venerdì 15 gennaio 2016

La grande estinzione delle speranze (I parte)


(pubblico la prima parte di un testo "a tesi". Prosegue qui. M.B.)





La grande estinzione delle speranze



Secondo alcuni studiosi stiamo vivendo nell'epoca della “Sesta estinzione”, una nuova grande estinzione di massa di specie animali, dopo le grandi estinzioni che hanno segnato la storia della vita sul nostro pianeta. Riprendo l'espressione nel titolo di questo scritto, per indicare una nuova grande estinzione, di carattere non biologico ma antropologico: l'estinzione delle speranze. Lo scritto intende portare argomenti a favore di una ragionevole disperazione verso le prospettive della civiltà umana in questa fase di “tardo capitalismo”. Il testo è organizzato a tesi, quindi in forma assertiva e dogmatica. Argomentare dettagliatamente i vari passaggi avrebbe significato scrivere un libro. Nei miei futuri interventi sul blog cercherò un po' alla volta di portare argomenti a sostegno delle tesi qui presentate.





Tesi 1. La società capitalistica ha esaurito le sue potenzialità di sviluppo di civiltà.

Molti di coloro che, negli ultimi due secoli, hanno riflettuto sui caratteri della modernità capitalistica, e in particolare molti fra i suoi critici, sono rimasti colpiti dal suo carattere contradditorio, dal suo essere contemporaneamente generazione di ricchezza e di povertà, lotta di libertà e creazione di nuove servitù, rispetto dell'umanità in nome dei diritti e violenza disumana in nome del profitto. Su questa dialettica della società capitalistica sono state scritte pagine celebri e sono stati condotti dibattiti fondamentali, dei quali non possiamo dar conto qui. Mi limito, fra le tante possibili, ad una citazione di Horkheimer: “Il passaggio a questo modo di conduzione economica è stato un progresso storico che ha dato avvio a un periodo di produttività e di orrore. La storia di questo periodo contiene non solo il capitolo dell'emancipazione degli ebrei, ma anche quello del Workhouse Test, della repressione della Comune e del terrore dell'amministrazione coloniale”[1], in cui è evidente come l'autore cerchi di rendere le contraddizioni della civiltà capitalistica tramite accostamenti stridenti (un “progresso storico” che dà avvio a “un periodo di orrore”).
La novità storica del nostro tempo mi sembra essere quella della fine di tale dialettica. Il capitalismo ha smesso di essere una realtà in cui convivono contradditoriamente progresso ed orrore, e si è avviato, da qualche decennio, sulla strada di un pericoloso tramonto di civiltà. Questa affermazione non vuole assolutamente significare che sia prossima nel tempo la fine della società capitalistica. Non siamo davvero in grado di dire se il capitalismo sia vicino al famoso “crollo” teorizzato da tanti marxisti, o se abbia ancora un tempo indefinitamente lungo davanti a sé. Quello che si vuol dire è che il capitalismo ha finito di rappresentare una potenzialità contradditoria di progresso. Se la sua storia continuerà, sarà la storia di un progressivo imbarbarimento della società mondiale.





Tesi 2. L'attuale crisi di civiltà deriva dalla presenza simultanea di tre crisi: ecologica, economica, geopolitica.

La nostra organizzazione sociale, che ormai ha unificato, per la prima volta nella storia umana, l'intero pianeta, deve fronteggiare tre gravi crisi, nella sostanza riconosciute come tali, in un modo o nell'altro, un po' da tutti gli osservatori: crisi ecologica, crisi economica, crisi geopolitica. Si tratta in realtà di tre aspetti di una stessa crisi di fondo, che è utile però esaminare separatamente per ragioni di chiarezza espositiva. La comprensione approfondita della realtà contemporanea può venire solo da un esame di tutte e tre le dimensioni della crisi attuale e delle loro interazioni. Dati gli scopi più limitati di questo scritto, non parlerò della crisi geopolitica: si tratta di una dimensione che di per sé non tocca la nostra discussione sull'esaurimento della civiltà capitalistica. Infatti l'aspetto geopolitico della crisi consiste nel ridimensionamento dell'egemonia statunitense e nel possibile passaggio a un mondo multipolare e forse, in prospettiva, ad una nuova egemonia (asiatica?). Si tratta ovviamente di un tema fondamentale per comprendere le dinamiche politiche del mondo contemporaneo, ma esso di per sé non dice nulla sulla maggiore o minore vitalità dell'attuale organizzazione sociale. Il capitalismo ha conosciuto diversi “passaggi di egemonia” di questo tipo, che ne hanno scandito l'evoluzione, senza che questo comportasse un giudizio di “esaurimento di civiltà”[2]. L'attuale tendenza alla rottura dell'egemonia mondiale USA, se continuerà, sarà allora certamente un passaggio politico di vasta portata, che potrebbe però non toccare gli aspetti fondamentali del modo di produzione capitalistico, ma addirittura potrebbe rinnovarne la dinamica.
Il giudizio sul momento attuale come quello di inizio di una crisi di civiltà viene quindi non da una riflessione sulla geopolitica, ma dall'esame degli altri due aspetti della crisi attuale, quello economico e quello ecologico, al quale forse occorre aggiungere una dimensione antropologica, non ancora, mi sembra, diffusamente tematizzata in quanto tale.





Tesi 3. La sovrapposizione di crisi ecologica e crisi economica genera una situazione di “rendimenti decrescenti” e di “stagnazione secolare”.

L'attuale situazione poco dinamica dell'economia mondiale deriva molto probabilmente dal sovrapporsi di un meccanismo “marxiano” e di uno “ecologico”: mi sembra cioè possibile sostenere che siamo in presenza di una crisi analizzabile in termini marxiani come, in ultima analisi, effetto della caduta tendenziale del saggio di profitto, alla quale si sovrappone una crisi di “rendimenti decrescenti” (e costi crescenti) nello sfruttamento delle risorse naturali. Ripetiamo che si tratta di momenti collegati, che indichiamo separatamente solo per chiarezza, e che occorre collegare assieme per una analisi approfondita [3]. Il sovrapporsi di queste due forme di rendimenti decrescenti rende difficile pensare che la società attuale possa superare l'attuale stagnazione. Il capitalismo finora è sempre riuscito, in un modo o nell'altro, a superare creativamente le difficoltà create alla sua autoriproduzione dai meccanismi di crisi studiati da Marx. Ma lo ha fatto anche grazie allo sfruttamento di sempre nuovi tipi di risorse naturali. Se davvero queste possibilità si stanno esaurendo, come sostengono vari studiosi [4] e come sembra indicare, per esempio, l'incombere sempre più ineludibile del cambiamento climatico, la conseguenza potrebbe essere davvero quella “stagnazione secolare” paventata anche da importanti esponenti dell'establishment.





Tesi 4. Il capitalismo è instabile perché non genera una antropologia adeguata a sé.

Sono numerose le elaborazioni teoriche che rilevano il carattere invasivo del rapporto sociale capitalistico, il fatto cioè che esso tende a piegare alla propria logica non solo il mondo della produzione e dello scambio ma la totalità degli ambiti sociali. Ciò che importa adesso mettere in evidenza è che in questo modo il capitalismo erode le stesse proprie basi antropologiche. Infatti è impossibile che la società funzioni davvero sull'unica base della composizione contrattuale dei reciproci interessi, cioè sulla forma civilizzata dell' homo homini lupus. Come rileva correttamente Castoriadis:

Il capitalismo ha potuto funzionare solo perché ha ereditato una serie di tipi antropologici che non ha creato esso stesso e che non avrebbe potuto creare: giudici incorruttibili, funzionati integerrimi e weberiani, educatori che si consacrano alla loro vocazione, operai con un minimo di coscienza professionale, ecc. Questi tipi non nascono e non possono nascere da soli, sono stati creati in periodi storici precedenti, in riferimento a valori allora consacrati e incontestabili: l'onestà, il servizio verso lo Stato, la trasmissione del sapere, il lavoro ben fatto, e così via. Ma noi oggi viviamo in società in cui questi valori sono notoriamente diventati ridicoli, dove conta solamente la quantità di denaro che si riesce a intascare, non importa come, o il numero di volte in cui si appare in televisione”[6].

Questa descrizione, che ci sembra sostanzialmente corretta, porta a prevedere che l'estendersi sempre più pervasivo del legame sociale capitalistico porterà in tempi non troppo lontani ad una profonda crisi del legame sociale. Tutto questo è stato detto molto bene in vari testi di Massimo Bontempelli, e conviene quindi lasciargli la parola:

Ogni sistema sociale stabilmente strutturato, per quanto oppressivo, in quanto stabilmente strutturato esprime sul piano empirico qualche sia pur empiricamente deformato significato trascendentale. Il capitalismo è invece l'unico sistema il cui funzionamento è in contraddizione con la natura trascendentale umana. Se è tale, però, come ha fatto a nascere e svilupparsi? È nato perché è stato lo strumento indiretto dell'emersione storica di due significati trascendentali, il valore dell'individualità e quello dell'appartenenza nazionale, di cui sono state levatrici storiche le classi borghesi proprio attraverso la forza tratta dalla nuova economia del plusvalore di cui erano attrici e profittatrici. Si è sviluppato perché ha utilizzato per il suo funzionamento risorse non sue: le risorse politiche e spiritualmente coesive della nazionalità, le risorse psichiche e comportamentalmente disciplinatrici della famiglia e della scuola borghesi, le risorse produttive dell'etica religiosa e corporativa del lavoro, le risorse socialmente regolatrici dei codici d'onore aristocratici. Ma l'utilizzazione di queste risorse presupponeva l'autonomia funzionale delle sfere in cui si formavano, e la parzialità sociale, per quanto determinatrice in ultima istanza degli indirizzi generali, del modo di produzione capitalistico. Una volta però che il modo di produzione capitalistico è diventato totalitario, sottomettendo direttamente alla sua logica di funzionamento tutte le sfere sociali, questa sua potenza storicamente assoluta avvelena le stesse risorse antropologiche di cui avrebbe bisogno. All'altezza del nostro tempo storico si rivela così come la vera contraddizione distruttiva da cui il capitalismo è segnato non sia una di quelle tematizzate dalla tradizione marxista (tra capitale e lavoro, tra borghesia e proletariato, tra forze produttive e rapporti di produzione), ma quella tra esso e la natura umana. La potenza che distruggerà il capitalismo sarà dunque la potenza stessa del capitalismo, dato che in futuro i suoi effetti universalmente destrutturanti non saranno più contenuti da forme organizzative precapitalistiche.”[7].




Tesi 5. Il modello di crisi di civiltà col quale ci dobbiamo confrontare è quello della crisi del mondo antico.

Non è una novità che i sistemi sociali possano crollare e che la storia sia costellata da grandi passaggi che segnano la fine di questa o quella civiltà. All'interno di questa ricca casistica si possono enucleare due modelli: quello della fine dell'Ancien Régime e dell'instaurazione della società capitalistico-borghese, da una parte, e dall'altra quello della fine del mondo antico e dell'instaurazione del feudalesimo. La differenza di fondo fra i due modelli sta in questo: nel primo caso i nuovi rapporti sociali si sviluppano lentamente all'interno della vecchia società, sfruttandone gli spazi, e allo stesso modo si sviluppano i nuovi soggetti sociali (la borghesia) e le nuove forme di cultura. In questo modo la crisi della vecchia organizzazione non ha una esorbitante valenza distruttiva, perché l'indebolimento di tale organizzazione è l'occasione per le nuove strutture di imporsi. Nel secondo caso, al contrario, l'organizzazione sociale del mondo greco-romano percorre fino in fondo la strada della dissoluzione, prima che comincino a spuntare i primi segni della nascita di un nuovo ordine sociale, il feudalesimo. Questo secondo tipo di crisi di civiltà è molto più distruttivo del primo.
È del tutto evidente che i movimenti rivoluzionari di tipo socialista hanno sempre pensato al superamento del capitalismo nei termini del primo modello. Hanno sempre pensato cioè che lo sviluppo stesso del capitalismo producesse sia gli embrioni di nuovi rapporti sociali, sia i soggetti sociali che avrebbero rappresentato la base sociale del superamento. È tempo, mi sembra, di abbandonare queste convinzioni. Il capitalismo è senz'altro un sistema sociale ricco di contraddizioni (come tutti i sistemi sociali), ma questo non significa in nessun modo che esista una dinamica che lo porti a generare al suo interno i rapporti sociali destinati a sostituirlo e i soggetti sociali destinati ad abbatterlo. La classe operaia è una delle tante classi sfruttate succedutesi nella storia, capace certo di lottare per la difesa dei propri interessi, capace di rivolte e ribellioni, ma in nessun modo capace di avviare l'umanità verso  il superamento del capitalismo e l'instaurazione di una nuova organizzazione sociale. Le contraddizioni del capitalismo sfociano tipicamente nelle sue crisi periodiche, che vengono superate nei modi che gli storici studiano. Oggi tali contraddizioni, secondo la nostra ipotesi, ci stanno portando ad una crisi generale di civiltà. Ma non c'è nessun indizio che esse ci indirizzino verso un mondo nuovo. Se è così, è chiaro che il modello che meglio si adatta all'attuale crisi di civiltà è quello della crisi del mondo antico. Possiamo cioè aspettarci che la crisi di civiltà proseguirà a lungo, distruggendo culture e popolazioni, prima che sorgano nuove culture, nuovi soggetti sociali, e i germi di nuove organizzazioni sociali. Alle distruzioni e alle violenze che hanno accompagnato tutti i precedenti esempi di passaggi di questo tipo, si aggiungeranno le distruzioni ecologiche causate dall'uomo che, seppure certo non ignote nella storia umana, toccheranno probabilmente livelli sconosciuti: si pensi solo a cosa significhi il cambiamento climatico ormai in atto.














[1] Si tratta di una passo dal saggio “La filosofia della concentrazione assoluta”, contenuto nel secondo volume di “Teoria critica”, Einaudi 1974. Il passo citato è a pag.256.
[2] Queste dinamiche sono oggetto di ampi studi, basti qui ricordare la magistrale ricostruzione di G.Arrighi ne “Il lungo XX secolo”.
[3] Per un tentativo in questo senso si veda J.W.Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, Ombre corte 2015.
[4] Un'ottima introduzione a queste problematiche è M.Bonaiuti, La grande transizione, Bollati Boringhieri 2013.
[5] Per un approccio marxista alla tematica della “stagnazione secolare” si veda questo lavoro di V.Giacché: http://www.asimmetrie.org/working-papers/wp-201507-spiegare-la-crisi-stagnazione-secolare-o-caduta-tendenziale-del-saggio-di-profitto/
[6]C.Castoriadis, La montée de l'insignifiance, Seuil 1996, pag.68, (traduzione mia, M.B.)
[7]M.Bontempelli, Un pensiero presente, Indipendenza-Editore Francesco Labonia, 2014, pag.160.







4 commenti:

  1. Anzitutto, un testo eccellente, col quale mi trovo in larga parte d'accordo.

    Vorrei proporre una variazione prospettica che non inficia le osservazioni di Badiale, ma le affranca da quel tanto di ortodossia marxista che ancora alberga nell'autore. Il vettore della crisi non è il capitalismo, che secondo l’autore potrebbe infatti sopravvivere alla crisi o addirittura "rinnovarsi" in seguito alla dissoluzione dell'impero statunitense.

    Il vettore della crisi sono la civiltà occidentale e la razza bianca. Contrariamente all'ipereconomicismo marxiano e a quello - ancor più radicale - portato avanti dal neoliberismo odierno, l'economia è solo una componente, per quanto rilevante, dell'umana associazione. Assai più importanti sono il dato antropologico-razziale e quello culturale. Non è stata l'economia, nella fattispecie capitalistica, a guastare la società. E' stata la decadenza del tipo umano e della cultura europei, generata dalla vertiginosa crescita del benessere e della complessità, ad esprimere un'organizzazione economica non più vitale.

    Qui la profezia spengleriana inerente al "tramonto dell'Occidente" arenatosi nelle secche della Zivilisation, incontra la distinzione nazionalsocialista tra capitalismo produttivo (espressione dello spirito prometeico che caratterizza l'umanità nordica, esprimentesi nelle guglie protese al cielo delle cattedrali gotiche) e finanza apolide-parassitaria (proiezione degli ultimi uomini nietzscheani, quelli convinti di "aver inventato la felicità" mentre il mondo crolla loro addosso).

    Con ciò non si vuol negare che il capitalismo terminale eserciti a sua volta un influsso, e decisivo, sugli assetti antropologici e sociali, e infatti vediamo com'esso stia fagocitando e corrompendo ciò che di ancora sano permane nelle nostre società. Il rapporto fra struttura e sovrastruttura - per esprimerci in termini marxiani - esprime una dialettica complessa, ma rimane a mio parere largamente inverso rispetto a quello supposto da Badiale. Io intendo non solo la dottrina, sibbene anche l'organizzazione economica neoliberiste come falsa coscienza di sé dell'uomo odierno.

    Il quale avendo portato a compimento il processo di affrancamento dai ceppi dell'autorità e della religione, avendo inseguito l'auspicio marcusiano volto a sostituire Narciso a Prometeo, il principio di piacere a quello di prestazione, ed avendo così affrancato le proprie energie "represse e pietrificate" (Eros e civiltà), celebra adesso l’auspicato trionfo dell'eros, cioè la regressione allo stadio infantile e pulsionale precedente all’enuclearsi d’un criterio di razionalità repressiva e, in quanto tale, virile, bellicosa (polemos è il padre di tutte le cose), plasmativa. Celebra l'accesso allo stato del nichilismo.

    In questi termini acquista senso anche il parallelismo di Badiale col tardo impero romano, che certo non crollò in seguito a contraddizioni capitalistiche, sì alla dissoluzione della stirpe e della cultura (nel senso olistico del tedesco Kultur) romane originarie. Come pure acquista un senso l'ipotesi che il capitalismo si rafforzi col tracollo dell'attuale civiltà occidentale, ormai inetta ad accollarsi il reggimento di una forma organizzativa cogente.

    La “ragionevole disperazione” dell’autore ripercorre, pur senza avvedersene, i sentieri tracciati dal Kulturpessimismus weimeriano, e dalla miglior parte della cultura europea del tempo, nel corso degli anni Venti e Trenta.

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  2. P.S.: l'accostamento di Horkheimer fra progresso e orrore risulta “stridente” solo alle sue (e vostre) orecchie umaniste, che gradiscono il primo termine e non gradiscono il secondo. L'idea che il progresso tecnico ed economico debba risolversi in un avanzamento del pregiudizio umanista, quello attinente all'attribuzione di valore intrinseco alla vita e la dignità dell'essere umano, è un articolo di fede della vostra confessione storicista, modellata sull'escatologismo cristiano e altrettanto fondata. I due termini sono perfettamente eterogenei e indipendenti l'uno rispetto all'altro.

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    1. Grazie. Effettuata la correzione. Si vede che sto invecchiando.

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