mercoledì 30 marzo 2016

Buon senso

Siamo molto d'accordo col buon senso che ispira questo post dell'amico Fraioli:


http://egodellarete.blogspot.it/2016/03/referendum-sociali-no-grazie.html


Il referendum sulla Costituzione è davvero la battaglia politica decisiva dei prossimi mesi.

martedì 29 marzo 2016

Segni dei tempi

Un indice dello sfaldarsi dei rapporti sociali è la richiesta di installare telecamere in tutti gli asili nido e scuole materne


http://www.repubblica.it/scuola/2016/03/29/news/i_casi-136457436/


Il rapporto educativo si basa sulla fiducia. Ma è un fatto che nessuno si fida più di nessuno.

lunedì 28 marzo 2016

Ma va?

Spostando in avanti l'età della pensione, e bloccando il turn-over, si ottiene che aumenta l'età media del personale della Pubblica Amministrazione. Chi l'avrebbe mai detto?


http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/03/28/news/non_ho_piu_l_eta_per_fare_questo_lavoro_-134477960/

mercoledì 23 marzo 2016

Noi non ci saremo


Noi non ci saremo

ovvero

Un frammento di quel che ho imparato da Massimo Bontempelli (e Costanzo Preve)

(Marino Badiale)

La filosofia è la ricerca razionale di un senso dell'esistenza umana. Questa caratterizzazione permette di distinguere facilmente la filosofia dalla religione e dalla scienza. La religione fornisce un senso all'umano in un contesto non razionale, tramite la fede (e il dogma), la scienza è ricerca razionale applicata ad altri problemi che quelli del senso.
La tradizione filosofica occidentale ritiene che il senso dell'esistenza emerga da una rete trascendentale di valori che viene indagata dalla razionalità filosofica. Hegel conclude la grande stagione dell'idealismo classico sostenendo che questa rete di significati si è ormai compiutamente dispiegata nella storia umana, per cui è possibile esprimerla senza timore che la storia successiva introduca nuovi significati ontologici. Se davvero esiste in Hegel la tesi sulla "fine della storia", è questo il suo senso: non fine delle vicende umane, ma fine del disvelamento di nuovi fondamentali significati ontologici.
L'ultimo importante anello di questa catena è il valore della libertà individuale, che si dispiega nel mondo occidentale a partire dalla rivoluzione politica in Francia e dalla rivoluzione economica in Inghilterra. Il problema di fondo dell'idealismo classico tedesco è quello di inserire questo nuovo fondamentale valore in una cornice che ne salvi la verità controllando le potenzialità nichilistiche in esso presenti. In un certo senso, si tratta di conciliare davvero, in modo non superficiale, la liberté con l'egalité e la fraternité. L'idealismo fallisce in questo compito a causa della sua natura di movimento intellettuale e “professorale”, incapace di azione politica. Si tratta di quelle caratteristiche della cultura tedesca aspramente criticate da Marx ed Engels nella loro produzione degli anni '40. Questo fallimento dell'idealismo classico tedesco fa sì che il suo sforzo intellettuale risulti incompreso, perfino nei suoi dati linguistici elementari, a partire dalla metà dell'Ottocento: come mi faceva notare Preve in una conversazione, è davvero difficile comprendere oggi un libro come la “Scienza della Logica” di Hegel se bisogna cominciare col capire che né “Scienza” né “Logica” significano, nel titolo di quel libro, quel che significano comunemente oggi.
Questo grande sforzo intellettuale viene ripreso dal marxismo, che rappresenta, nei suoi momenti migliori, proprio il tentativo di dare concretezza politica al progetto di inserire la nuova dimensione della libertà individuale in una organizzazione sociale incardinata su giustizia e solidarietà. E' questo, io credo, il senso della nota frase di Engels sul movimento operaio tedesco "erede della filosofia classica tedesca".
Per afferrare il senso di questo tentativo, bisogna ovviamente distinguere fra il valore della libertà individuale e la sua concreta realizzazione mediata dall'estensione universale del modo di produzione capitalistico. Distinzione delicata, naturalmente, proprio perché è la forza data dallo sviluppo economico portato dal nuovo modo di produzione, ad aver reso irresistibile l'ascesa dell'individualità moderna. Ma è proprio qui che si gioca la differenza fra il marxismo migliore e tante altre forme di critica anticapitalistica (di destra e di sinistra: compreso il marxismo peggiore) che identificano in sostanza libertà individuale moderna e capitale, rifiutando entrambi e finendo per proporre, in un modo o nell'altro, forme di repressione degli individui, magari con improbabili ritorni a improbabili comunità idilliche premoderne.
Il problema cui ci troviamo di fronte, ormai da decenni, è che anche il tentativo marxista è fallito, e che le potenzialità nichilistiche implicite nell'unione di una libertà individuale senza solidarietà e giustizia, e di un meccanismo di autoriproduzione del capitale che lo spinge alla continua invasione di nuovi ambiti della vita sociale e naturale, queste potenzialità nichilistiche si stanno ormai dispiegando senza più nessun freno e nessuna opposizione. Così, mentre da una parte il modo capitalistico di produzione sta ormai dissolvendo i legami sociali e alterando gli ecosistemi in modi incontrollabili, dall'altra l'individualità privata dei suoi legami con le idee trascendentali di giustizia e verità non può che adattarsi ad una realtà sociale, naturale e psicologica sempre più degradata.
L'evidente mancanza di una forza sociale, culturale e politica capace di porsi all'altezza di questi problemi, la pochezza intellettuale e politica del mondo “antisistemico”, la miseria di un mondo accademico nella sostanza asservito ai ceti dominanti, la totale incapacità dei ceti dominati anche solo di capire quali siano i propri interessi, tutto questo rende facile pronosticare che le attuali tendenze proseguiranno indisturbate la loro opera distruttrice, e che solo alla fine di un periodo buio di declino di civiltà si potranno forse scorgere barlumi di una nuova forma di organizzazione dell'esistenza umana. Ma noi non ci saremo, si cantava tanti anni fa.






martedì 22 marzo 2016

Speriamo che abbia ragione

Monti ha dichiarato che l'UE potrebbe finire entro tre anni:


http://www.wallstreetitalia.com/per-monti-ue-ha-tre-anni-di-vita-ce-chi-la-vede-morire-prima/


Speriamo proprio che abbia ragione. Al di là delle battute, è del tutto logico che i ceti dominanti stiano discutendo le strategie per affrontare un eventuale crollo di euro/UE. Naturalmente lo fanno avendo in mente i loro interessi, non certo i nostri.

lunedì 21 marzo 2016

domenica 20 marzo 2016

Poco da aggiungere

E' tutto ormai così chiaro, così evidente, così apertamente detto, che viene davvero voglia di lasciar perdere e dedicarsi ad altro. Michele Salvati sul Corriere della Sera spiega che, nella realtà attuale di euro e UE, non è possibile rilanciare la domanda interna (cosa che almeno gli USA tentano di fare) "per i  vincoli che il suo nucleo, la zona euro, si è autoimposto". Non credo che i lettori di questo blog abbiano bisogno di ulteriori delucidazioni per capire il senso di quello che dice Salvati. Ma sono interessanti le conclusioni: per uscire dalla crisi attuale, dati i vincoli di cui sopra, occorre in sostanza tenere bassi i salari ("nell'impossibilità di una svalutazione vera" è inevitabile "una svalutazione interna, cioè una dinamica salariale più bassa") e sottrarre agli italiani la ricchezza privata (pudicamente Salvati parla di "interventi di finanza straordinaria"). Ci sarebbe certo molto da dire sull'olimpica serenità con la quale un intellettuale di sinistra prospetta un massiccio impoverimento del popolo del suo paese. Ma questo non conta, e articoli come questi sono i benvenuti e dovrebbero essere ampiamente pubblicizzati da tutti coloro che si oppongono a euro/UE: sarebbe davvero un bel passo in avanti se diventasse chiaro alla maggioranza degli italiani che tenersi euro/UE significa inevitabilmente ridurre i salari ed espropriare i risparmi.

sabato 12 marzo 2016

Normali deliri

Sempre in tema di scuola, segnalo l'articolo di Ernesto Galli della Loggia:


http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_12/scuola-assurdo-calvario-neo-professori-b7366470-e7b4-11e5-ba2c-eb6e47d0264e.shtml


Si tratta di deliri del "didattichese burocratico" che chi vive nella scuola conosce da tempo, e che Massimo Bontempelli, per esempio, denunciava anni fa. Non è male che se ne sia accorto Galli della Loggia, anche se temo che la sua denuncia non avrà nessun esito. Troppo forti e profondi sono i processi degenerativi che portano, nella scuola e altrove, a produrre simili follie.

giovedì 3 marzo 2016

Una riflessione sulla scuola (P.Di Remigio)


Riceviamo e pubblichiamo questa riflessione di Paolo Di Remigio (M.B.)




SCUOLA



L'insegnamento è il segreto dell'umanità. Mentre la natura vivente si evolve con la soppressione dei meno adatti e le specie sorgono dall'estinguersi di altre specie, l'umanità si evolve conservando i suoi inizi; l'insegnamento che ne vivifica la memoria le permette di evolversi rimanendo identica, di non perdere nel guadagnare, così da avere una storia. L'insegnamento ha però bisogno del linguaggio. Con il linguaggio l'uomo si è dunque staccato dalla natura; non perché la natura non lo abbia; i suoi linguaggi sono però privi di nomi, non sono in grado di esprimere significati generali. Invece il linguaggio umano è gremito di nomi propri che esprimono il riconoscimento della libertà dell'individuo, e di nomi comuni, in cui sono racchiuse le leggi, il lato necessario, della realtà. Per questo la filosofia più energicamente orientata in senso anti-individualistico, il platonismo, è anche una teoria del nome comune.
Platone ha opposto alle conoscenze empiriche la conoscenza delle idee, ossia la conoscenza scientifica. La cattiva abitudine a concepire la conoscenza come un'imitazione linguistica delle cose d'esperienza recalcitra a comprendere questa opposizione. Platone però come matematico sa che un teorema non ha per oggetto i dati fuggevoli dell'empiria; il teorema infatti è universale, ossia valido per sempre e per tutti gli oggetti che gli competono; è necessario, ossia spiegato in base a ragioni, dimostrato; è dunque conoscenza dell'universale e del necessario, cioè non delle cose sensibili in divenire, ma delle loro leggi; e può essere applicato alla cosa empirica nella misura in cui questa obbedisce a leggi. Ogni conoscenza empirica consiste nell'applicare alle cose conoscenze di leggi: categorie, regole, teoremi.
Conoscere non è dunque descrivere gli stati di cose, è affrontare e risolvere i problemi che essi pongono scoprendo la legge che vi si nasconde. Questo è il significato dello stupore aristotelico1. Si presume che il realismo sia inconciliabile con l'idealismo perché crede nell'essere delle cose sensibili in divenire, mentre questo crede nell'essere di misteriose cose ideali; ma quando si riconosca l'essenza della conoscenza nella soluzione di problemi, le differenze, vere o presunte, tra le filosofie si assottigliano fino ad annullarsi. Così, con inconsapevole platonismo, il pragmatista Dewey poteva scrivere che la possibilità di risolvere situazioni problematiche riposa sull'esperienza passata e nell'avere a disposizione un rilevante deposito di conoscenze; ma il mondo delle idee è appunto questo deposito di conoscenze.
Si crede di conoscere pochissime leggi e solo nella misura in cui le si è studiate consapevolmente: qualche regola di grammatica, qualche regola matematica. In realtà si trascura che ogni nome, nel significare un'immagine, è riferito a una legge. Platone vi allude nel mito della metempsicosi: conosciamo tutto perché le anime sono immortali; prima della vita hanno visto le specie delle cose di cui ora possono far riemergere il ricordo e, con una ricerca infaticabile e coraggiosa, possono trovare tutto il resto2. Questo significa: noi afferriamo le immagini significate in un numero enorme di parole; questi immagini significate sono esemplificazioni ispirate all'esperienza, ma nel momento in cui sono fissate in definizioni si trasformano in conoscenze di leggi. Il nome illuminato dalla definizione rivela la legalità a cui gli oggetti nominati obbediscono così da essere quello che sono; questa legalità, dimenticata nell'immagine significata da ogni parola, ricordata dalla scoperta delle sue relazioni necessarie con le altre parole, è esattamente ciò che Platone intende con il nome «idea».
Ogni nome comune contiene cioè nella sua immagine significata l'inizio di una conoscenza universale e necessaria dapprima inconsapevole, ma già posseduta nella misura in cui lo si usa correttamente. Determinare l'immagine significata con la definizione costituisce il grande salto platonico dal mondo empirico al mondo delle idee: significa emanciparsi dall'intuizione ed accedere alle leggi; infatti nella definizione i nomi mostrano di essere connessi in modo necessario e universale con altri nomi, mostrano di essere un'unità di nomi, e questa unità è la legge che risolve il problema posto dalla sua immagine significata.
Ricercare e individuare con una definizione i rapporti presenti nell'immagine significata dal nome è il primo passo della ricerca intellettuale; fissando la definizione essa approda alla scienza, cioè all'insieme di regole da cui è determinata la natura dell'oggetto e che applicate alle cose empiriche ne permettono la conoscenza. Le idee platoniche sono il mondo dei nomi intesi per quello che sono, non uno strumento di registrazione, ma un insieme di leggi in grado di illuminare l'esperienza. La conoscenza della lingua è così il possesso inconsapevole di una moltitudine insondata di leggi che danno soluzioni a problemi.
Creando nomi le generazioni hanno conservato le loro soluzioni ai problemi e le hanno rese trasmissibili alle generazioni successive. Dapprima i limiti della trasmissione sono i limiti della memoria. La scrittura li supera e non solo amplia il trasmesso ma soprattutto rende il linguaggio visibile, pubblico; raccoglie la sua temporalità fuggevole nella compattezza spaziale; consente il ritorno del discorso sui propri passi, così genera la severità del pensiero aperto al controllo critico. Esso completa l'intenzione più intima del nome: questo segnalava la regolarità dell'esperienza così da fissarne la fuggevolezza; ma esso stesso era fuggevole, doveva dunque impressionare la memoria dell'ascoltatore con immagini singolari – che la cultura orale prenda forma mitica ne è la conseguenza. Con la scrittura la fuggevolezza dello stesso nome è accolta nel sobrio mondo dell'essere.
Mentre l’uomo impara il linguaggio dalla madre, l'accesso alla scrittura, per sua natura pubblica, implica l'istituzione pubblica della scuola. Il suo fine è, innanzitutto, elevare alla severità della scrittura: insegnare a leggere e a scrivere in modo tale che il parlare sia uno scrivere ad alta voce e l'ascoltare un leggere la voce, in modo che il pensiero non indugi sull'immagine ma salga alla considerazione della sua legge; poi, insegnare i linguaggi segnici che si innestano sulla legalità di quello fatto di nomi. Col suo spirito pratico il medioevo ha saputo sintetizzare il compito centrale di ogni didattica nello studio del trivio, grammatica, retorica, dialettica, e del quadrivio, aritmetica, geometria, musica e astronomia. Spesso si parla con disprezzo del saper leggere, scrivere e far di conto: sembrano troppo meccanici, poco à la page; si dimentica quanto sia già difficile una grafia leggibile; di più, si dimentica che essi sono il contenuto delle arti liberali. Ma, viceversa, quando sente parlare di arti liberali lo stesso disprezzo fa subito sua la preoccupazione utilitaria e si ribella alla divisione tra teoria e pratica, tra mente e braccio: non capisce che le arti liberali, siano coltivate o meno per se stesse, sono l'educazione alla legalità del reale e che questa è la base di ogni altra acquisizione, che perciò sono l'utile κατ’εξοχήν: teme la retorica, non si accorge che essa è ineludibile, che il difetto, semmai, è il non procedere oltre, il non giungere alla dialettica.
La pedagogia sottesa alle riforme della scuola è preda di questa contraddizione: vuole la competenza degli studenti, ma, nata dalla gnoseologia volgare, quella che assume come modello del sapere la percezione visiva, né sa cosa sia, né sa come raggiungerla, e così raccomanda una prassi che riesce nella direzione opposta, cioè all'ignoranza. Per la gnoseologia volgare la conoscenza non è soluzione di problemi, ma informazione; per acquisirla non occorre esercitarsi a tollerare le situazioni problematiche e a fare appello alle leggi che il linguaggio contiene per risolverle, bisogna aprire gli occhi sulle cose e tradurle in informazioni. Anziché indizio di ogni soluzione, il linguaggio è mezzo di registrazione, da sempre obsoleto, dunque, per via dei sempre nuovi mezzi tecnici; l'attenzione che il docente gli dedica è dunque un indulgere alla vieta tradizione umanistica che rallenta l'acquisizione delle abilità oggi necessarie – come se l'umanesimo non fosse stato l'inizio della rinascita dello spirito scientifico.
Poiché conoscere è vedere e la scienza informazione, poiché ormai possiamo accedere ad ogni informazione, non occorre più la fatica della memoria. Poiché il linguaggio è soltanto registrazione, i problemi e le soluzioni sono soltanto nelle cose; quindi non occorre sforzo sulle arti liberali, la vera didattica è il laboratorio. In altri termini si ignora che problemi e soluzioni sono posti non nelle intuizioni ingenue, ma nelle loro leggi, si ignora che la mancanza di esercitazione nelle leggi contenute nel linguaggio fa mancare il pensiero per cui i fatti possono diventare problematici: non si comprende che soltanto chi ha già la conoscenza delle leggi può evitare il naufragio nell'oceano della banalità. Così tutti i nuovi metodi consistono soltanto nell'invitare i docenti a presupporre il pensiero negli alunni, anziché svilupparlo con l'esercitazione logica, cioè a scansare il proprio compito, e a disperderli nella fattualità brutale.
La decadenza della nostra scuola inizia dagli anni '70 come risultato della sua democratizzazione. Non si tratta di un progetto di distruzione elaborato segretamente dai ceti dominanti per impedire che il popolo pensi; al contrario, come temeva Gramsci in un passo memorabile3, proprio le riforme legate all'allargamento del diritto allo studio hanno avuto per effetto il rifiuto della necessaria severità dell'insegnamento: poiché per l'ignoranza conoscere è come vedere e tutti noi vediamo volentieri, lo studio può e deve essere svolto volentieri, lo sforzo di imparare è pedagogicamente controproducente, richiederlo politicamente sospetto: testimonianza di un autoritarismo emanazione ultima del dominio di classe.
La figura dell'insegnante ne è uscita annichilita. Poiché la scienza è informazione e l'informazione è immediatamente disponibile, l'insegnante non deve sapere molto, tanto meno deve fare del suo sapere il piedistallo per discorsi cattedratici; deve limitarsi ad animare la classe in modo da liberare il pensiero creativo che è già in ognuno dei suoi alunni. Come nel suffragio universale l'elettore ha diritto a fare la sua scelta qualunque sia la sua intenzione e la sua comprensione del bene comune – queste sono presupposte come buone –, nella scuola democratica tutti devono essere protagonisti: i rappresentanti di genitori e alunni devono prendere parte alla sua gestione, da ultimo devono dire la loro anche sulla valutazione del lavoro degli insegnanti.
Osservare che nelle questioni di scienza la democrazia, cioè il potere della maggioranza, non ha nessun diritto, sembra quasi un'eresia; nondimeno se qualunque teoria scientifica fosse stata sottoposta a referendum, avrebbe raccolto così pochi consensi da essere dimenticato per sempre. Sembra dunque un'eresia ancora più grave pensare che sulle questioni di insegnamento la democrazia non abbia applicazione – è l'eresia dell'articolo 33 della Costituzione –; nondimeno le assemblee, i consigli dei decreti delegati del lontano 1973-74, da cui è iniziata la degenerazione della vita della scuola, sono stati fin da principio un fallimento, luoghi in cui chi non sa parla senza essere ascoltato: attualmente le assemblee degli studenti servono soltanto a provvedere ponti tra una festa e una domenica, i consigli di classe sono disertati dai genitori, perfino dagli alunni. La democrazia nella scuola non è però solo inutile, è anche dannosa: sostituendo il paternalismo, che, ripugnante come principio dello Stato, è l'atmosfera naturale dell'istituzione scolastica, essa ha umiliato gli insegnanti, i quali, se mai si sono sforzati per acquisire conoscenze, se ne sono vergognati, e rinunciando ad esigere lo sforzo dai loro alunni, sono scesi dalla cattedra per confondersi in un'ipocrita festa dell'ignoranza.
Gli insegnanti hanno spesso seguito alla lettera la raccomandazione di disfarsi della scienza così da non essere più capaci di mostrarne la desiderabilità e di imporre la disciplina per raggiungerla. Quando i protagonisti della democratizzazione della scuola non si sono più accontentati di svuotarne la sostanza, ma postisi al servizio del liberalismo hanno puntato a distruggere la stessa istituzione, gli insegnanti, ormai senza identità, si sono messi ancora una volta a disposizione.



1 Aristotele, Metafisica, A 2, 982 b, 12 – 17.


2 Platone, Menone, 81, c-d.


3 Cfr. i Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55: «Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. […] Molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato».