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sabato 30 maggio 2015

La fobia della metafisica e lo Stato


Con questo articolo inizia la collaborazione al nostro blog di Paolo Di Remigio. Paolo vive a Teramo e insegna Storia e Filosofia nel Liceo Classico "Melchiorre Delfico". Da tempo è impegnato in un lavoro di traduzione e interpretazione della "Scienza della Logica" di Hegel. Questo articolo è stato pubblicato anche su "Appello al popolo".
(M.B.)


LA FOBIA DELLA METAFISICA E LO STATO
di Paolo Di Remigio

Di recente i filosofi italiani sono stati scossi dalla pubblicazione di alcuni «Quaderni neri» di Heidegger, dai quali si evince, più che la sua adesione opportunistica al nazismo quale era nota da sempre, l’intima vicinanza alla distruzione degli ebrei e delle civiltà europee che il nazismo stava attuando. In un’intervista1, Gianni Vattimo, in Italia uno degli studiosi più accreditati di Heidegger, continua a non vedere un legame organico tra Heidegger e il nazismo, nonostante sia un esponente della sinistra libertaria particolarmente sensibile alla sorte delle vittime del sopruso, l’ultima persona che potrebbe essere accusata di simpatie per l’estrema destra.

Da Heidegger Vattimo ha adottato l’idiosincrasia per la metafisica. Egli l’ha identificata al totalitarismo, alla violenza (nell’intervista arriva a dirne che «è una schifezza» come se ciò fosse un’ovvietà); quindi ne ha constatato con sollievo la fine e insieme la fine della verità; da ultimo, nella proposta della filosofia come «pensiero debole» o come «interpretazione», ha guardato con favore a una nuova società in cui libertà e tolleranza, anziché da principi, sono garantite dai mass-media. Una proposta che può avere qualche apparenza di plausibilità solo in quanto chiunque, prima di cogliere il concetto di verità, potrebbe perdersi in due sue interpretazioni opposte. La definizione di verità è «adaequatio rei et intellectus», l’uguagliarsi di pensiero e realtà. La si può interpretare nel senso positivista dell’uguagliarsi del pensiero alla realtà, col risultato deprimente, fatto suo dal Wittgenstein del «Tractatus», che il pensiero sensato è estraneo agli interessi della vita umana, perché è una semplice raffigurazione di fatti casuali; oppure nel senso heideggeriano della differenza tra fatti ed essere, per cui il pensiero autentico può dispensarsi dallo studio dei fatti, che non sono adeguati alla sua sublimità, e dedicarsi a un più confortevole pascolo dell’essere. Interpretata la verità in questo secondo senso, il pensiero debole acquista un aroma di plausibilità: è prudente che il pensiero autentico si indebolisca e si limiti a giocare; potrebbe infatti accadere che, scivolando tra i fatti, si infili dalla parte sbagliata della realtà – proprio come è accaduto ad Heidegger. Così però Vattimo rischia di ridurre la professione filosofica a un passatempo e di ignorare il concetto di verità, che è l’elaborazione reciproca di pensiero e realtà, per cui quello si libera della sua irruenza, questa della sua ritrosia, superano la loro estraneità e si conciliano nell’idea – qualcosa che ha a che fare non tanto con la violenza, quanto con un corteggiamento fortunato. Non a caso i Greci, nostri maestri in tutto, sensibili al momento erotico della verità, fecero consistere la felicità nel raggiungerla.