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sabato 22 settembre 2018
Un intervento di Carlo Formenti
L'intervento di Formenti al convegno su Patria e Costituzione
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martedì 4 settembre 2018
Il pendolo dell'economia
Una recensione del recente libro di P.De Grauwe
https://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/paul-de-grauwe-e-il-pendolo-delleconomia-tra-mercato-e-pianificazione/
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domenica 21 gennaio 2018
sabato 30 dicembre 2017
Stato, sovranità, libertà, guerra (P. Di Remigio)
(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio, che appare anche su "Appello al popolo". M.B.)
LA MORALITÀ NELLA GUERRA
Paolo Di Remigio
Paolo Di Remigio
Viviamo una fase storica di pericolosa intensità ma da una
posizione periferica; ancora incapaci di fare storia, dobbiamo almeno
riscattarci con lo sforzo di osservarne il movimento dal punto di vista della
migliore tradizione europea. L’egemonia anglosassone, fondata su una forza
militare inaudita, sul potere di emettere a volontà la moneta di riserva
internazionale, sul controllo delle risorse energetiche mondiali, sembra andare
verso la crisi; la Cina e la Russia sembrano in grado di scoraggiarne l’illimitata
aggressività, costruiscono un sistema monetario alternativo e dispongono di un
accesso autonomo alle risorse energetiche; esse stanno costituendo un’alleanza
mondiale eterogenea, senza prospettive millenaristiche, al solo scopo di
porsi fuori dalla portata delle armi brandite dagli Stati Uniti, realizzando
quell’indipendenza dall’impero che altri tentarono senza riuscirvi per
debolezza militare.
Tanto più asfissianti diventano, con la decadenza
dell’egemonia anglosassone, i vapori della sua ideologia sugli Stati vassalli.
Si tratta di un’ideologia imperiale, fondata dunque su un universalismo
e su un pacifismo entrambi contraddittori: a differenza dell’universalismo
autentico, che è un nesso cooperativo delle nazioni nella loro sovranità,
l’universalismo imperiale contiene l’affermazione di un primato di una
nazione sulle altre, l’idea che una sola nazione sia necessaria; il pacifismo
imperiale contiene il facile ricorso a una violenza illimitata che non è
guerra, ma operazione internazionale di polizia decisa a livello di
esecutivo.
L’ideologia dell’impero anglosassone che pervade i mezzi di
comunicazione, la scuola e la cosiddetta cultura comporta una condanna senza
processo delle nozioni di Stato sovrano e di guerra; esse sono trattate come
residui di un passato tenebroso, un’eredità del fascismo, da cui ci si è
staccati per entrare in un presente radioso e ridondante di speranze. Quanto
però al presente, mai come ora gli Stati Uniti accarezzano la tentazione di
incenerire la maggior parte degli uomini in un’orrenda ecatombe nucleare; mai
come ora i diritti a cui è legata la dignità della persona – la famiglia, il
lavoro, la proprietà – sono negati e addirittura diffamati: la prima
dall’enfasi sulla volubilità del desiderio, il secondo dalla precarietà e dalla
disoccupazione, la terza dall’onnipotenza delle banche too big to fail.
La confutazione che i fatti oppongono all’ideologia imperiale induce a
un’indagine per riscoprire in cosa consista la nozione di sovranità –
un’indagine radicale che non tema di affrontare il suo legame con il
fenomeno della guerra.
domenica 29 maggio 2016
Dialettica e positivismo in Marx (P.Di Remigio)
(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Paolo Di Remigio. M.B.)
In
Italia parlare di Marx non ha un interesse solo teorico: se una presa
di distanza da Marx è stato il modo in cui la sinistra di
governo è passata
dalla parte del suo nemico, una rilettura critica è necessaria oggi
per intraprendere il percorso contrario; chi riconosce che il
capitalismo e il liberismo (inteso come sua ideologia) sono nemici
della razionalità e dell'umanità, responsabili di guerre mondiali e
del libero scambio che soffoca le prospettive dei popoli poveri e
minaccia la civiltà occidentale, non può non chiedersi come mai in
Italia, dove c'era il più forte partito comunista occidentale, la
grandiosa offensiva di classe lanciata dalla finanza e dal monopolio
internazionale si sia verificata senza
resistenza dei partiti e degli intellettuali che si richiamano o si
sono richiamati a Marx, anzi con la loro collaborazione a volte
rassegnata
ma spesso entusiasta.
Che l'uomo-simbolo di quanto è avvenuto in Italia negli ultimi venti
anni sia Giorgio Napolitano, storico dirigente comunista e poi, senza
perplessità e tentennamenti, eroe europeista della doppia Presidenza
della Repubblica, suggerisce una prima risposta: chi ha spacciato lo
stalinismo o il maoismo come fasi storiche superiori al capitalismo
può mettersi al servizio di qualsiasi causa; chi non ha voluto
vedere le immani tragedie nella rivoluzione russa e in quella cinese
affidandosi alle versioni di comodo dei capi-partito ha fatto della
cecità uno stile di vita e dell'affidarsi alla propaganda, anziché
allo studio, una presa di posizione politica. Così, se i Francesi
organizzano una risposta contro le politiche europeiste di deflazione
salariale, in Italia non si capisce ancora che dei poteri stranieri
usano la recessione per imporre le riforme strutturali e usano le
riforme strutturali per imporre la recessione, così che le si
accetta con la stolta speranza della ripresa economica. La nausea per
questo spettacolo di solidarietà tra von Hayek e Marx deve spingere
a un cambiamento di prospettiva: la sinistra ha abbandonato la
razionalità e si è fatta reclutare dall'ordoliberismo perché
ignara del lato scientifico di Marx ed erede del suo lato ideologico.
Ne segue la necessità di individuare in Marx l'elemento ideologico,
cioè irrazionale, antifilosofico, per cui comunica con il
positivismo e con il liberismo, e di separare e valorizzare il suo
contributo razionale.
martedì 29 dicembre 2015
L'eticità dello Stato (P.Di Remigio)
(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio
M.B.)
Dopo
la fine del pensiero politico del mondo classico si è disposti a
riconoscere all'individuo almeno la possibilità di essere onesto, ma
è pregiudizio comune che lo Stato sia essenzialmente un male. Per i
cattolici è una costruzione soltanto umana, quindi bisognosa di
guida trascendente; per i liberali è una sgradevole necessità; Marx
lo concepisce come una ipocrisia; il fascismo, che pure sembrerebbe
volerlo esaltare, non accetta il pluralismo, la divisione dei poteri
che consente il dominio della legge e impedisce l'esercizio del
potere carismatico, e ciò equivale a dire che non ne accetta
l’essenza.
La
sequenza di queste visioni non è solo storica, ha una base logica.
Nel cristianesimo la natura dell’uomo è corrotta dalla
colpevolezza originaria che soltanto lo spontaneo gesto salvifico di
Dio può espiare; così l'uomo, perduto finché il suo destino è
nelle sue mani, è salvo solo se si affida all'istituzione che quel
gesto salvifico ha fondato; questo significa, nella sfera politica,
che gli uomini sono perduti nell'ambito dello Stato, che non può
andare oltre l'attuazione di un diritto punitivo, redenti soltanto
nella Chiesa che li immerge nella caritas.
Come
il liberalismo che ne ha raccolto l'eredità, l'illuminismo respinge
il peccato originale tra gli inganni dei preti: gli uomini sarebbero
naturalmente
ragionevoli, dunque in grado di conoscere, senza bisogno di guida
ecclesiastica, che il loro utile è raggiungibile solo tramite la
mediazione sociale, che l'egoismo coincide con la generosità;
sarebbero semmai la superstizione diffusa dalla Chiesa e la tirannia
esercitata dallo Stato ad accecare gli individui e a impedire il
dispiegamento della loro libertà e del progresso di cui essa è
portatrice.
Questa
convinzione illuminista forma uno dei presupposti più profondi del
socialismo. Che tuttavia il socialismo non vi si possa limitare, è
avvertibile in Marx. Con le nozioni di alienazione
religiosa e alienazione
politica Marx fa sua la critica illuminista alla religione e alla
politica; ma nel contempo le considera meri sintomi di un'alienazione
originaria, l'alienazione economica, superata la quale esse sarebbero
dissolte a fortiori.
Poiché però l'alienazione economica sorge sul terreno naturale
della società civile e dell'egoismo individuale, non su quello
consapevole quindi colpevole
dello Stato, Marx deve oltrepassare l'illuminismo e recuperare la
nozione teologica di peccato originale, deve cioè considerare
l'individuo naturale
stupido e colpevole. Questa separazione di Marx dall'illuminismo è
evidente nella sua nozione di ideologia;
essa esprime la stessa invincibile opacità degli uomini su se stessi
contenuta nella rappresentazione teologica di peccato
originale. Dal momento poi che il
male non può essere superato né dall'individuo né dalla ragione,
ma dal movimento storico, Marx recupera un secondo motivo teologico:
affida a quella che chiama la classe operaia il compito messianico
di interrompere il corso della storia, di ribaltare il male del mondo
e di realizzare la libertà naturale dell'individuo. Così, mentre
nell'illuminismo la libertà naturale è già presente, in Marx è il
sogno dell'umanità che la storia, animata dallo sviluppo della forza
produttiva, sta per realizzare. Nelle sue diverse varianti il
socialismo ha oscillato tra illuminismo e messianismo, tra fede
nell'individuo naturale e fede nell'avvento
dell'individuo naturale, come si dice di solito: tra riformismo e
rivoluzione. Mentre poi il riformismo ha saputo rivalutare il
significato dello Stato, le ali rivoluzionarie hanno condiviso con
l'illuminismo e la teologia la diffidenza verso lo Stato, anzi
l'hanno acuita in disprezzo. Senza questo disprezzo sarebbe
incomprensibile l'attuale disponibilità della sinistra a offrire i
suoi servizi alla criminalità finanziaria mondializzata in cui
l'illuminismo ha conosciuto la sua ultima degenerazione.
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domenica 11 ottobre 2015
Paolo Di Remigio: il valore della sovranità
Un excursus hegeliano.
Nelle
rappresentazioni comuni la libertà appare come arbitrio degli
individui, lo Stato come il limite delle libertà individuali. Più è
largo questo limite e lo Stato si ritrae dalla vita degli individui,
più gli individui sono liberi – questa la visione liberale; più
la gestione dello Stato è espressione della volontà degli
individui, più questi sono liberi – questa la visione democratica
e socialista. Si è concordi nel supporre che gli individui siano il
positivo, il bene, lo Stato il negativo, il male. Ciò contrasta però
con l'estensione logica dei termini; l'individuo è infatti il
particolare, rispetto a lui lo Stato è l'universale; poiché il
particolare (ossia l'equivalente al quantificatore «qualche») è
ciò che implica opposizione ad altro e l'universale (l'equivalente
al quantificatore «tutti») ciò in cui i differenti sono
uguagliati, il particolare è il conflittuale, dovrebbe perciò
corrispondere alla rappresentazione del negativo e del male,
l'universale è il pacificato, corrisponderebbe dunque al positivo e
al bene. In verità la visione liberale e quella democratica traggono
la loro plausibilità da un presupposto non tematizzato e per nulla
ovvio: esse si riferiscono a un individuo che è non soltanto
particolare, ma anche universale. Rispetto a questo individuo
che sa coniugare il suo interesse con la cosa pubblica, lo Stato deve
essere liberale e ritrarsi quanto è possibile, così come lo Stato
deve essere democratico ed affidarsi alla volontà degli individui in
quanto questi sono consapevoli della mediazione tra il loro
interesse e l'interesse universale.
La
filosofia ha identificato la volontà chiusa nel suo particolare con
l'arbitrio, la volontà consapevole della mediazione tra la
sua particolarità e l'universale con la libertà. L'arbitrio
è la volontà irriflessa, trascinata dalla tempesta degli impulsi
naturali fino all'autolesionismo e incapace di pensare e realizzare
il bene comune; la libertà è l'esistenza di diritti e doveri e la
loro corrispondenza. Tra arbitrio e libertà non c'è alternativa
reale, piuttosto: l'arbitrio è la forma iniziale della volontà che
l'educazione spinge a diventare libera. Rappresentare questa
educazione è l'obiettivo esplicito di ogni esposizione etica
hegeliana, non solo di quella della Fenomenologia, anche di
quella dei Lineamenti della filosofia del diritto; la prima si
riferisce all'individuo che dalla cupidità arriva alla ragione, la
seconda all'individuo socializzato che dalla proprietà privata
arriva al patriottismo. Percorreremo la prima di queste due vie per
abbozzare un'introduzione alla seconda.
lunedì 31 agosto 2015
Paolo Di Remigio su guerra e rivoluzione
Paolo Di Remigio prosegue la sua interessante riflessione su Hegel e Marx.
(M.B.)
(M.B.)
Guerra
e rivoluzione. Per la filosofia del patriottismo
(Paolo Di Remigio)
In
uno scritto giovanile Hegel chiarisce il punto di vista da cui
interpretare i suoi successivi “Lineamenti di filosofia del
diritto”: «Una moltitudine umana può chiamarsi “stato” solo
se è legata per la difesa comune del complesso delle sue
proprietà»1.
Ossia, ciò che porta gli elementi di una moltitudine a voler
negare il proprio arbitrio e a sottomettersi a un potere che impone
la coordinazione in un collettivo, è la necessità di questa
coordinazione per fronteggiare la guerra: poiché teme di perdere
sotto un dominio estraneo la proprietà non solo delle cose in
generale, ma anche di quella cosa particolare che è il proprio
corpo, l'individuo considera l'indipendenza dello stato così
importante da volerle
sacrificare la propria indipendenza naturale, la vita e la proprietà
in cambio della difesa collettiva della vita e della proprietà. In
una parola: solo il timore di perdere tutto può convincere
gli individui a sacrificare la loro individualità esclusiva e a
diventare elementi di una moltitudine che proprio per questa
solidarietà diventa stato. Gli altri caratteri dello stato – se
comandi uno o se comandino pochi o molti, se chi comanda sia stato
eletto o abbia acquisito il potere per nascita, se gli individui
abbiano uguaglianza giuridica, se le leggi e l'imposizione fiscale
(proprio come i pesi, le misure e la moneta) siano uguali, se ci sia
omogeneità di costumi, di educazione e di lingua, se ci sia
differenza di religione – sono secondari:
nessuna forma di governo, nessuna identità,
né etnica, tanto meno razziale, né culturale, costituisce la
determinazione necessaria dello stato; solo la volontà
dell'individuo di sacrificare la sua sfera privata in vista della
costituzione di una forza collettiva che difenda la stessa sfera
privata (ciò che Hegel chiama “idealismo” dello stato)
conferisce spessore solidale alla moltitudine, ne fa un'unità etica.
L'essenza dello stato contiene dunque il paradosso
inevitabile di
difendere la sfera privata solo a costo della stessa sfera privata; e
questo paradosso (Hegel lo chiama “speculativo”) è la libertà
del cittadino: mentre l'arbitrio è l'esclusività propria
dell'individuo, la
libertà è l'esclusività che si conserva mediante la propria
negazione.
La
determinazione hegeliana dell'essenza dello stato ha un precedente
nella “Repubblica” di Platone2.
Questi, infatti, ha visto nella divisione del lavoro la causa della
socialità degli uomini: il lavoro è più produttivo, il consumo più
abbondante e la vita più felice, se gli uomini si specializzano nel
produrre e si scambiano le eccedenze. Nella concezione platonica, a
differenza, e forse più correttamente, che nella concezione
marxiana, la divisione del lavoro non dà origine all'antagonismo di
classe, ma alla collaborazione sociale. Benché faccia suo l'ideale
di una società povera che limitando i consumi all'elementare si
mantiene ugualitaria, Platone riconosce l'insopprimibilità della
tendenza al lusso; essa, implicando maggiore bisogno di risorse
naturali, rende rivali le diverse società; questa rivalità è la
possibilità della guerra, e la possibilità della guerra genera il
potere, ossia trasforma la divisione del lavoro interna alla società
in una divisione di classe: sono necessari guerrieri di professione,
i guardiani, che dovendo provvedere al rapporto tra la loro società
e le altre si rapportano non ai singoli compatrioti, ma alla società
come a un intero, cioè vi esercitano il potere. Solo a questo punto
la società primitiva diventa stato.
Rispetto
alle intuizioni platoniche le concezioni moderne fino a Rousseau
perdono incisività. Tutte cercano di determinare lo stato a
prescindere dal
rapporto tra gli stati, quindi fanno fatica a concepire come
l'individuo possa rinunciare al suo arbitrio, accettare la
sottomissione e cercare la libertà entro
questa sottomissione. Hobbes, per esempio, concepisce la minaccia
della guerra come effetto del diritto di natura insito
nell'individuo,
che l’individuo stesso spegne una volta per tutte – a parte
l'eccezione dell'illecito – unendosi agli altri e insieme
sottomettendosi al potere statale. Egli è troppo condizionato
dall'esperienza della guerra civile e dalla sicurezza esterna che la
sua patria, l'Inghilterra, gode in virtù della sua insularità, per
considerare la minaccia della guerra, anziché semplice istanza
psicologica, realtà sempre attuale prodotta dall'esistenza di una
pluralità di stati sovrani.
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giovedì 16 luglio 2015
Una critica a Marx
Pubblichiamo un intervento di Paolo Di Remigio, che discute alcuni nodi teorici importanti del pensiero di Marx a partire dal noto scritto sulla "Questione ebraica". Quella di Di Remigio è una critica serrata agli aspetti utopico-messianici che permangono nel pensiero di Marx. Non credo di condividerla in toto, ma la trovo ben argomentata, e sono convinto che questo tipo di discussioni siano quelle di cui ha bisogno il pensiero antisistemico per uscire dalla sua sostanziale inutilità, che appare evidente dall'intera storia recente.
(M.B.)
In quanto la riduce a contrasto irriducibile, Marx concepisce di fatto la società civile come stato di natura: la considera come se essa non fosse regolata dalle leggi, e fa della proprietà privata, cioè del riconoscimento statale del possesso, innanzitutto della propria corporeità, un torto. Questa identificazione della società civile con lo stato di natura, è un grave equivoco. Marx vi incorre insieme ai liberali. Mentre però i liberali identificano stato natura e società civile in modo da civilizzare lo stato di natura, riflettono cioè sullo stato di natura l’ordine proprio della società civile, Marx li identifica con l’intento opposto di riflettere sulla società civile l’orrore proprio dello stato di natura.
Lo stato di natura è l’animalità dell’uomo, ciò che Freud individua nel fondo di ogni individuo come pulsioni inconsce, ciò che storicamente si presenta come sterminio, politicamente come tirannia e socialmente come schiavitù. A differenza dalla natura animale, che è regolata dalla razionalità esterna dell’istinto, l’animalità dell’uomo ne è svincolata, allo stesso modo per cui la sua razionalità è libera: solo l’uomo è crudele, solo l’uomo infligge dolore anche senza interesse, perfino contro l’istinto di autoconservazione; solo l’uomo è capace di ogni crudeltà, non solo di quelle che presuppongono forza, destrezza, coraggio, addirittura buone intenzioni – e che formano il monotono materiale degli spettacoli da cui è attratta la sensibilità maschile –, ma anche di quelle esercitate sull’inerme per sentire la propria potenza.
La volontà libera dell’uomo spezza lo stato di natura, perché il bellum omnium contra omnes si risolve nell’infinita precarietà di una vita sempre esposta alla violenza casuale: l’interesse primo, più profondo, ma non più evidente, dell’uomo è quello di evitare l’orrore dello stato di natura. Lo evita riconoscendo l’altro, cioè volendo la sua volontà, volendo fargli soltanto ciò che l’altro vuole gli sia fatto e ottenendo che l’altro gli faccia soltanto ciò che egli vuole gli sia fatto, in una parola: rinunciando alla volontà del proprio bene esclusivo e adottando come propria volontà la volontà del bene comune. Questa volontà del bene comune, la volontà generale, è il fondamento della legge umana, del diritto.
L’organizzazione che realizza il diritto è lo stato. Mentre lo stato di natura è l’ambito della precarietà radicale provocata dal presupporre l’ostilità irriducibile dell’altro, lo stato è l’ambito della sicurezza, in cui si ha fiducia di non essere danneggiati volontariamente dall’altro e di poterne anzi essere aiutati. Il superamento della precarietà naturale nella fiducia collettiva è la base dello stato. Poiché sorge non da un ipotetico desiderio naturale di socialità, ma dal rifiuto volontario dello stato di natura, dall’orrore dell’orrore, essere membri dello stato non è un atto di sacrificio gratuito, ma è un interesse, il primo interesse, degli individui. L’essenza dello stato è la realtà della legge universale, per cui è superata la casualità della violenza, è dissolta l’angoscia che ne deriva, si instaura il sentimento della sicurezza, è posta la base di quella realizzazione di sé attraverso l’altro che si chiama libertà.
(M.B.)
Gli ERRORI DEL GIOVANE MARX
Paolo Di Remigio
Et
nous savons que cette erreur procède d'un déni de réalité et
infecte l'esprit de bien des gens.
Jacques
Sapir
UN
COMMENTO A Marx, Sulla questione ebraica
È
noto che la sinistra non ha letto Marx, meno noto che se lo avesse
fatto non sarebbe molto diversa da come è: determinata dal rifiuto
di conoscere e di affermare la verità presente, posseduta dalla
volontà di realizzare un sogno, dall’aspirazione a una realtà
diversa. In questo non differisce da Marx; che già Marx viva il
presente come una gabbia e la verità come una prospettiva futura, è
infatti evidente fin dall’articolo giovanile “Sulla questione
ebraica”. Suo tema centrale è l’insufficienza
dell’emancipazione politica effettivamente realizzata dallo
stato costituzionale, rispetto al dover-essere, che il giovane Marx
chiama emancipazione umana.
Lo
stato moderno che opera secondo leggi generali e razionali non
è ancora, per Marx, l’emancipazione umana, perché esso è
travagliato da un’intima contraddizione: è generale in quanto è
determinato da leggi generali che esprimono la volontà generale; ma
questa sua generalità non determina la vita sociale particolare che
esso comprende, cioè il mondo dei proprietari dal comportamento
egoistico e particolare, che Marx, facendo sua la terminologia
hegeliana, chiama “società civile”; anzi, lo stato si rapporta
alla società civile come al suo opposto. Così tra il generale dello
stato moderno e il particolare della sua società civile non c’è,
come sarebbe ovvio aspettarsi, un rapporto di sussunzione;
Marx, infatti, estremizza la loro differenza fino a considerarla
contrasto irriducibile: lo stato sarebbe espressione della
volontà comune dei cittadini, sarebbe l’insieme dei cittadini come
comunità solidale, ma questa comunità è soltanto illusoria, in
quanto i cittadini sono anche borghesi, membri della società
civile, dunque scissi in contrasti che lo stato, cioè la loro
volontà comune, è impotente a conciliare.
In quanto la riduce a contrasto irriducibile, Marx concepisce di fatto la società civile come stato di natura: la considera come se essa non fosse regolata dalle leggi, e fa della proprietà privata, cioè del riconoscimento statale del possesso, innanzitutto della propria corporeità, un torto. Questa identificazione della società civile con lo stato di natura, è un grave equivoco. Marx vi incorre insieme ai liberali. Mentre però i liberali identificano stato natura e società civile in modo da civilizzare lo stato di natura, riflettono cioè sullo stato di natura l’ordine proprio della società civile, Marx li identifica con l’intento opposto di riflettere sulla società civile l’orrore proprio dello stato di natura.
Lo stato di natura è l’animalità dell’uomo, ciò che Freud individua nel fondo di ogni individuo come pulsioni inconsce, ciò che storicamente si presenta come sterminio, politicamente come tirannia e socialmente come schiavitù. A differenza dalla natura animale, che è regolata dalla razionalità esterna dell’istinto, l’animalità dell’uomo ne è svincolata, allo stesso modo per cui la sua razionalità è libera: solo l’uomo è crudele, solo l’uomo infligge dolore anche senza interesse, perfino contro l’istinto di autoconservazione; solo l’uomo è capace di ogni crudeltà, non solo di quelle che presuppongono forza, destrezza, coraggio, addirittura buone intenzioni – e che formano il monotono materiale degli spettacoli da cui è attratta la sensibilità maschile –, ma anche di quelle esercitate sull’inerme per sentire la propria potenza.
La volontà libera dell’uomo spezza lo stato di natura, perché il bellum omnium contra omnes si risolve nell’infinita precarietà di una vita sempre esposta alla violenza casuale: l’interesse primo, più profondo, ma non più evidente, dell’uomo è quello di evitare l’orrore dello stato di natura. Lo evita riconoscendo l’altro, cioè volendo la sua volontà, volendo fargli soltanto ciò che l’altro vuole gli sia fatto e ottenendo che l’altro gli faccia soltanto ciò che egli vuole gli sia fatto, in una parola: rinunciando alla volontà del proprio bene esclusivo e adottando come propria volontà la volontà del bene comune. Questa volontà del bene comune, la volontà generale, è il fondamento della legge umana, del diritto.
L’organizzazione che realizza il diritto è lo stato. Mentre lo stato di natura è l’ambito della precarietà radicale provocata dal presupporre l’ostilità irriducibile dell’altro, lo stato è l’ambito della sicurezza, in cui si ha fiducia di non essere danneggiati volontariamente dall’altro e di poterne anzi essere aiutati. Il superamento della precarietà naturale nella fiducia collettiva è la base dello stato. Poiché sorge non da un ipotetico desiderio naturale di socialità, ma dal rifiuto volontario dello stato di natura, dall’orrore dell’orrore, essere membri dello stato non è un atto di sacrificio gratuito, ma è un interesse, il primo interesse, degli individui. L’essenza dello stato è la realtà della legge universale, per cui è superata la casualità della violenza, è dissolta l’angoscia che ne deriva, si instaura il sentimento della sicurezza, è posta la base di quella realizzazione di sé attraverso l’altro che si chiama libertà.
sabato 30 maggio 2015
La fobia della metafisica e lo Stato
Con questo articolo inizia la collaborazione al nostro blog di Paolo Di Remigio. Paolo vive a Teramo e insegna Storia e Filosofia nel Liceo Classico "Melchiorre Delfico". Da tempo è impegnato in un lavoro di traduzione e interpretazione della "Scienza della Logica" di Hegel. Questo articolo è stato pubblicato anche su "Appello al popolo".
(M.B.)
LA
FOBIA DELLA METAFISICA E LO STATO
di Paolo Di Remigio
Di
recente i filosofi italiani sono stati scossi dalla pubblicazione di
alcuni «Quaderni neri» di Heidegger, dai quali si evince, più che
la sua adesione opportunistica al nazismo quale era nota da sempre,
l’intima vicinanza alla distruzione degli ebrei e delle civiltà
europee che il nazismo stava attuando. In un’intervista1,
Gianni Vattimo, in Italia uno degli studiosi più accreditati di
Heidegger, continua a non vedere un legame organico tra Heidegger e
il nazismo, nonostante sia un esponente della sinistra libertaria
particolarmente sensibile alla sorte delle vittime del sopruso,
l’ultima persona che potrebbe essere accusata di simpatie per
l’estrema destra.
Da
Heidegger Vattimo ha adottato l’idiosincrasia per la metafisica.
Egli l’ha identificata al totalitarismo, alla violenza
(nell’intervista arriva a dirne che «è una schifezza» come se
ciò fosse un’ovvietà); quindi ne ha constatato con sollievo la
fine e insieme la fine della verità; da ultimo, nella proposta della
filosofia come «pensiero debole» o come «interpretazione», ha
guardato con favore a una nuova società in cui libertà e
tolleranza, anziché da principi, sono garantite dai mass-media. Una
proposta che può avere qualche apparenza di plausibilità solo in
quanto chiunque, prima di cogliere il concetto di verità, potrebbe
perdersi in due sue interpretazioni opposte. La definizione di verità
è «adaequatio rei et intellectus», l’uguagliarsi di pensiero e
realtà. La si può interpretare nel senso positivista
dell’uguagliarsi del pensiero alla realtà, col risultato
deprimente, fatto suo dal Wittgenstein del «Tractatus», che il
pensiero sensato è estraneo agli interessi della vita umana, perché
è una semplice raffigurazione di fatti casuali; oppure nel senso
heideggeriano della differenza tra fatti ed essere, per cui il
pensiero autentico
può dispensarsi dallo studio dei fatti, che non sono adeguati alla
sua sublimità, e dedicarsi a un più confortevole pascolo
dell’essere. Interpretata la verità in questo secondo senso, il
pensiero debole acquista un aroma di plausibilità: è prudente che
il pensiero autentico
si indebolisca e si limiti a giocare; potrebbe infatti accadere che,
scivolando tra i fatti, si infili dalla parte sbagliata della realtà
– proprio come è accaduto ad Heidegger. Così però Vattimo
rischia di ridurre la professione filosofica a un passatempo e di
ignorare il concetto
di verità, che è l’elaborazione reciproca
di pensiero e realtà, per cui quello si libera della sua irruenza,
questa della sua ritrosia, superano la loro estraneità e si
conciliano nell’idea – qualcosa che ha a che fare non tanto con
la violenza, quanto con un corteggiamento fortunato. Non a caso i
Greci, nostri maestri in tutto, sensibili al momento erotico della
verità, fecero consistere la felicità nel raggiungerla.
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