare il velo che la pigrizia torna eternamente a stendere sugli elementi di ogni azione didattica.

«Affinché per gli studenti la lezione impartita a scuola diventi fruttuosa, affinché per suo tramite facciano effettivi progressi, la loro diligenza privata è necessaria quanto la stessa lezione … Nulla è più essenziale che perseguire con ogni severità e sottomettere a un regolamento inesorabile il vizio della negligenza, del ritardo o dell'omissione dei lavori, così che la consegna puntuale del compito diventi qualcosa di immancabile come il sorgere del sole. Questi lavori sono importanti non solo perché quanto appreso a scuola si imprima più saldamente con la ripetizione, ma soprattutto perché la gioventù sia condotta, oltre il nudo recepire, all'occupazione attiva, al proprio sforzo. Infatti l'apprendere come nudo recepire e memorizzare è un aspetto molto incompleto dell'istruzione. Viceversa, la tendenza dei giovani a ritrarsi nel proprio punto di vista e a disprezzare l'oggetto è altrettanto unilaterale e va tenuta con cura lontana da essi. Per tutti i primi quattro anni di apprendimento gli allievi di Pitagora dovevano tacere, cioè non avere o manifestare proprie idee e pensieri; infatti il fine principale dell'educazione è che siano estirpati pareri, pensieri e riflessioni che la gioventù può avere e fare, e il modo in cui può farseli da sé; come la volontà, anche il pensiero deve iniziare dall'obbedienza. Se però l'imparare si limitasse a un nudo recepire, l'effetto non sarebbe molto migliore dello scrivere frasi sull'acqua; infatti non il riceverla, ma soltanto l'attività dell'afferrarla e la facoltà di riutilizzarla fanno di una nozione una nostra proprietà. Se invece la tendenza va soprattutto all'affermare la propria superiorità sull'oggetto, nel pensiero non arrivano mai disciplina ed ordine, nella conoscenza non arrivano nesso e coerenza. È dunque necessario che al ricevere sia aggiunto il proprio sforzo, non come un creare inventivo, ma come applicazione dell'appreso, come tentativo di cavarsela per suo tramite con altri casi singoli, con altro materiale concreto. La natura di ciò che si insegana negli istituti scolastici, a partire dalle prime determinazioni grammaticali, non è una serie di fenomeni sensibili, isolati, ciascuno dei quali valga solo per sé e sia soltanto oggetto dell'intuire e del rappresentare o della memoria, ma è in primo luogo una serie di regole, di determinazioni universali, di pensieri e leggi. In questi la gioventù acquisisce subito qualcosa che essa può applicare e un materiale a cui può applicarlo – strumenti e armi per cimentarsi con il singolo, una capacità di venirne a capo. – La natura del materiale e la modalità di istruzione, che non è inculcare una collezione di casi singoli, una folla di parole e locuzioni, ma è un procedere interattivo tra singolo e universale, conferisce all'apprendere … il carattere dello studio …»3.



1 Per i primi gesti cfr. l'interessante intervista rilasciata da Luigi Bobbio e contenuta al minuto 21:20 del seguente filmato http://www.raistoria.rai.it/articoli/litalia-della-repubblica-studenti-e-operai-in-lotta/33654/default.aspx


2 «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili». (Romani 8,26)




3 Il testo che abbiamo tradotto è contenuto in Hegel, Nürnberger und Heidelberger Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1970, pp. 331-333.

venerdì 16 settembre 2016

Nel paese dei balocchi

Da qualche tempo si discute sul grave problema dei compiti a casa. Molti genitori e qualche insegnante ne teorizzano il rifiuto. L'ultima di queste discussioni, in ordine di tempo, è nata dalla lettera di un padre, pubblicata su facebook, che informava gli insegnanti della propria decisione di non far fare i compiti delle vacanze al figlio:


http://www.huffingtonpost.it/2016/09/13/lettera-di-un-papa-contro-i-compiti-per-le-vacanze_n_11989058.html


Non c'è niente di nuovo, naturalmente, nel rifiuto della fatica e della disciplina che comporta l'acquisizione del sapere. E' ovvio che è più divertente fare le cose divertenti, che è più interessante fare le cose per le quali proviamo un interesse immediato. Di tutto ciò ha parlato uno dei testi fondamentali della cultura occidentale, "Le avventure di Pinocchio", quando Collodi descrive il paese del balocchi. Un posto che ovviamente è molto più divertente e interessante della scuola. Collodi sapeva però la verità che i genitori e gli insegnanti di cui si discorre hanno dimenticato, o non hanno proprio mai saputo: il paese dei balocchi ha uno scopo preciso, quello di trasformare i nostri figli in somari bastonati e sfruttati. Fossi complottista, mi verrebbe da dire che l'attenzione mediatica che si dà a iniziative come quella del padre di cui sopra, è il risultato di un piano per trasformare l'Italia in un paese di somari bastonati e sfruttati. Ma il complottismo è sbagliato, e la verità è più semplice e più triste: siamo già un popolo di somari bastonati e sfruttati. È per questo che sui giornali trovano spazio queste discussioni, ma non c'è un dibattito serio sull'euro. È per questo che ci teniamo l'orribile classe politica di destra e di sinistra. È per questo che il nostro paese cade a pezzi.

La storia infinita

Le politiche austeritarie riproducono se stesse, all'infinito:


http://www.repubblica.it/economia/2016/09/15/news/crisi_portogallo-147779935/?ref=HRLV-4


http://vocidallestero.it/2016/09/07/zerohedge-un-altro-stallo-greco-leuropa-rifiuta-i-soldi-ad-atene-finche-le-riforme-non-saranno-adottate/

sabato 10 settembre 2016

domenica 4 settembre 2016

Qualche osservazione sull'intervento di Cesaratto (P.Di Remigio)


(Riceviamo e volentieri pubblichiamo uno scritto di Paolo Di Remigio a proposito dell'intervento di Cesaratto che abbiamo segnalato sul blog. M.B.)


L'intervento di Cesaratto, «Il proletariato (non) ha nazione …»1, largamente condivisibile, anzi illuminante in molti punti, nella sua prima parte non sembra spingere abbastanza in profondità la critica della sinistra e forse anche questo contribuisce a rendere oggi, come scrive lo stesso Cesaratto, «maledettamente difficile» la «prospettiva politica di cambiamento».
Un primo eccesso di delicatezza appare rispetto alla citazione di Gallisot: «Proprio perché la classe operaia è priva di proprietà, non è più lacerata dai limiti dell’interesse privato, diventa per ciò stesso suscettibile di solidarietà». Questa proposizione contiene un doppio, grave errore: 1. Sembra credere che la proprietà privata sia incompatibile con la solidarietà; ma nessun proprietario privato è soltanto proprietario privato; egli è anche membro di una famiglia, a cui è legato dalla più forte delle solidarietà, cioè dall'affetto; inoltre è membro di uno Stato a cui paga (in qualche misura) le tasse e presta, se necessario, servizio militare, e queste sono forme concrete della solidarietà con cui è prodotta la res publica. 2. Sembra credere che l'essere priva di proprietà renda particolarmente «suscettibile di solidarietà» la classe operaia; invece è evidente proprio il contrario, che la necessità di dover fronteggiare da una posizione debole la lotta per la vita nella società civile può solo facilitare l'assunzione di stili di vita egoistici. Gli interessi egoistici, infatti, non terminano con la proprietà privata: l'interesse a trovare un lavoro decente mette in competizione i proletari in modo più duro che i borghesi. La proposizione di Gallisot è insomma del tutto immotivata, un desiderio scambiato per realtà.
Vediamo ora cosa risponda Cesaratto. Egli ricorda giustamente che le classi operaie delle diverse nazioni sono in concorrenza a. in quanto partecipano indirettamente alla concorrenza tra i diversi capitalismi nazionali; b. in quanto sono esposti alla concorrenza dei lavoratori immigrati; ma dimentica che il salario, il prezzo della forza lavoro, si forma sulla base della concorrenza tra i lavoratori. Eppure nella stessa citazione di Marx riportata qualche riga sotto si trova una smentita indiretta del mito della solidarietà operaia: « … per poter combattere … la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe …». Ossia, prima la classe operaia è una pluralità di operai in concorrenza che ha, certo, interessi comuni, ma che tuttavia non agisce secondo questi interessi comuni, che dunque restano in sé, potenziali, che possono unirla, ma non la uniscono ancora; poi questa pluralità in concorrenza rinuncia alla propria dispersione atomistica, si organizza, cioè ogni atomo diventa membro di una unità, e questa unità è la classe come classe, come realtà e non più solo semplice possibilità. Il superamento della dispersione, l'unità, non può dunque essere mai concepita come già data in natura: è sempre una costruzione intelligente e questa costruzione è stata storicamente il partito. La classe operaia si trova cioè nella medesima situazione di un popolo, che, certo, ha lingua, abitudini comuni, ma nel contempo ha interessi differenti che creano concorrenza, conflitto. Presupporre una solidarietà operaia e una conflittualità statale, attendersi da quella il superamento di questa, è uno dei pregiudizi inspiegabili in termini razionali, che paralizzano tutta l'attuale sinistra e rendono maledettamente difficili le prospettive politiche di cambiamento.
Un secondo eccesso di delicatezza nell'intervento di Cesaratto appare nel riferimento a Gellner. Secondo costui: « … l’emergere delle entità nazionali (è stato) funzionale allo sviluppo capitalistico». In effetti, però, il capitalismo non ha creato gli Stati nazionali, li ha trovati, e solo con estrema lentezza li ha piegati alle sue esigenze, peraltro non univoche ma contrastanti. Lo Stato nazionale e lo Stato moderno in generale vengono alla luce nel basso medioevo, per opera delle monarchie europee, cui la nobiltà feudale, costrettavi dalle insubordinazioni contadine, consente di esercitare un potere che prende progressivamente carattere pubblico. Questa storia autonoma dello Stato nazionale è trascurata dalla filosofia della storia marxista nella misura in cui, come vede bene Cesaratto, essa lo concepisce come falsa coscienza, evidentemente sulla fragile base della presunta naturalezza della solidarietà operaia. Occorre l'antistatalismo di von Hayek per riportare qualche marxista a una visione più equilibrata dello Stato. Anche qui però non si verifica una discussione sui presupposti. La prospettiva statale è fatta propria, controvoglia, dal marxista Davidson, in contrasto con la prospettiva delle entità sovranazionali che von Hayek auspica in odio alle politiche statali redistributive. Questa riappropriazione trascura però che le entità sovranazionali non sono nulla di nuovo sotto il sole, e hanno un nome preciso. Le entità politiche in generale sono di due specie: gli Stati, in cui virtualmente tutti godono gli stessi diritti, qualunque ne sia l'estensione; gli imperi, in cui una etnia gode di più diritti a spese delle altre. La UE non è un'entità sovranazionale hayekiana, è il nome dell'imperialismo regionale della Germania, che opera entro l'imperialismo globale statunitense. Lo svuotamento dei poteri dello Stato all'interno dell'entità sovranazionale di cui parla Hayek, tale da privare gli Stati di capacità redistributive, vale dunque non in generale, ma soltanto per le etnie assoggettate: gli operai tedeschi nella UE non vivono i drammi della disoccupazione e della povertà propri degli operai delle «entità» colonizzate – insieme alle merci la Germania ha esportato anche la disoccupazione. Proprio questo rende una stupida velleità ogni discorso sulla classe operaia europea, ogni speranza su una solidarietà cosmopolita o internazionalista tra colonizzatori e colonizzati. Così la lotta contro l'entità sovranazionale hayekiana non è che lotta contro l'imperialismo, e come tutte le lotte anti-imperialiste va condotta in nome dello Stato-nazione. Senza troppe riserve mentali.
1 Cfr. http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2016/08/il-proletariato-non-ha-nazione.html#more

giovedì 1 settembre 2016

Qualcosa sta cambiando


(Ho scattato queste foto in corso Armellini a Genova, qualche giorno fa. Gli "ultras Tito 1969" sono un gruppo della tifoseria sampdoriana. Non so che riferimenti politici abbiano, se ne hanno. Fino a non molto tempo fa, la comparsa di scritte simili era abbastanza impensabile, credo. Forse qualcosa sta cambiando. M.B.)