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domenica 21 giugno 2020

Sulla teoria del valore-lavoro


(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio, che discute criticamente la teoria del valore-lavoro. M.B.)




Leggere il Capitale dopo il tradimento.

Paolo Di Remigio

     Ai motivi di interesse che il Capitale deve allo sforzo con cui nelle sue pagine la passione rivoluzionaria cerca di liberarsi dal disprezzo della realtà e di farsi carico dell’imparzialità scientifica, la storia degli ultimi decenni ha aggiunto lo stimolo a indagare quanto l’insufficienza della critica dell’economia politica di Marx abbia facilitato alle organizzazioni dei lavoratori il passaggio al campo avversario.
     Il capitale, com’è noto, inizia con una sezione di cui lo stesso Marx riconosceva la difficoltà e che un marxista come Althusser, nello spirito della propaganda più che della filosofia, consigliava addirittura di saltare. Nostro scopo è mostrare che l’origine della difficoltà non è nella cosa stessa, cioè nella natura della merce e del denaro, ma nel compito che Marx si è dato, quello di salvare a fini rivoluzionari l’identità di valore e lavoro ereditata da Smith e da Ricardo, benché lui stesso si sia attribuito giustamente il merito di averla falsificata già nel testo del 1859, Per la critica dell’economia politica. Il salvataggio ha effetti sulla sostanza logica del Capitale, perché lo costringe a ingaggiare una lotta con falsi problemi come il plusvalore o la trasformazione dei valori in prezzi o la caduta tendenziale del saggio di profitto e gli impedisce di liberarsi dai dogmi liberali sulla natura dello Stato, dell’economia e del denaro.

domenica 29 gennaio 2017

Globalizzazione e internazionalismo. Un commento a Löwy


Paolo Di Remigio commenta un articolo di Michael Löwy. Il testo di Löwy non è recente, ma è indicativo di come un intero strato dell'intellettualità "critica" internazionale tratta questi temi. Lo trovate qui:






Per comodità del lettore, abbiamo aggiunto alla fine del commento di Di Remigio, una traduzione, ad opera dello stesso Di Remigio. Ringraziamo ovviamente l'amico Paolo per il contributo.
(M.B.)


Paolo Di Remigio: Su globalizzazione e internazionalismo. Un commento a Löwy.





Nonostante il ‘Manifesto’ di Marx ed Engels abbia avuto un numero di pubblicazioni secondo soltanto alla Bibbia, per Löwy i due testi non avrebbero molto in comune; la loro differenza sostanziale sarebbe che Marx ed Engels non sperano in un dio, in un messia, per loro sono gli oppressi che liberano se stessi. A questa opinione va obiettato da una parte che Gesù esige da chi lo segue la conversione, ossia una vita da subito conforme a quella del Regno di Dio, dall'altra che il determinismo storico, di cui lo stesso Löwy lamenta la presenza nel ‘Manifesto’, libera gli oppressi a prescindere dalla loro azione, cioè svolge esattamente la funzione che il dio o il messia svolge nella religione cristiana.


D'altra parte, che gli oppressi liberino se stessi è una lettura troppo riduttiva delle idee di Marx ed Engels; e il ‘Manifesto’ non avrebbe avuto il suo successo se si fosse affidato a una fiducia così ingenua. Esso racconta invece una precisa evoluzione del proletariato, per cui da moltitudine dispersa diventa una massa omogenea e compatta; questa massa è però rivoluzionaria solo potentia, lo diventa actu quando diventa classe acquisendo consapevolezza di sé. E non l'acquista col semplice trascorrere del tempo, ma assorbendo i ceti medi proletarizzati, soprattutto quando ‘una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme’. Perché ci sia rivoluzione non basta essere oppressi, non basta essere riuniti dallo sviluppo produttivo in grandi masse omogenee e comunicanti; occorre essere classe sociale che disponga della comprensione teorica , cioè che sia guidata dagli intellettuali borghesi che abbandonano la loro classe: queste condizioni fanno della rivoluzione in potenza – la guerra civile più o meno occulta – una rivoluzione in atto.


Alla fine del primo capitolo del ‘Manifesto’ appare la seguente sintesi: ‘La condizione più essenziale dell'esistenza e del dominio di classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani dei privati, la formazione e l'aumento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai fra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è l'agente involontario e passivo, sostituisce all'isolamento degli operai, risultante dalla loro concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l'associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili’. In altri termini: la ricchezza borghese viene dallo sfruttamento del lavoro degli operai; gli operai sono in concorrenza tra loro, perciò sono incapaci di organizzarsi come classe e di dare battaglia; lo sviluppo industriale, a cui i borghesi sono costretti dalla concorrenza tra loro, tra borghesi, sopprime questa concorrenza tra lavoratori e li unisce in un'associazione rivoluzionaria invincibile. Marx ed Engels sono dunque perfettamente consapevoli della vera difficoltà che impedisce il passaggio dalla rivoluzione potenziale alla rivoluzione attuale: la concorrenza, che domina il rapporto tra i lavoratori. Il capitalismo fa dei lavoratori non pura forza lavoro, essi non sono merce; ma li rende venditori indipendenti dell'unica merce di cui sono proprietari, della forza lavoro più o meno semplice, così li espone, come tutti i venditori, alla concorrenza, li rende nemici.


Basta una minima riflessione per accorgersi di quanto sia illusoria la speranza del ‘Manifesto’. La sintesi di Marx ed Engels presenta due errori. Innanzitutto la borghesia è concepita come agente passivo del progresso dell'industria – un'espressione contraddittoria che, se ha una plausibilità per il fatto che il singolo capitalista subisce il progresso dell'industria, d'altra parte non può negare il fatto che il progresso industriale diminuisce la domanda di forza lavoro rispetto alla sua offerta, aumenta cioè la concorrenza tra i lavoratori ed è dunque uno dei fondamenti del potere del capitalista su di loro. In secondo luogo, il progresso dell'industria riunisce gli operai dispersi in masse sempre più numerose, è vero, ma li riunisce come concorrenti, li aggrega senza che cessi la loro natura di atomi respingenti, non li costituisce come classe, perché si verifica sempre in modo da non toccare lo squilibrio tra un'offerta sempre eccessiva di forza lavoro e una domanda sempre carente. Le lamentele sull'alienazione della società di massa significano in fondo solo che il progresso industriale nel massificare non associa gli individui. Ne segue che il termine stesso di ‘masse rivoluzionarie’ a cui questo passo del ‘Manifesto’ potrebbe dare adito, termine così ricorrente nei discorsi ‘di sinistra’, è una contraddizione, un modo illusorio di risolvere la difficoltà principale della rivoluzione proletaria, quella della trasformazione delle masse in classe.


Se si deve rimproverare a Marx e ad Engels l'eccesso di ottimismo sugli effetti associativi dello sviluppo industriale sulle masse, si deve però riconoscere loro almeno la chiara visione della concorrenza tra i lavoratori. La sinistra attuale semplicemente ignora questo punto. Essa si riferisce ai lavoratori senza pensarli come proprietari in concorrenza e se li immagina come già associati in classe. Per questo l'eccessivo ottimismo di Marx ed Engels nella sinistra attuale si esaspera nella follia di identificare la globalizzazione con l'internazionalismo. La globalizzazione è in realtà la forma esasperata del libero scambio, lo strumento principale con cui la borghesia aumenta la concorrenza tra operai e spezza la loro unione come classe; ma la sinistra sogna che la classe operaia di dimensione internazionale sia già costituita, perciò ogni movimento capitalistico verso il globalismo sembra utile a facilitarle il compito della rivoluzione. In questo la sinistra rivela che di Marx ed Engels ha assorbito solo le illusioni e ha frainteso perfino l'appello con cui concludono il ‘Manifesto’: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!» significa: «Superate la concorrenza tra voi che vi rende nemici e diventate classe», non significa affatto: «Rallegratevi dell'estendersi del libero scambio, dimenticate i confini e associatevi con gli operai delle altre nazioni». Infatti ‘la lotta del proletariato contro la borghesia è … all'inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la propria borghesia’.


Il riferimento tra nazionalismo e internazionalismo nel ‘Manifesto’ è complesso perché esso attribuisce alla borghesia una tendenza verso l'annullamento dello Stato-nazione, ma lo fa con grande insicurezza: da una parte la borghesia crea il mercato mondiale e così indebolisce l'isolamento e gli antagonismi nazionali; dall'altra il suo potere di aggregazione politica arriva allo Stato: ‘Province indipendenti … sono state strette in una sola nazione, in un solo governo, in una sola legge, in un solo interesse nazionale di classe, in un solo confine doganale’ – e non sembra poter andare oltre, perché il fatto che la borghesia ‘è di continuo in lotta … contro la borghesia di tutti i paesi stranieri’ impedisce la fusione tra gli Stati-nazione. Il parere ultimo di Marx ed Engels è che il superamento degli antagonismi nazionali, più che un effetto dell'estensione del mercato mondiale, segue il superamento dell'antagonismo di classe. Il proletariato non può farsi forte del mercato mondiale e della globalizzazione del libero scambio, perché questi sono in realtà meri strumenti della sua spogliazione, deve ‘conquistarsi prima il dominio politico (nazionale, certo!), elevarsi a classe dirigente della nazione, costituirsi in nazione’; ‘il proletariato stesso è nazionale, benché non certo nel senso della borghesia’. Insomma, le tendenze cosmopolite della borghesia sono limitate dagli antagonismi nazionali e la lotta del proletariato si svolge entro questi antagonismi; l'unificazione dell'umanità è un obiettivo aperto soltanto a proletariati nazionali che attraverso rivoluzioni nazionali siano diventati classe dirigente.


Löwy è lontano da tutta questa complessa pianificazione contenuta nel ‘Manifesto’; tutto il suo scritto ha un valore sentimentale. Poiché ignora completamente che la massa proletaria è divisa dalla concorrenza, che la sua organizzazione come classe è un compito, non un dato, la frase finale del testo gli appare ‘un proclama, una chiamata, un imperativo categorico’ all'internazionalismo. Anzi, mentre l'appello all'internazionalismo era soltanto visionario nel 1848, oggi gli sembra avere molte più chance, non perché l'organizzazione del proletariato mondiale in classe sia solida e sperimentata, ma perché il proletariato non è più solo minoranza, bensì maggioranza. Löwy non crede cioè che la rivoluzione sia il risultato dell'agire di una classe rivoluzionaria teoricamente illuminata, no, crede che la forza sia nel semplice essere maggioranza, nella massa. Poiché è massa il proletariato ‘è … la forza più potente nella lotta di classe contro il sistema capitalista globale’, anzi è l'asse attorno al quale altre forze sociali possono e devono orientarsi. E sembra quasi che la rivoluzione si faccia attendere per il ritardo con cui si orientano le altre forze sociali, le donne, le nazioni oppresse da altre nazioni, i disoccupati, i marginalizzati, gli ambientalisti.


Infine, però, Löwy non può nascondersi che alla massa proletaria manca ‘la pur minima coordinazione internazionale’, né può nascondere che questa coordinazione è sempre mancata, che l'internazionalismo ha mostrato finora una totale impotenza storica. Eppure il cuore non si arrende alla percezione e alla ragione; per questo vuole vedere ‘una nuova generazione’ che ‘ha riacquistato il senso dell'attività internazionalista’. Il problema, però, non è affatto se una generazione abbia o meno il senso dell'internazionalismo, qualunque cosa questo senso possa essere, ma se il proletariato, nazionale o internazionale che sia, sia organizzato come classe intelligente. Lo stesso Löwy se ne accorge e lamenta che ‘mentre nel XIX secolo i settori più consapevoli del movimento dei lavoratori, organizzati nell'Internazionale, erano in anticipo sulla borghesia, oggi sono relativamente, tragicamente, indietro’. Ne seguirebbe la necessità di iniziare la lotta dall'interno degli Stati. Löwy non lo riconosce; con un certo sforzo concede la possibilità di lotte nazionali, ma solo per andare al pezzo forte, all'appello finale: ‘Le lotte contemporanee sono … interdipendenti … La sola risposta razionale ed effettiva … al ricatto capitalista sulla delocalizzazione e sulla competitività … è la solidarietà dei lavoratori’. Qui Löwy si mette su un terreno scivoloso. Infatti, da una parte il capitalista non esiterà a dimostrare che proprio la delocalizzazione costituisce un atto di solidarietà dei lavoratori ricchi nei confronti dei lavoratori poveri: per effetto della concorrenza il salario dei primi scende, quello dei secondi sale fino a trovare un punto di equilibrio; così chi ha poco dà qualcosa del poco che ha a chi non ha nulla e i lavoratori di tutto il mondo saranno solidali condividendo la medesima povertà. D'altra parte la delocalizzazione può essere intesa solo come un ricatto per abbassare i salari più ricchi. Come possono i lavoratori spezzare questo ricatto con la solidarietà? Löwy non lo spiega, ma vediamo solo due strade aperte: la nobile tenacia dei lavoratori ricchi nel pretendere di lavorare per un salario superiore, così da favorire nel capitalista la scelta di delocalizzare e portare lavoro nei paesi poveri, oppure la nobile rinuncia al lavoro dei lavoratori poveri, che, informati del ricatto a cui sono sottoposti i lavoratori ricchi, dichiarano: ‘Se è così, ci rifiutiamo di lavorare per questo capitalista ricattatore’. Se però il mondo fosse questa gara di generose nobiltà, non ci sarebbe bisogno né delle classi né della loro lotta.



domenica 29 maggio 2016

Dialettica e positivismo in Marx (P.Di Remigio)


(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Paolo Di Remigio. M.B.)



In Italia parlare di Marx non ha un interesse solo teorico: se una presa di distanza da Marx è stato il modo in cui la sinistra di governo è passata dalla parte del suo nemico, una rilettura critica è necessaria oggi per intraprendere il percorso contrario; chi riconosce che il capitalismo e il liberismo (inteso come sua ideologia) sono nemici della razionalità e dell'umanità, responsabili di guerre mondiali e del libero scambio che soffoca le prospettive dei popoli poveri e minaccia la civiltà occidentale, non può non chiedersi come mai in Italia, dove c'era il più forte partito comunista occidentale, la grandiosa offensiva di classe lanciata dalla finanza e dal monopolio internazionale si sia verificata senza resistenza dei partiti e degli intellettuali che si richiamano o si sono richiamati a Marx, anzi con la loro collaborazione a volte rassegnata ma spesso entusiasta. Che l'uomo-simbolo di quanto è avvenuto in Italia negli ultimi venti anni sia Giorgio Napolitano, storico dirigente comunista e poi, senza perplessità e tentennamenti, eroe europeista della doppia Presidenza della Repubblica, suggerisce una prima risposta: chi ha spacciato lo stalinismo o il maoismo come fasi storiche superiori al capitalismo può mettersi al servizio di qualsiasi causa; chi non ha voluto vedere le immani tragedie nella rivoluzione russa e in quella cinese affidandosi alle versioni di comodo dei capi-partito ha fatto della cecità uno stile di vita e dell'affidarsi alla propaganda, anziché allo studio, una presa di posizione politica. Così, se i Francesi organizzano una risposta contro le politiche europeiste di deflazione salariale, in Italia non si capisce ancora che dei poteri stranieri usano la recessione per imporre le riforme strutturali e usano le riforme strutturali per imporre la recessione, così che le si accetta con la stolta speranza della ripresa economica. La nausea per questo spettacolo di solidarietà tra von Hayek e Marx deve spingere a un cambiamento di prospettiva: la sinistra ha abbandonato la razionalità e si è fatta reclutare dall'ordoliberismo perché ignara del lato scientifico di Marx ed erede del suo lato ideologico. Ne segue la necessità di individuare in Marx l'elemento ideologico, cioè irrazionale, antifilosofico, per cui comunica con il positivismo e con il liberismo, e di separare e valorizzare il suo contributo razionale.

mercoledì 23 marzo 2016

Noi non ci saremo


Noi non ci saremo

ovvero

Un frammento di quel che ho imparato da Massimo Bontempelli (e Costanzo Preve)

(Marino Badiale)

La filosofia è la ricerca razionale di un senso dell'esistenza umana. Questa caratterizzazione permette di distinguere facilmente la filosofia dalla religione e dalla scienza. La religione fornisce un senso all'umano in un contesto non razionale, tramite la fede (e il dogma), la scienza è ricerca razionale applicata ad altri problemi che quelli del senso.
La tradizione filosofica occidentale ritiene che il senso dell'esistenza emerga da una rete trascendentale di valori che viene indagata dalla razionalità filosofica. Hegel conclude la grande stagione dell'idealismo classico sostenendo che questa rete di significati si è ormai compiutamente dispiegata nella storia umana, per cui è possibile esprimerla senza timore che la storia successiva introduca nuovi significati ontologici. Se davvero esiste in Hegel la tesi sulla "fine della storia", è questo il suo senso: non fine delle vicende umane, ma fine del disvelamento di nuovi fondamentali significati ontologici.
L'ultimo importante anello di questa catena è il valore della libertà individuale, che si dispiega nel mondo occidentale a partire dalla rivoluzione politica in Francia e dalla rivoluzione economica in Inghilterra. Il problema di fondo dell'idealismo classico tedesco è quello di inserire questo nuovo fondamentale valore in una cornice che ne salvi la verità controllando le potenzialità nichilistiche in esso presenti. In un certo senso, si tratta di conciliare davvero, in modo non superficiale, la liberté con l'egalité e la fraternité. L'idealismo fallisce in questo compito a causa della sua natura di movimento intellettuale e “professorale”, incapace di azione politica. Si tratta di quelle caratteristiche della cultura tedesca aspramente criticate da Marx ed Engels nella loro produzione degli anni '40. Questo fallimento dell'idealismo classico tedesco fa sì che il suo sforzo intellettuale risulti incompreso, perfino nei suoi dati linguistici elementari, a partire dalla metà dell'Ottocento: come mi faceva notare Preve in una conversazione, è davvero difficile comprendere oggi un libro come la “Scienza della Logica” di Hegel se bisogna cominciare col capire che né “Scienza” né “Logica” significano, nel titolo di quel libro, quel che significano comunemente oggi.
Questo grande sforzo intellettuale viene ripreso dal marxismo, che rappresenta, nei suoi momenti migliori, proprio il tentativo di dare concretezza politica al progetto di inserire la nuova dimensione della libertà individuale in una organizzazione sociale incardinata su giustizia e solidarietà. E' questo, io credo, il senso della nota frase di Engels sul movimento operaio tedesco "erede della filosofia classica tedesca".
Per afferrare il senso di questo tentativo, bisogna ovviamente distinguere fra il valore della libertà individuale e la sua concreta realizzazione mediata dall'estensione universale del modo di produzione capitalistico. Distinzione delicata, naturalmente, proprio perché è la forza data dallo sviluppo economico portato dal nuovo modo di produzione, ad aver reso irresistibile l'ascesa dell'individualità moderna. Ma è proprio qui che si gioca la differenza fra il marxismo migliore e tante altre forme di critica anticapitalistica (di destra e di sinistra: compreso il marxismo peggiore) che identificano in sostanza libertà individuale moderna e capitale, rifiutando entrambi e finendo per proporre, in un modo o nell'altro, forme di repressione degli individui, magari con improbabili ritorni a improbabili comunità idilliche premoderne.
Il problema cui ci troviamo di fronte, ormai da decenni, è che anche il tentativo marxista è fallito, e che le potenzialità nichilistiche implicite nell'unione di una libertà individuale senza solidarietà e giustizia, e di un meccanismo di autoriproduzione del capitale che lo spinge alla continua invasione di nuovi ambiti della vita sociale e naturale, queste potenzialità nichilistiche si stanno ormai dispiegando senza più nessun freno e nessuna opposizione. Così, mentre da una parte il modo capitalistico di produzione sta ormai dissolvendo i legami sociali e alterando gli ecosistemi in modi incontrollabili, dall'altra l'individualità privata dei suoi legami con le idee trascendentali di giustizia e verità non può che adattarsi ad una realtà sociale, naturale e psicologica sempre più degradata.
L'evidente mancanza di una forza sociale, culturale e politica capace di porsi all'altezza di questi problemi, la pochezza intellettuale e politica del mondo “antisistemico”, la miseria di un mondo accademico nella sostanza asservito ai ceti dominanti, la totale incapacità dei ceti dominati anche solo di capire quali siano i propri interessi, tutto questo rende facile pronosticare che le attuali tendenze proseguiranno indisturbate la loro opera distruttrice, e che solo alla fine di un periodo buio di declino di civiltà si potranno forse scorgere barlumi di una nuova forma di organizzazione dell'esistenza umana. Ma noi non ci saremo, si cantava tanti anni fa.






martedì 29 dicembre 2015

L'eticità dello Stato (P.Di Remigio)

(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio
M.B.)


Dopo la fine del pensiero politico del mondo classico si è disposti a riconoscere all'individuo almeno la possibilità di essere onesto, ma è pregiudizio comune che lo Stato sia essenzialmente un male. Per i cattolici è una costruzione soltanto umana, quindi bisognosa di guida trascendente; per i liberali è una sgradevole necessità; Marx lo concepisce come una ipocrisia; il fascismo, che pure sembrerebbe volerlo esaltare, non accetta il pluralismo, la divisione dei poteri che consente il dominio della legge e impedisce l'esercizio del potere carismatico, e ciò equivale a dire che non ne accetta l’essenza.
La sequenza di queste visioni non è solo storica, ha una base logica. Nel cristianesimo la natura dell’uomo è corrotta dalla colpevolezza originaria che soltanto lo spontaneo gesto salvifico di Dio può espiare; così l'uomo, perduto finché il suo destino è nelle sue mani, è salvo solo se si affida all'istituzione che quel gesto salvifico ha fondato; questo significa, nella sfera politica, che gli uomini sono perduti nell'ambito dello Stato, che non può andare oltre l'attuazione di un diritto punitivo, redenti soltanto nella Chiesa che li immerge nella caritas.
Come il liberalismo che ne ha raccolto l'eredità, l'illuminismo respinge il peccato originale tra gli inganni dei preti: gli uomini sarebbero naturalmente ragionevoli, dunque in grado di conoscere, senza bisogno di guida ecclesiastica, che il loro utile è raggiungibile solo tramite la mediazione sociale, che l'egoismo coincide con la generosità; sarebbero semmai la superstizione diffusa dalla Chiesa e la tirannia esercitata dallo Stato ad accecare gli individui e a impedire il dispiegamento della loro libertà e del progresso di cui essa è portatrice.
Questa convinzione illuminista forma uno dei presupposti più profondi del socialismo. Che tuttavia il socialismo non vi si possa limitare, è avvertibile in Marx. Con le nozioni di alienazione religiosa e alienazione politica Marx fa sua la critica illuminista alla religione e alla politica; ma nel contempo le considera meri sintomi di un'alienazione originaria, l'alienazione economica, superata la quale esse sarebbero dissolte a fortiori. Poiché però l'alienazione economica sorge sul terreno naturale della società civile e dell'egoismo individuale, non su quello consapevole quindi colpevole dello Stato, Marx deve oltrepassare l'illuminismo e recuperare la nozione teologica di peccato originale, deve cioè considerare l'individuo naturale stupido e colpevole. Questa separazione di Marx dall'illuminismo è evidente nella sua nozione di ideologia; essa esprime la stessa invincibile opacità degli uomini su se stessi contenuta nella rappresentazione teologica di peccato originale. Dal momento poi che il male non può essere superato né dall'individuo né dalla ragione, ma dal movimento storico, Marx recupera un secondo motivo teologico: affida a quella che chiama la classe operaia il compito messianico di interrompere il corso della storia, di ribaltare il male del mondo e di realizzare la libertà naturale dell'individuo. Così, mentre nell'illuminismo la libertà naturale è già presente, in Marx è il sogno dell'umanità che la storia, animata dallo sviluppo della forza produttiva, sta per realizzare. Nelle sue diverse varianti il socialismo ha oscillato tra illuminismo e messianismo, tra fede nell'individuo naturale e fede nell'avvento dell'individuo naturale, come si dice di solito: tra riformismo e rivoluzione. Mentre poi il riformismo ha saputo rivalutare il significato dello Stato, le ali rivoluzionarie hanno condiviso con l'illuminismo e la teologia la diffidenza verso lo Stato, anzi l'hanno acuita in disprezzo. Senza questo disprezzo sarebbe incomprensibile l'attuale disponibilità della sinistra a offrire i suoi servizi alla criminalità finanziaria mondializzata in cui l'illuminismo ha conosciuto la sua ultima degenerazione.

lunedì 31 agosto 2015

Paolo Di Remigio su guerra e rivoluzione

Paolo Di Remigio prosegue la sua interessante riflessione su Hegel e Marx.
(M.B.)





Guerra e rivoluzione. Per la filosofia del patriottismo
(Paolo Di Remigio)



In uno scritto giovanile Hegel chiarisce il punto di vista da cui interpretare i suoi successivi “Lineamenti di filosofia del diritto”: «Una moltitudine umana può chiamarsi “stato” solo se è legata per la difesa comune del complesso delle sue proprietà»1. Ossia, ciò che porta gli elementi di una moltitudine a voler negare il proprio arbitrio e a sottomettersi a un potere che impone la coordinazione in un collettivo, è la necessità di questa coordinazione per fronteggiare la guerra: poiché teme di perdere sotto un dominio estraneo la proprietà non solo delle cose in generale, ma anche di quella cosa particolare che è il proprio corpo, l'individuo considera l'indipendenza dello stato così importante da volerle sacrificare la propria indipendenza naturale, la vita e la proprietà in cambio della difesa collettiva della vita e della proprietà. In una parola: solo il timore di perdere tutto può convincere gli individui a sacrificare la loro individualità esclusiva e a diventare elementi di una moltitudine che proprio per questa solidarietà diventa stato. Gli altri caratteri dello stato – se comandi uno o se comandino pochi o molti, se chi comanda sia stato eletto o abbia acquisito il potere per nascita, se gli individui abbiano uguaglianza giuridica, se le leggi e l'imposizione fiscale (proprio come i pesi, le misure e la moneta) siano uguali, se ci sia omogeneità di costumi, di educazione e di lingua, se ci sia differenza di religione – sono secondari: nessuna forma di governo, nessuna identità, né etnica, tanto meno razziale, né culturale, costituisce la determinazione necessaria dello stato; solo la volontà dell'individuo di sacrificare la sua sfera privata in vista della costituzione di una forza collettiva che difenda la stessa sfera privata (ciò che Hegel chiama “idealismo” dello stato) conferisce spessore solidale alla moltitudine, ne fa un'unità etica. L'essenza dello stato contiene dunque il paradosso inevitabile di difendere la sfera privata solo a costo della stessa sfera privata; e questo paradosso (Hegel lo chiama “speculativo”) è la libertà del cittadino: mentre l'arbitrio è l'esclusività propria dell'individuo, la libertà è l'esclusività che si conserva mediante la propria negazione.

La determinazione hegeliana dell'essenza dello stato ha un precedente nella “Repubblica” di Platone2. Questi, infatti, ha visto nella divisione del lavoro la causa della socialità degli uomini: il lavoro è più produttivo, il consumo più abbondante e la vita più felice, se gli uomini si specializzano nel produrre e si scambiano le eccedenze. Nella concezione platonica, a differenza, e forse più correttamente, che nella concezione marxiana, la divisione del lavoro non dà origine all'antagonismo di classe, ma alla collaborazione sociale. Benché faccia suo l'ideale di una società povera che limitando i consumi all'elementare si mantiene ugualitaria, Platone riconosce l'insopprimibilità della tendenza al lusso; essa, implicando maggiore bisogno di risorse naturali, rende rivali le diverse società; questa rivalità è la possibilità della guerra, e la possibilità della guerra genera il potere, ossia trasforma la divisione del lavoro interna alla società in una divisione di classe: sono necessari guerrieri di professione, i guardiani, che dovendo provvedere al rapporto tra la loro società e le altre si rapportano non ai singoli compatrioti, ma alla società come a un intero, cioè vi esercitano il potere. Solo a questo punto la società primitiva diventa stato.

Rispetto alle intuizioni platoniche le concezioni moderne fino a Rousseau perdono incisività. Tutte cercano di determinare lo stato a prescindere dal rapporto tra gli stati, quindi fanno fatica a concepire come l'individuo possa rinunciare al suo arbitrio, accettare la sottomissione e cercare la libertà entro questa sottomissione. Hobbes, per esempio, concepisce la minaccia della guerra come effetto del diritto di natura insito nell'individuo, che l’individuo stesso spegne una volta per tutte – a parte l'eccezione dell'illecito – unendosi agli altri e insieme sottomettendosi al potere statale. Egli è troppo condizionato dall'esperienza della guerra civile e dalla sicurezza esterna che la sua patria, l'Inghilterra, gode in virtù della sua insularità, per considerare la minaccia della guerra, anziché semplice istanza psicologica, realtà sempre attuale prodotta dall'esistenza di una pluralità di stati sovrani.

giovedì 16 luglio 2015

Una critica a Marx

Pubblichiamo un intervento di Paolo Di Remigio, che discute alcuni nodi teorici importanti del pensiero di Marx a partire dal noto scritto sulla "Questione ebraica". Quella di Di Remigio è una critica serrata agli aspetti utopico-messianici che permangono nel pensiero di Marx. Non credo di condividerla in toto, ma la trovo ben argomentata, e sono convinto che questo tipo di discussioni siano quelle di cui ha bisogno il pensiero antisistemico per uscire dalla sua sostanziale inutilità, che appare evidente dall'intera storia recente.
(M.B.)






Gli ERRORI DEL GIOVANE MARX



Paolo Di Remigio





Et nous savons que cette erreur procède d'un déni de réalité et infecte l'esprit de bien des gens.


Jacques Sapir


UN COMMENTO A Marx, Sulla questione ebraica


È noto che la sinistra non ha letto Marx, meno noto che se lo avesse fatto non sarebbe molto diversa da come è: determinata dal rifiuto di conoscere e di affermare la verità presente, posseduta dalla volontà di realizzare un sogno, dall’aspirazione a una realtà diversa. In questo non differisce da Marx; che già Marx viva il presente come una gabbia e la verità come una prospettiva futura, è infatti evidente fin dall’articolo giovanile “Sulla questione ebraica”. Suo tema centrale è l’insufficienza dell’emancipazione politica effettivamente realizzata dallo stato costituzionale, rispetto al dover-essere, che il giovane Marx chiama emancipazione umana.
Lo stato moderno che opera secondo leggi generali e razionali non è ancora, per Marx, l’emancipazione umana, perché esso è travagliato da un’intima contraddizione: è generale in quanto è determinato da leggi generali che esprimono la volontà generale; ma questa sua generalità non determina la vita sociale particolare che esso comprende, cioè il mondo dei proprietari dal comportamento egoistico e particolare, che Marx, facendo sua la terminologia hegeliana, chiama “società civile”; anzi, lo stato si rapporta alla società civile come al suo opposto. Così tra il generale dello stato moderno e il particolare della sua società civile non c’è, come sarebbe ovvio aspettarsi, un rapporto di sussunzione; Marx, infatti, estremizza la loro differenza fino a considerarla contrasto irriducibile: lo stato sarebbe espressione della volontà comune dei cittadini, sarebbe l’insieme dei cittadini come comunità solidale, ma questa comunità è soltanto illusoria, in quanto i cittadini sono anche borghesi, membri della società civile, dunque scissi in contrasti che lo stato, cioè la loro volontà comune, è impotente a conciliare.
In quanto la riduce a contrasto irriducibile, Marx concepisce di fatto la società civile come stato di natura: la considera come se essa non fosse regolata dalle leggi, e fa della proprietà privata, cioè del riconoscimento statale del possesso, innanzitutto della propria corporeità, un torto. Questa identificazione della società civile con lo stato di natura, è un grave equivoco. Marx vi incorre insieme ai liberali. Mentre però i liberali identificano stato natura e società civile in modo da civilizzare lo stato di natura, riflettono cioè sullo stato di natura l’ordine proprio della società civile, Marx li identifica con l’intento opposto di riflettere sulla società civile l’orrore proprio dello stato di natura.
Lo stato di natura è l’animalità dell’uomo, ciò che Freud individua nel fondo di ogni individuo come pulsioni inconsce, ciò che storicamente si presenta come sterminio, politicamente come tirannia e socialmente come schiavitù. A differenza dalla natura animale, che è regolata dalla razionalità esterna dell’istinto, l’animalità dell’uomo ne è svincolata, allo stesso modo per cui la sua razionalità è libera: solo l’uomo è crudele, solo l’uomo infligge dolore anche senza interesse, perfino contro l’istinto di autoconservazione; solo l’uomo è capace di ogni crudeltà, non solo di quelle che presuppongono forza, destrezza, coraggio, addirittura buone intenzioni – e che formano il monotono materiale degli spettacoli da cui è attratta la sensibilità maschile –, ma anche di quelle esercitate sull’inerme per sentire la propria potenza.
La volontà libera dell’uomo spezza lo stato di natura, perché il bellum omnium contra omnes si risolve nell’infinita precarietà di una vita sempre esposta alla violenza casuale: l’interesse primo, più profondo, ma non più evidente, dell’uomo è quello di evitare l’orrore dello stato di natura. Lo evita riconoscendo l’altro, cioè volendo la sua volontà, volendo fargli soltanto ciò che l’altro vuole gli sia fatto e ottenendo che l’altro gli faccia soltanto ciò che egli vuole gli sia fatto, in una parola: rinunciando alla volontà del proprio bene esclusivo e adottando come propria volontà la volontà del bene comune. Questa volontà del bene comune, la volontà generale, è il fondamento della legge umana, del diritto.
L’organizzazione che realizza il diritto è lo stato. Mentre lo stato di natura è l’ambito della precarietà radicale provocata dal presupporre l’ostilità irriducibile dell’altro, lo stato è l’ambito della sicurezza, in cui si ha fiducia di non essere danneggiati volontariamente dall’altro e di poterne anzi essere aiutati. Il superamento della precarietà naturale nella fiducia collettiva è la base dello stato. Poiché sorge non da un ipotetico desiderio naturale di socialità, ma dal rifiuto volontario dello stato di natura, dall’orrore dell’orrore, essere membri dello stato non è un atto di sacrificio gratuito, ma è un interesse, il primo interesse, degli individui. L’essenza dello stato è la realtà della legge universale, per cui è superata la casualità della violenza, è dissolta l’angoscia che ne deriva, si instaura il sentimento della sicurezza, è posta la base di quella realizzazione di sé attraverso l’altro che si chiama libertà.

domenica 10 maggio 2015

Un passaggio non aggirabile

1. La casa editrice Jaca Book ha iniziato a pubblicare una collana di brevi testi intitolata ai “precursori della decrescita”. La collana è diretta da Serge Latouche, e ogni volumetto è formato da un saggio introduttivo e da una antologia di testi. Si tratta di una iniziativa che nasce a seguito di una analoga collana francese, sempre diretta da Latouche. L'uscita più recente della collana italiana è quella dedicata a Charles Fourier, uno dei più noti fra i “socialisti utopisti” del primo Ottocento. Il libro è curato da Chantal Guillaume, una filosofa che si interessa sia di Fourier (ha partecipato alla creazione della Association d'études fourieristes) sia di decrescita (ha fatto parte del comitato di redazione di “Entropia”, rivista dedicata appunto al pensiero della decrescita), ed è quindi senz'altro la persona più adatta per discutere sul tema “Fourier e la decrescita”.
Penso che una riflessione su questo tema sia un buon modo per discutere di un problema che mi sta molto a cuore, quello della creazione di un possibile nuovo movimento anticapitalista all'altezza dei problemi attuali, e del ruolo in esso del movimento della decrescita da una parte, e del pensiero marxista dall'altra. È noto che in genere i marxisti sono ostili, o quantomeno diffidenti, nei confronti della decrescita, ritenendo che si tratti di una realtà incapace di contrastare il capitalismo, o magari connivente con esso. Io ritengo invece che il movimento della decrescita abbia importanti potenzialità anticapitalistiche, e che in ogni caso un eventuale futuro movimento anticapitalista, se mai nascerà, non avrà sicuramente le caratteristiche che immaginano i marxisti, ma sarà appunto o il movimento della decrescita o qualcosa che gli assomiglierà. Questo mi porta a guardare al movimento della decrescita con occhi diversi rispetto a tanti marxisti, senza nascondermi i suoi punti critici ma cercando, appunto, di metterne in evidenza le potenzialità anticapitalistiche. Una riflessione su “Fourier e la decrescita” può forse aiutare a chiarire tutto questo.