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sabato 30 dicembre 2017

Stato, sovranità, libertà, guerra (P. Di Remigio)

(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio, che appare anche su "Appello al popolo". M.B.)





LA MORALITÀ NELLA GUERRA

Paolo Di Remigio

Viviamo una fase storica di pericolosa intensità ma da una posizione periferica; ancora incapaci di fare storia, dobbiamo almeno riscattarci con lo sforzo di osservarne il movimento dal punto di vista della migliore tradizione europea. L’egemonia anglosassone, fondata su una forza militare inaudita, sul potere di emettere a volontà la moneta di riserva internazionale, sul controllo delle risorse energetiche mondiali, sembra andare verso la crisi; la Cina e la Russia sembrano in grado di scoraggiarne l’illimitata aggressività, costruiscono un sistema monetario alternativo e dispongono di un accesso autonomo alle risorse energetiche; esse stanno costituendo un’alleanza mondiale eterogenea, senza prospettive millenaristiche, al solo scopo di porsi fuori dalla portata delle armi brandite dagli Stati Uniti, realizzando quell’indipendenza dall’impero che altri tentarono senza riuscirvi per debolezza militare.
Tanto più asfissianti diventano, con la decadenza dell’egemonia anglosassone, i vapori della sua ideologia sugli Stati vassalli. Si tratta di un’ideologia imperiale, fondata dunque su un universalismo e su un pacifismo entrambi contraddittori: a differenza dell’universalismo autentico, che è un nesso cooperativo delle nazioni nella loro sovranità, l’universalismo imperiale contiene l’affermazione di un primato di una nazione sulle altre, l’idea che una sola nazione sia necessaria; il pacifismo imperiale contiene il facile ricorso a una violenza illimitata che non è guerra, ma operazione internazionale di polizia decisa a livello di esecutivo.
L’ideologia dell’impero anglosassone che pervade i mezzi di comunicazione, la scuola e la cosiddetta cultura comporta una condanna senza processo delle nozioni di Stato sovrano e di guerra; esse sono trattate come residui di un passato tenebroso, un’eredità del fascismo, da cui ci si è staccati per entrare in un presente radioso e ridondante di speranze. Quanto però al presente, mai come ora gli Stati Uniti accarezzano la tentazione di incenerire la maggior parte degli uomini in un’orrenda ecatombe nucleare; mai come ora i diritti a cui è legata la dignità della persona – la famiglia, il lavoro, la proprietà – sono negati e addirittura diffamati: la prima dall’enfasi sulla volubilità del desiderio, il secondo dalla precarietà e dalla disoccupazione, la terza dall’onnipotenza delle banche too big to fail. La confutazione che i fatti oppongono all’ideologia imperiale induce a un’indagine per riscoprire in cosa consista la nozione di sovranità – un’indagine radicale che non tema di affrontare il suo legame con il fenomeno della guerra.

domenica 29 maggio 2016

Dialettica e positivismo in Marx (P.Di Remigio)


(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Paolo Di Remigio. M.B.)



In Italia parlare di Marx non ha un interesse solo teorico: se una presa di distanza da Marx è stato il modo in cui la sinistra di governo è passata dalla parte del suo nemico, una rilettura critica è necessaria oggi per intraprendere il percorso contrario; chi riconosce che il capitalismo e il liberismo (inteso come sua ideologia) sono nemici della razionalità e dell'umanità, responsabili di guerre mondiali e del libero scambio che soffoca le prospettive dei popoli poveri e minaccia la civiltà occidentale, non può non chiedersi come mai in Italia, dove c'era il più forte partito comunista occidentale, la grandiosa offensiva di classe lanciata dalla finanza e dal monopolio internazionale si sia verificata senza resistenza dei partiti e degli intellettuali che si richiamano o si sono richiamati a Marx, anzi con la loro collaborazione a volte rassegnata ma spesso entusiasta. Che l'uomo-simbolo di quanto è avvenuto in Italia negli ultimi venti anni sia Giorgio Napolitano, storico dirigente comunista e poi, senza perplessità e tentennamenti, eroe europeista della doppia Presidenza della Repubblica, suggerisce una prima risposta: chi ha spacciato lo stalinismo o il maoismo come fasi storiche superiori al capitalismo può mettersi al servizio di qualsiasi causa; chi non ha voluto vedere le immani tragedie nella rivoluzione russa e in quella cinese affidandosi alle versioni di comodo dei capi-partito ha fatto della cecità uno stile di vita e dell'affidarsi alla propaganda, anziché allo studio, una presa di posizione politica. Così, se i Francesi organizzano una risposta contro le politiche europeiste di deflazione salariale, in Italia non si capisce ancora che dei poteri stranieri usano la recessione per imporre le riforme strutturali e usano le riforme strutturali per imporre la recessione, così che le si accetta con la stolta speranza della ripresa economica. La nausea per questo spettacolo di solidarietà tra von Hayek e Marx deve spingere a un cambiamento di prospettiva: la sinistra ha abbandonato la razionalità e si è fatta reclutare dall'ordoliberismo perché ignara del lato scientifico di Marx ed erede del suo lato ideologico. Ne segue la necessità di individuare in Marx l'elemento ideologico, cioè irrazionale, antifilosofico, per cui comunica con il positivismo e con il liberismo, e di separare e valorizzare il suo contributo razionale.

martedì 29 dicembre 2015

L'eticità dello Stato (P.Di Remigio)

(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio
M.B.)


Dopo la fine del pensiero politico del mondo classico si è disposti a riconoscere all'individuo almeno la possibilità di essere onesto, ma è pregiudizio comune che lo Stato sia essenzialmente un male. Per i cattolici è una costruzione soltanto umana, quindi bisognosa di guida trascendente; per i liberali è una sgradevole necessità; Marx lo concepisce come una ipocrisia; il fascismo, che pure sembrerebbe volerlo esaltare, non accetta il pluralismo, la divisione dei poteri che consente il dominio della legge e impedisce l'esercizio del potere carismatico, e ciò equivale a dire che non ne accetta l’essenza.
La sequenza di queste visioni non è solo storica, ha una base logica. Nel cristianesimo la natura dell’uomo è corrotta dalla colpevolezza originaria che soltanto lo spontaneo gesto salvifico di Dio può espiare; così l'uomo, perduto finché il suo destino è nelle sue mani, è salvo solo se si affida all'istituzione che quel gesto salvifico ha fondato; questo significa, nella sfera politica, che gli uomini sono perduti nell'ambito dello Stato, che non può andare oltre l'attuazione di un diritto punitivo, redenti soltanto nella Chiesa che li immerge nella caritas.
Come il liberalismo che ne ha raccolto l'eredità, l'illuminismo respinge il peccato originale tra gli inganni dei preti: gli uomini sarebbero naturalmente ragionevoli, dunque in grado di conoscere, senza bisogno di guida ecclesiastica, che il loro utile è raggiungibile solo tramite la mediazione sociale, che l'egoismo coincide con la generosità; sarebbero semmai la superstizione diffusa dalla Chiesa e la tirannia esercitata dallo Stato ad accecare gli individui e a impedire il dispiegamento della loro libertà e del progresso di cui essa è portatrice.
Questa convinzione illuminista forma uno dei presupposti più profondi del socialismo. Che tuttavia il socialismo non vi si possa limitare, è avvertibile in Marx. Con le nozioni di alienazione religiosa e alienazione politica Marx fa sua la critica illuminista alla religione e alla politica; ma nel contempo le considera meri sintomi di un'alienazione originaria, l'alienazione economica, superata la quale esse sarebbero dissolte a fortiori. Poiché però l'alienazione economica sorge sul terreno naturale della società civile e dell'egoismo individuale, non su quello consapevole quindi colpevole dello Stato, Marx deve oltrepassare l'illuminismo e recuperare la nozione teologica di peccato originale, deve cioè considerare l'individuo naturale stupido e colpevole. Questa separazione di Marx dall'illuminismo è evidente nella sua nozione di ideologia; essa esprime la stessa invincibile opacità degli uomini su se stessi contenuta nella rappresentazione teologica di peccato originale. Dal momento poi che il male non può essere superato né dall'individuo né dalla ragione, ma dal movimento storico, Marx recupera un secondo motivo teologico: affida a quella che chiama la classe operaia il compito messianico di interrompere il corso della storia, di ribaltare il male del mondo e di realizzare la libertà naturale dell'individuo. Così, mentre nell'illuminismo la libertà naturale è già presente, in Marx è il sogno dell'umanità che la storia, animata dallo sviluppo della forza produttiva, sta per realizzare. Nelle sue diverse varianti il socialismo ha oscillato tra illuminismo e messianismo, tra fede nell'individuo naturale e fede nell'avvento dell'individuo naturale, come si dice di solito: tra riformismo e rivoluzione. Mentre poi il riformismo ha saputo rivalutare il significato dello Stato, le ali rivoluzionarie hanno condiviso con l'illuminismo e la teologia la diffidenza verso lo Stato, anzi l'hanno acuita in disprezzo. Senza questo disprezzo sarebbe incomprensibile l'attuale disponibilità della sinistra a offrire i suoi servizi alla criminalità finanziaria mondializzata in cui l'illuminismo ha conosciuto la sua ultima degenerazione.

domenica 11 ottobre 2015

Paolo Di Remigio: il valore della sovranità


Un excursus hegeliano.



Nelle rappresentazioni comuni la libertà appare come arbitrio degli individui, lo Stato come il limite delle libertà individuali. Più è largo questo limite e lo Stato si ritrae dalla vita degli individui, più gli individui sono liberi – questa la visione liberale; più la gestione dello Stato è espressione della volontà degli individui, più questi sono liberi – questa la visione democratica e socialista. Si è concordi nel supporre che gli individui siano il positivo, il bene, lo Stato il negativo, il male. Ciò contrasta però con l'estensione logica dei termini; l'individuo è infatti il particolare, rispetto a lui lo Stato è l'universale; poiché il particolare (ossia l'equivalente al quantificatore «qualche») è ciò che implica opposizione ad altro e l'universale (l'equivalente al quantificatore «tutti») ciò in cui i differenti sono uguagliati, il particolare è il conflittuale, dovrebbe perciò corrispondere alla rappresentazione del negativo e del male, l'universale è il pacificato, corrisponderebbe dunque al positivo e al bene. In verità la visione liberale e quella democratica traggono la loro plausibilità da un presupposto non tematizzato e per nulla ovvio: esse si riferiscono a un individuo che è non soltanto particolare, ma anche universale. Rispetto a questo individuo che sa coniugare il suo interesse con la cosa pubblica, lo Stato deve essere liberale e ritrarsi quanto è possibile, così come lo Stato deve essere democratico ed affidarsi alla volontà degli individui in quanto questi sono consapevoli della mediazione tra il loro interesse e l'interesse universale.

La filosofia ha identificato la volontà chiusa nel suo particolare con l'arbitrio, la volontà consapevole della mediazione tra la sua particolarità e l'universale con la libertà. L'arbitrio è la volontà irriflessa, trascinata dalla tempesta degli impulsi naturali fino all'autolesionismo e incapace di pensare e realizzare il bene comune; la libertà è l'esistenza di diritti e doveri e la loro corrispondenza. Tra arbitrio e libertà non c'è alternativa reale, piuttosto: l'arbitrio è la forma iniziale della volontà che l'educazione spinge a diventare libera. Rappresentare questa educazione è l'obiettivo esplicito di ogni esposizione etica hegeliana, non solo di quella della Fenomenologia, anche di quella dei Lineamenti della filosofia del diritto; la prima si riferisce all'individuo che dalla cupidità arriva alla ragione, la seconda all'individuo socializzato che dalla proprietà privata arriva al patriottismo. Percorreremo la prima di queste due vie per abbozzare un'introduzione alla seconda.

lunedì 31 agosto 2015

Paolo Di Remigio su guerra e rivoluzione

Paolo Di Remigio prosegue la sua interessante riflessione su Hegel e Marx.
(M.B.)





Guerra e rivoluzione. Per la filosofia del patriottismo
(Paolo Di Remigio)



In uno scritto giovanile Hegel chiarisce il punto di vista da cui interpretare i suoi successivi “Lineamenti di filosofia del diritto”: «Una moltitudine umana può chiamarsi “stato” solo se è legata per la difesa comune del complesso delle sue proprietà»1. Ossia, ciò che porta gli elementi di una moltitudine a voler negare il proprio arbitrio e a sottomettersi a un potere che impone la coordinazione in un collettivo, è la necessità di questa coordinazione per fronteggiare la guerra: poiché teme di perdere sotto un dominio estraneo la proprietà non solo delle cose in generale, ma anche di quella cosa particolare che è il proprio corpo, l'individuo considera l'indipendenza dello stato così importante da volerle sacrificare la propria indipendenza naturale, la vita e la proprietà in cambio della difesa collettiva della vita e della proprietà. In una parola: solo il timore di perdere tutto può convincere gli individui a sacrificare la loro individualità esclusiva e a diventare elementi di una moltitudine che proprio per questa solidarietà diventa stato. Gli altri caratteri dello stato – se comandi uno o se comandino pochi o molti, se chi comanda sia stato eletto o abbia acquisito il potere per nascita, se gli individui abbiano uguaglianza giuridica, se le leggi e l'imposizione fiscale (proprio come i pesi, le misure e la moneta) siano uguali, se ci sia omogeneità di costumi, di educazione e di lingua, se ci sia differenza di religione – sono secondari: nessuna forma di governo, nessuna identità, né etnica, tanto meno razziale, né culturale, costituisce la determinazione necessaria dello stato; solo la volontà dell'individuo di sacrificare la sua sfera privata in vista della costituzione di una forza collettiva che difenda la stessa sfera privata (ciò che Hegel chiama “idealismo” dello stato) conferisce spessore solidale alla moltitudine, ne fa un'unità etica. L'essenza dello stato contiene dunque il paradosso inevitabile di difendere la sfera privata solo a costo della stessa sfera privata; e questo paradosso (Hegel lo chiama “speculativo”) è la libertà del cittadino: mentre l'arbitrio è l'esclusività propria dell'individuo, la libertà è l'esclusività che si conserva mediante la propria negazione.

La determinazione hegeliana dell'essenza dello stato ha un precedente nella “Repubblica” di Platone2. Questi, infatti, ha visto nella divisione del lavoro la causa della socialità degli uomini: il lavoro è più produttivo, il consumo più abbondante e la vita più felice, se gli uomini si specializzano nel produrre e si scambiano le eccedenze. Nella concezione platonica, a differenza, e forse più correttamente, che nella concezione marxiana, la divisione del lavoro non dà origine all'antagonismo di classe, ma alla collaborazione sociale. Benché faccia suo l'ideale di una società povera che limitando i consumi all'elementare si mantiene ugualitaria, Platone riconosce l'insopprimibilità della tendenza al lusso; essa, implicando maggiore bisogno di risorse naturali, rende rivali le diverse società; questa rivalità è la possibilità della guerra, e la possibilità della guerra genera il potere, ossia trasforma la divisione del lavoro interna alla società in una divisione di classe: sono necessari guerrieri di professione, i guardiani, che dovendo provvedere al rapporto tra la loro società e le altre si rapportano non ai singoli compatrioti, ma alla società come a un intero, cioè vi esercitano il potere. Solo a questo punto la società primitiva diventa stato.

Rispetto alle intuizioni platoniche le concezioni moderne fino a Rousseau perdono incisività. Tutte cercano di determinare lo stato a prescindere dal rapporto tra gli stati, quindi fanno fatica a concepire come l'individuo possa rinunciare al suo arbitrio, accettare la sottomissione e cercare la libertà entro questa sottomissione. Hobbes, per esempio, concepisce la minaccia della guerra come effetto del diritto di natura insito nell'individuo, che l’individuo stesso spegne una volta per tutte – a parte l'eccezione dell'illecito – unendosi agli altri e insieme sottomettendosi al potere statale. Egli è troppo condizionato dall'esperienza della guerra civile e dalla sicurezza esterna che la sua patria, l'Inghilterra, gode in virtù della sua insularità, per considerare la minaccia della guerra, anziché semplice istanza psicologica, realtà sempre attuale prodotta dall'esistenza di una pluralità di stati sovrani.

giovedì 16 luglio 2015

Una critica a Marx

Pubblichiamo un intervento di Paolo Di Remigio, che discute alcuni nodi teorici importanti del pensiero di Marx a partire dal noto scritto sulla "Questione ebraica". Quella di Di Remigio è una critica serrata agli aspetti utopico-messianici che permangono nel pensiero di Marx. Non credo di condividerla in toto, ma la trovo ben argomentata, e sono convinto che questo tipo di discussioni siano quelle di cui ha bisogno il pensiero antisistemico per uscire dalla sua sostanziale inutilità, che appare evidente dall'intera storia recente.
(M.B.)






Gli ERRORI DEL GIOVANE MARX



Paolo Di Remigio





Et nous savons que cette erreur procède d'un déni de réalité et infecte l'esprit de bien des gens.


Jacques Sapir


UN COMMENTO A Marx, Sulla questione ebraica


È noto che la sinistra non ha letto Marx, meno noto che se lo avesse fatto non sarebbe molto diversa da come è: determinata dal rifiuto di conoscere e di affermare la verità presente, posseduta dalla volontà di realizzare un sogno, dall’aspirazione a una realtà diversa. In questo non differisce da Marx; che già Marx viva il presente come una gabbia e la verità come una prospettiva futura, è infatti evidente fin dall’articolo giovanile “Sulla questione ebraica”. Suo tema centrale è l’insufficienza dell’emancipazione politica effettivamente realizzata dallo stato costituzionale, rispetto al dover-essere, che il giovane Marx chiama emancipazione umana.
Lo stato moderno che opera secondo leggi generali e razionali non è ancora, per Marx, l’emancipazione umana, perché esso è travagliato da un’intima contraddizione: è generale in quanto è determinato da leggi generali che esprimono la volontà generale; ma questa sua generalità non determina la vita sociale particolare che esso comprende, cioè il mondo dei proprietari dal comportamento egoistico e particolare, che Marx, facendo sua la terminologia hegeliana, chiama “società civile”; anzi, lo stato si rapporta alla società civile come al suo opposto. Così tra il generale dello stato moderno e il particolare della sua società civile non c’è, come sarebbe ovvio aspettarsi, un rapporto di sussunzione; Marx, infatti, estremizza la loro differenza fino a considerarla contrasto irriducibile: lo stato sarebbe espressione della volontà comune dei cittadini, sarebbe l’insieme dei cittadini come comunità solidale, ma questa comunità è soltanto illusoria, in quanto i cittadini sono anche borghesi, membri della società civile, dunque scissi in contrasti che lo stato, cioè la loro volontà comune, è impotente a conciliare.
In quanto la riduce a contrasto irriducibile, Marx concepisce di fatto la società civile come stato di natura: la considera come se essa non fosse regolata dalle leggi, e fa della proprietà privata, cioè del riconoscimento statale del possesso, innanzitutto della propria corporeità, un torto. Questa identificazione della società civile con lo stato di natura, è un grave equivoco. Marx vi incorre insieme ai liberali. Mentre però i liberali identificano stato natura e società civile in modo da civilizzare lo stato di natura, riflettono cioè sullo stato di natura l’ordine proprio della società civile, Marx li identifica con l’intento opposto di riflettere sulla società civile l’orrore proprio dello stato di natura.
Lo stato di natura è l’animalità dell’uomo, ciò che Freud individua nel fondo di ogni individuo come pulsioni inconsce, ciò che storicamente si presenta come sterminio, politicamente come tirannia e socialmente come schiavitù. A differenza dalla natura animale, che è regolata dalla razionalità esterna dell’istinto, l’animalità dell’uomo ne è svincolata, allo stesso modo per cui la sua razionalità è libera: solo l’uomo è crudele, solo l’uomo infligge dolore anche senza interesse, perfino contro l’istinto di autoconservazione; solo l’uomo è capace di ogni crudeltà, non solo di quelle che presuppongono forza, destrezza, coraggio, addirittura buone intenzioni – e che formano il monotono materiale degli spettacoli da cui è attratta la sensibilità maschile –, ma anche di quelle esercitate sull’inerme per sentire la propria potenza.
La volontà libera dell’uomo spezza lo stato di natura, perché il bellum omnium contra omnes si risolve nell’infinita precarietà di una vita sempre esposta alla violenza casuale: l’interesse primo, più profondo, ma non più evidente, dell’uomo è quello di evitare l’orrore dello stato di natura. Lo evita riconoscendo l’altro, cioè volendo la sua volontà, volendo fargli soltanto ciò che l’altro vuole gli sia fatto e ottenendo che l’altro gli faccia soltanto ciò che egli vuole gli sia fatto, in una parola: rinunciando alla volontà del proprio bene esclusivo e adottando come propria volontà la volontà del bene comune. Questa volontà del bene comune, la volontà generale, è il fondamento della legge umana, del diritto.
L’organizzazione che realizza il diritto è lo stato. Mentre lo stato di natura è l’ambito della precarietà radicale provocata dal presupporre l’ostilità irriducibile dell’altro, lo stato è l’ambito della sicurezza, in cui si ha fiducia di non essere danneggiati volontariamente dall’altro e di poterne anzi essere aiutati. Il superamento della precarietà naturale nella fiducia collettiva è la base dello stato. Poiché sorge non da un ipotetico desiderio naturale di socialità, ma dal rifiuto volontario dello stato di natura, dall’orrore dell’orrore, essere membri dello stato non è un atto di sacrificio gratuito, ma è un interesse, il primo interesse, degli individui. L’essenza dello stato è la realtà della legge universale, per cui è superata la casualità della violenza, è dissolta l’angoscia che ne deriva, si instaura il sentimento della sicurezza, è posta la base di quella realizzazione di sé attraverso l’altro che si chiama libertà.

sabato 30 maggio 2015

La fobia della metafisica e lo Stato


Con questo articolo inizia la collaborazione al nostro blog di Paolo Di Remigio. Paolo vive a Teramo e insegna Storia e Filosofia nel Liceo Classico "Melchiorre Delfico". Da tempo è impegnato in un lavoro di traduzione e interpretazione della "Scienza della Logica" di Hegel. Questo articolo è stato pubblicato anche su "Appello al popolo".
(M.B.)


LA FOBIA DELLA METAFISICA E LO STATO
di Paolo Di Remigio

Di recente i filosofi italiani sono stati scossi dalla pubblicazione di alcuni «Quaderni neri» di Heidegger, dai quali si evince, più che la sua adesione opportunistica al nazismo quale era nota da sempre, l’intima vicinanza alla distruzione degli ebrei e delle civiltà europee che il nazismo stava attuando. In un’intervista1, Gianni Vattimo, in Italia uno degli studiosi più accreditati di Heidegger, continua a non vedere un legame organico tra Heidegger e il nazismo, nonostante sia un esponente della sinistra libertaria particolarmente sensibile alla sorte delle vittime del sopruso, l’ultima persona che potrebbe essere accusata di simpatie per l’estrema destra.

Da Heidegger Vattimo ha adottato l’idiosincrasia per la metafisica. Egli l’ha identificata al totalitarismo, alla violenza (nell’intervista arriva a dirne che «è una schifezza» come se ciò fosse un’ovvietà); quindi ne ha constatato con sollievo la fine e insieme la fine della verità; da ultimo, nella proposta della filosofia come «pensiero debole» o come «interpretazione», ha guardato con favore a una nuova società in cui libertà e tolleranza, anziché da principi, sono garantite dai mass-media. Una proposta che può avere qualche apparenza di plausibilità solo in quanto chiunque, prima di cogliere il concetto di verità, potrebbe perdersi in due sue interpretazioni opposte. La definizione di verità è «adaequatio rei et intellectus», l’uguagliarsi di pensiero e realtà. La si può interpretare nel senso positivista dell’uguagliarsi del pensiero alla realtà, col risultato deprimente, fatto suo dal Wittgenstein del «Tractatus», che il pensiero sensato è estraneo agli interessi della vita umana, perché è una semplice raffigurazione di fatti casuali; oppure nel senso heideggeriano della differenza tra fatti ed essere, per cui il pensiero autentico può dispensarsi dallo studio dei fatti, che non sono adeguati alla sua sublimità, e dedicarsi a un più confortevole pascolo dell’essere. Interpretata la verità in questo secondo senso, il pensiero debole acquista un aroma di plausibilità: è prudente che il pensiero autentico si indebolisca e si limiti a giocare; potrebbe infatti accadere che, scivolando tra i fatti, si infili dalla parte sbagliata della realtà – proprio come è accaduto ad Heidegger. Così però Vattimo rischia di ridurre la professione filosofica a un passatempo e di ignorare il concetto di verità, che è l’elaborazione reciproca di pensiero e realtà, per cui quello si libera della sua irruenza, questa della sua ritrosia, superano la loro estraneità e si conciliano nell’idea – qualcosa che ha a che fare non tanto con la violenza, quanto con un corteggiamento fortunato. Non a caso i Greci, nostri maestri in tutto, sensibili al momento erotico della verità, fecero consistere la felicità nel raggiungerla.