sabato 13 giugno 2015

La didattica centrata sul cliente


Pubblichiamo un intervento sulla scuola di Paolo Di Remigio. Seguiranno altri interventi di altri autori, che comporranno una “mini-serie”, per usare il linguaggio televisivo, sulla questione della scuola. È probabile che anche in futuro il blog si aprirà a contributi esterni, su varie tematiche. Si tratta di una piccola novità, rispetto alle nostre abitudini. Penso sia bene segnalare subito che i vari interventi “esterni” non saranno espressione della “linea del partito”: il partito non c'è, personalmente me ne dispiace ma non posso farci molto. I contributi “esterni” saranno interventi rispetto ai quali da parte nostra c'è un accordo generale, scritti da persone di cui abbiamo stima. Ovviamente ciascuno è responsabile di ciò che scrive.
(M.B.)



LA DIDATTICA CENTRATA SUL CLIENTE
Paolo Di Remigio


Il ministro Giannini, di fronte alle proteste contro la riforma della scuola, ha dichiarato alla stampa: “Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra; vogliamo una scuola autonoma, responsabile e valutabile. Sono i principi della sinistra italiana progressista e illuminata che già aveva indicato Luigi Berlinguer”. È una frase che merita una riflessione.

Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra”. Di fatto l’autonomia scolastica è stata introdotta con un governo di sinistra, cioè dalla legge Bassanini nel 1997 e dalla legge Berlinguer del 1999. C’è però un problema: questi esponenti politici di sinistra attuavano una politica di sinistra, cioè favorevole al progresso e all’emancipazione dei lavoratori dipendenti, o addirittura volta all’instaurazione rivoluzionaria della nuova società socialista? No, affatto. La riforma Bassanini e quella Berlinguer sono volte ad adeguare lo stato italiano all’impianto neoliberista dell’Unione Europea. L’Unione Europea, anche a voler credere alle sue migliori intenzioni, è condizionata nell’azione dalla Banca Centrale Europea, autonoma dal potere politico, che per statuto persegue come obiettivo fondamentale la lotta all’inflazione; ma si lotta all’inflazione debilitando la domanda, quindi rallentando la crescita economica così da aumentare la disoccupazione e diminuire i salari; cioè lottare contro l’inflazione implica l’attacco al tenore di vita e alla dignità dei lavoratori dipendenti, come vuole la destra. L’Unione Europea è dunque di destra, e Bassanini e Berlinguer, introducendo l’autonomia scolastica, pur continuando a dichiararsi e a essere creduti di sinistra, erano al servizio di un progetto di destra. A modo suo il ministro Giannini lo dice subito dopo: “Sono questi i principi della sinistra italiana progressista e illuminata”; in altri termini: l’autonomia è la riforma voluta non dalla sinistra retriva e oscurantista, ossia fedele alla sua tradizione, ma dalla «nuova» sinistra, quella che ha tradito i lavoratori e si è impegnata a impoverirli e a umiliarli. In effetti, i governi di destra, pasticciando le loro riforme, non hanno mai messo in discussione l’autonomia scolastica.

La proposizione: “Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra” contiene dunque un termine contraddittorio: la sinistra di cui parla è una sinistra-destra. Agli insegnanti essa rimprovera l’incoerenza: protestano contro la riforma Renzi, che dell’autonomia è il semplice completamento, benché da quasi vent’anni si siano adattati alla riforma dell’autonomia; ma è un rimprovero a cui è facile ribattere che chi si appoggia a un fondamento contraddittorio si priva del diritto di lamentarsi dell’altrui comportamento contraddittorio. Non solo, richiamando le origini dell’autonomia dalla sinistra progressista e illuminata, il ministro fa un secondo passo falso: fa apparire la riforma dell’autonomia non estranea alla degenerazione attuale della scuola italiana. Il ministro vuole somministrare la riforma perché la scuola non funziona; ma ammette che la scuola che non funziona è quella che è già stata riformata. Quindi gli insegnanti che protestano non sbagliano: nella riforma sentono non un rimedio, ma l’esasperazione autoritaria di quel mutamento con cui si è innescato il disastro della «scuola autonoma, responsabile e valutabile», che distrugge la didattica e relega i giovani nell’ignoranza. Manca però loro la consapevolezza di quale specifico mutamento introdotto dall’autonomia scolastica sia responsabile del degrado.

Una certa abitudine dei nostalgici del Sessantotto ha portato a indicare il mutamento degradante indotto dalla riforma dell’autonomia con il termine scuola-azienda. Ma questa indicazione non coglie il fatto saliente. L’accostamento all’azienda non sarebbe di per sé degradante per la scuola; infatti un’azienda non è necessariamente un lager, ma un luogo in cui le persone lavorano, e la condizione dell’alunno ha alcune corrispondenze con la condizione del lavoratore: come il lavoratore l’alunno non decide cosa fare, si affatica, ha un compenso. Il fatto saliente è invece che con l’autonomia le scuole (ma anche le università) si mettono in concorrenza tra di loro per attrarre il maggior numero di alunni; se ne deduce che nella scuola-azienda il ruolo degli alunni è quello di clienti, non quello di lavoratori.

Il vero mutamento degradante non è tanto che le scuole siano considerate aziende, quanto che in queste aziende gli alunni siano stati trasformati in compratori della merce-formazione, in «domanda formativa» di un’«offerta formativa». Il problema non è la mercificazione della cultura; la merce non è il male, perché risulta dalla proprietà privata e dal suo scambio, fondamenti del diritto che ci consente di convivere, e il male consiste semmai nella loro lesione; la mercificazione della cultura è una sua forma di esistenza, forse preferibile a quelle alternative del mecenatismo e della committenza. Il problema è un altro e meno controverso. Lo scambio di merci, per quanto fondato sull’uguaglianza dei loro valori, implica un’asimmetria tra venditore e compratore: il venditore ha una merce che pochi vogliono, il compratore ha il denaro, che tutti vogliono; dunque il venditore è più debole del compratore. Con la sua trasformazione in cliente, l’alunno diventa quindi più forte della scuola, la scuola più debole dell’alunno. Tutte le insensatezze dell’autonomia scolastica discendono da questa sua assurdità originaria per cui il mondo adulto che si mette alle dipendenze del mondo immaturo, e dagli espedienti che invano cercano di nasconderla e renderla inoffensiva.

L’assurdità è tradita già nell’espressione «insegnamento-apprendimento», comune nella pedagogia dell’autonomia. Essa, come quella di compra-vendita, esprime una contemporaneità tra i due atti; mentre però il comprare e il vendere sono lo stesso atto considerato dai due punti di vista implicati, l’insegnamento è l’inizio della didattica e solo in quanto sottopone l’alunno alla fatica dello studio individuale e ne controlla i risultati termina con l’apprendimento. A un’ora di insegnamento universitario ne corrispondono molte di studio individuale; in diversa misura questa sproporzione vale sin dalle elementari: lo studio degli alunni si completa nei compiti a casa, somma cioè l’impegno scolastico e quello domestico. Ogni apprendimento è infatti condizionato dalla fatica della ripetizione meccanica; senza questa fatica la memoria resta vuota, l’abilità non si sviluppa, la creatività resta dilettantismo; nessun metodo didattico può risparmiarla, proprio come la preparazione del cibo non è la digestione e non può sostituirla. Svanita la centralità della fatica dello studio individuale, cessa anche il criterio che distingue la didattica efficace; questo criterio consiste nella capacità di presentare la scienza come un’esigenza vitale, il suo studio desiderabile, la difficoltà del suo momento meccanico sormontabile; ma la scuola dell’autonomia, timorosa di perdere clienti con la severità della disciplina, ha espulso la scienza e dispensato gli alunni dalla disciplina; così trovare docenti che facciano lavorare è sempre più difficile: c’è chi assegna per casa compiti a piacere, chi non li assegna affatto per timore di mortificare la creatività dei suoi alunni con attività meccaniche o per paura di correggerli.

Poiché si presenta come offerta formativa, cioè come venditrice, la scuola dell’autonomia si umilia fino al servilismo. Sarebbe noioso enumerare le mille forme di questa umiliazione; possiamo menzionare il disprezzo della lezione frontale, cioè dell’autonomia del logos, la rinuncia al linguaggio in favore dell’immagine, il disperdersi nel creativo a scapito della ripetizione, l’energia dispersa nell’apparato pubblicitario (l’«open day») con tanto di balletto per aumentare le iscrizioni. Ma, più in profondità, la scuola dell’autonomia si umilia disprezzando l’autorevolezza della scienza e della tradizione culturale e l’autorevolezza che l’insegnante trae dal padroneggiarle – un’autorevolezza fondata non su dogmi, ma sul duro lavoro di riflessione critica: la forza del sapere rispetto alla debolezza dell’ignoranza, contro la quale la pigrizia naturale appare come colpevolezza.

Poiché esprime domanda formativa, l’alunno-cliente non è un individuo che soffre la piaga dell’ignoranza; la scuola dell’autonomia lo esalta: come il cliente ha i suoi gusti e le sue esigenze, l’alunno ha un suo sapere, per esempio quello accumulato in tante ore di video-giochi, non meno valido di quello della scuola. Anziché insegnare ex cathedra, questa deve liberarne la creatività; anziché tediarlo con teorie obsolete, deve dargli l’opportunità di esprimersi in attività nuove e divertenti; anziché assillarlo con le verifiche e le valutazioni, rassicurarlo del successo scolastico – obiettivo non proibitivo dopo la vanificazione dei contenuti scientifici che appiana ogni difficoltà di studio, anzi, conseguibile senza eccezioni in quanto nell’apprendimento dell’alunno ci si limita a rilevare ciò che c’è e si ignora ciò che non c’è.

Così la scuola si riduce a una finzione, e se gli alunni imparano ancora qualcosa ciò avviene soltanto per l’impegno caparbio degli insegnanti che conservano il senso della loro dignità.

Il primo motore di questo processo è la volontà del capitalismo neoliberista di trasformare in occasione di profitto gli ambiti della vita sociale che lo stato ha gestito con successo a partire dal secondo dopoguerra. Questa volontà escogita dapprima riforme per sabotare progressivamente la scuola pubblica; poi, passando sotto silenzio che proprio le riforme sono la causa del male, facendo anzi finta che il male sia la residua presenza del vecchio, attua come se fosse il rimedio il completamento della riforma. In realtà il capitalismo neoliberista sa bene che non è così: la scuola anglosassone che da sempre tratta gli alunni come clienti è una vergogna di cui gli stessi anglosassoni arrossiscono; ma non rinuncia al suo piano, perché sa ancora meglio che la scuola-centro commerciale è occasione molteplice di profitto, innanzitutto come consumatrice di paccottiglia formativa, poi perché il suo degrado crea la domanda di una scuola privata meno degradata di quella pubblica.

Si pone il problema di perché gli insegnanti italiani non abbiano reagito alla degenerazione imposta alla scuola e all’umiliazione della loro dignità. I motivi sono vari. Innanzitutto nelle prime fasi della riforma gli arricchimenti extra-curricolari che hanno soppiantato l’insegnamento effettivo sono stati non solo incoraggiati ideologicamente, ma anche compensati col fondo d’istituto. La riforma ha poi garantito ai sindacati un ruolo come finta controparte del dirigente e ha permesso loro di mettere le mani nella pasta del fondo d’istituto; così non solo ha evitato ogni loro reazione, addirittura li ha conquistati all’entusiasmo per la causa. Inoltre la coscienza professionale degli insegnanti era già devastata dalla mentalità sessantottina. Una canzonaccia sulla scuola del povero Antonello Venditti, che purtroppo si è impressa nella memoria di chi scrive, anticipa di almeno trent’anni alcune atmosfere della riforma Renzi: dopo aver diffamato Dante per esigenze metriche, i professori perché ripetono sempre le stesse cose, il cantautore musica l’anelito studentesco alle “assemblee”, ai “cineforum” e ai “dibattiti”, cioè formula il principio della superiorità didattica del piacere di parlare a ruota libera rispetto alla fatica del ripetere. Infine l’autonomia scolastica, da Bassanini a Renzi, è dettata dall’Unione Europea; finché questa non è riconosciuta come strumento principale del disastro europeo e italiano, la natura maligna di quella resta al sicuro dalla consapevolezza.



24 commenti:

  1. Articolo molto interessante. A proposito delle doti profetiche di Venditti ricorderei anche il verso “dove Nietzsche e Marx si davano la mano”. Nel 1975 i due ancora non andavano molto d’accordo, e non immaginavano gli amorosi sensi che li avrebbero accomunati di lì a poco grazie all’opera teoretica degli studiosi di filosofia italiani. Del resto anche oggi, quando il ’68 è trascorso da mezzo secolo, non sembra che le cose vadano in modo diverso. Anzi. Prendiamo il noto giovane “filosofo” telegenico: non solo Neitzsche e Marx, ma anche Platone, Fichte, Hegel, Gentile, Gramsci e l’autore dei Quaderni Neri tutti insieme a scambiarsi segni di amicizia e comunanza “anticapitalistica”. Altro che ’68! Allora l’immaginazione proclama di volere il potere: oggi lo esercita (magari in una “Gabbia”). Voglio dire: se per sessantotto si intende un’epoca storica, non è lecito farne una specie di categoria dello spirito o dello sviluppo del capitalismo (il che è lo stesso) perché le categorie dello spirito, che comprendono anche quella dell’economico-vitale, sono eterne. Se non si tiene conto di questa fondamentale tesi crociana si rischia di cadere in errori storiografici. Lo studente-cliente, per esempio, non è un’invenzione del ’68 bensì dell’epoca successiva e avversaria della precedente: quella della “Milano da bere”, tanto per intenderci. La quale, certo, sarà stata dialetticamente presente anche non sessantotto, ma in quanto negazione. (grazie per lo spazio e l'attenzione)

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  2. Ottimo intervento. Chiarisce la natura totalmente integrata al turbocapitalismo neoliberista della sinistra (per ridere) succeduta al disgraziato crollo del Muro. Chiarisce la natura impositiva, selettiva e nozionistica - dunque antilibertaria e antiliberatoria - di ogni forma di studio che non voglia ridursi a perdita di tempo. E chiarisce la natura squisitamente post-sessantottina dell'imperante (anti)didattica permissivista. Quella che - come scrivevo in un altro commento - si esprime nella falsa coscienza dei diritti civili di varia generazione, crescendo giovani immuni alla nozione di dovere, che percepiscono ogni forma di responsabilizzazione come un attentato alla propria integrità e scaricano i loro problemi sul mondo degli adulti.

    Sull'argomento vi segnalo un film di valore, "Class enemy" (http://www.mymovies.it/film/2013/classenemy/)

    Ovviamente la catena dell'autore non è lunghissima e non si fa parola del ruolo giocato, nel processo di degenerazione della scuola, dall'afflusso di orde extracomunitarie che si trattava di alfabetizzare, indottrinare (a colpi di demoplutocrazia e diritti umani) e soprattutto tenere in qualche modo lontane dalla strada. Ecco il fulcro attorno a cui ruotava il progetto berlingueriano di svilimento della scuola da luogo di istruzione a parcheggio garantito a cani e porci. Né si comprende come si possa pensare di fare scuola seria nei tanti istituti professionali dove un terzo degli "studenti" capisce l'italiano a metà.

    Altro tema che varrebbe la pena di sviluppare è il nesso strettissimo fra massificazione e decadenza del sistema educativo: decadenza da parte studentesca, colle assemblee di classe e i 18 politici, ma anche decadenza del corpo insegnante, cogli ingressi di massa realizzati negli anni 60 e 70. Lo sfacelo in cui troviamo a radici più profonde dei Berlinguer e dei Renzi.

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  3. E' interessante il fatto che questo articolo sia apprezzato da due commentatori che mi sembrano piuttosto distanti. Il dibattito può continuare (rispettoso, mi raccomando).

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  4. Caro Badiale, caro Di Remigio e caro Lorenzo, non voglio dare lezioni a nessuno. Ma vi invito a non confondere il piano dell’azione politica con quello della filosofia e della storiografia ossia con la percezione della realtà. Potrei ricordare che la famiglia Berlinguer fu acerrima nemica del cosiddetto ’68. Potrei ricordare la generazione senza maestri che tentò di riannodare i fili della tradizione ( e che cos’altro erano i partigiani, il Vietnam, le lotte operaie e La Locomotiva di Guccini?). Potrei ricordare il sangue versato che non era esattamente il “godimento immediato” di cui si favoleggia. Potrei avanzare la tesi, forse inedita, secondo la quale in sessantotto fu l’ultimo respiro del Risorgimento mazziniano. E potrei affermare che la scuola del ’68 era quella dei quattordicenni che entravano in biblioteca richiedendo all’addetto il Capitale di Marx (invece di studiare, poverini, le declinazioni e ripeterle ben bene). Ma non è questo il punto. Il punto è la filosofia della storia di Hegel, la mitologia, l’escatologia e il ciarpame correlato del quale ancora non ci siamo liberati, pur avendo a disposizione i testi del nostro Croce. La realtà non deve esser trasformata per diventare la “vera” realtà (inconcepibile). La fichtiana undicesima tesi su Feuerbach è sbagliata. La realtà deve essere incrementata e migliorata. Sulla direzione di questo incremento simpatizzo, se posso permettermi, con “voi”. Non c’è bisogno di essere d’accordo sul ’68 o su Gentile (grande riforma!) per opporsi al nulla che invade la nazione e la scuola della nazione . Scusate il tono “ispirato” e sempre avanti così.

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  5. Caro Francesco, vedo che respiri ancora l'aria del '68. Che un quattordicenne richieda in biblioteca il "Capitale" di Marx implica non soltanto il danno che non imparerà il latino (come intuisci), ma anche il danno che si confronterà con un testo al di là delle sue forze: gli sarà utile per alimentare una fede (anche per fare colpo sulle ragazze), non certo per arrivare a conoscerlo; e questa fede che si alimenta di una mezza conoscenza sarà letale per l'acquisizione dell'habitus scientifico - che è il fine principale dell'istruzione. Proprio questo è ciò che chiamo devastazione della mentalità sessantottina e che da ultimo porta a quella dipendenza del mondo adulto dal mondo giovanile in cui è negato il principio stesso della pedagogia. Quanto al punto che consideri più importante, rabbrividisco un po' nel trovare la filosofia della storia di Hegel vicina alla mitologia, all'escatologia e al ciarpame. Sei sicuro di conoscerla bene? Per quello che ne ho capito, non è così lontana da Croce come sembri credere e non ha proprio nulla a che fare con l'undicesima tesi su Feuerbach.

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    1. Caro De Remigio, forse potrebbe interessarle il saggio crociano “Contro la e i falsi universali. Encomio dell’individualità” .(http://ojs.uniroma1.it/index.php/lacritica/article/view/6488/6471). Si tratta di un breve scritto che riprende la lunga polemica del filosofo contro la filosofia della storia. E dal quale traggo la seguente citazione: “ La filosofia della storia, i cui precedenti sono nelle concezioni messianiche degli ebrei e nelle cosmologie orientali, ebbe la prima e cospicua forma, che serbò sostanzialmente nella posteriore e laica, dal cristianesimo, e segnatamente dalla patristica, senza qui dire delle altre variazioni introdotte nel suo quadro da qualche pensatore o veggente medievale, come Gioacchino di Fiore. Ma col Rinascimento sull’esempio degli storici greci e romani una storiografia non mitologizzante , che venne via via accogliendo in sé i nuovi concetti dei nuovi tempi, e in ultimo quelli del razionalismo e dell’illuminismo, la filosofia della storia rimase confinata nella cerchia delle chiese (della cattolica come delle evangeliche), e ignorata dalla storiografia laica, che non aveva motivo di entrare con essa in conflitto, perché non se la trovava dinanzi arrogante avversaria e concorrente, o guastamestieri nel modo di pensare e narrare la storia […] Ma quando in Germania, nelle università più a lungo e più forte perdurava in questa parte la tradizione medievale, il metodo della vecchia e dappertutto altrove dimenticata filosofia cristiana della storia fu ripreso dagli idealisti e romantici, e culminò nell’opera hegeliana, la quale spregiò, come si è visto, ogni altra sorta di storiografia antica e moderna, e sola asserì autrice e rivelatrice di storia vera quella della quale gli storici non avevano avuto, a suo giudizio, alcun sentore, non essendo essi mai saliti mai saliti all’altezza donde solo si poteva vederla […] accadde che la primitiva indifferenza verso la sopravveniente filosofia presto si mutò in violenta ricusa e satira sdegnosa. “ Sempre nello stesso testo, leggiamo una interessante noticina . “Mi piace ricordare, almeno in nota, la critica dello Engels (nello scritto Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie (Stuttgart, 1888): che la dottrina hegeliana, giustificando e insieme negando il già accaduto, era per un verso conservatrice e per l’altro rivoluzionaria, perché ad essa si potevano appellare così il semifeudalismo prussiano come il proletariato ascendente verso l’abolizione dello stato e il comunismo. Senonchè qui l’Engels non andava esente dal vizio logico non particolare dello Hegel ma di ogni filosofia della storia, di procedere DIMENTICANDO LA EFFETTIVA UMANITA’ PER BLOCCHI UNITARII DI FATTI COMPIUTI, CHE ERANO TRAVESTIMENTI DI CATEGORIE FILOSOFICHE, donde altresì la sua deduzione dell’avvenire con la risoluzione della storia nel soprastorico regno della libertà, fondato dal proletariato; e non badava che lo Hegel proprio da tale metodo era condotto, come gli altri filosofi della storia, a segnare un culmine e un termine alla storia […]. La concezione del ’68 come “mito fondativo del capitalismo assoluto” è a sua volta una concezione mitologica “che procede per blocchi unitari” a priori come stanno a dimostrare i fatti. Dello studente cliente se ne è incominciato a parlare nei primi anni novanta ossia dopo più di dieci anni dalla sconfitta del ’68 italiano. Il ’68 iniziò nei licei classici dove si studiava di più. La polemica contro la società dei consumi era uno dei temi ricorrenti. Sulle altre questioni spero di riprendere il discorso in altre occasioni. (XI tesi su Feuerbach ha a che fare con l'indistinzione di teoria e prassi , uno degli archetipi del Novecento. La verità, il bene, il bello devono incarnarsi nella nuova epoca, nel nuovo uomo, nell'ordine nuovo e via discorrendo [escatologia]. Ma la verità il bello e il bene sono presenti in ogni attimo della realtà).

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    2. Croce fa della libertà il "principio esplicativo del corso storico" e "l'ideale morale dell'umanità". In questo è vicino e lontano rispetto a Hegel. 1) Vicino: per Hegel la libertà è la verità dell'uomo e ha una storia perché non è un dato ma un conoscersi; la storia della libertà è la Weltgeschichte (storia universale), lo sviluppo interno della libertà come verità dello spirito umano. 2) Lontano: per Hegel la libertà e la storia universale NON sono affatto principio esplicativo delle vicende storiche. Nel § 345 dei "Lineamenti" Hegel dice: "Giustizia e virtù, ingiustizia, violenza e vizio, ... fortuna e sciagura degli stati e dei singoli hanno significato e valore determinato nella sfera della realtà cosciente, vi trovano il loro giudizio e la loro giustizia, per quanto imperfetta. La storia universale sta fuori da questi punti di vista...". Hegel distingue dunque tra spiegazione storica, che accerta i fatti, e filosofia della storia, che estrae il loro nucleo di verità, che consiste nel conoscersi della libertà. Il disprezzo per la storiografia di cui Croce parla è una sua fantasia proprio come il credere a un messianismo della filosofia hegeliana della storia (il messianismo guarda al futuro, Hegel si rifà al passato per cogliere la verità nel PRESENTE. Messianico è invece il marxismo; ma Marx non è Hegel) oppure all'idea che giustifichi e insieme neghi l'accaduto. In altri termini: Croce confonde fatto storico e verità storica perché è uno storicista; Hegel li tiene separati perché è un filosofo autentico. - Per quanto riguarda il mio riferimento al '68, non capisco ancora cosa si possa eccepire sulla constatazione che gli insegnanti non si siano difesi dalla riforma dell'autonomia perché imbevuti di mentalità sessantottesca. NON ho detto che il '68 fondi il capitalismo assoluto - in effetti mi sembra una stupidaggine; la mentalità sessantottesca devasta la scuola italiana perché con il suo escatologismo rivoluzionario disprezza la scienza e la cultura come se fossero ideologia conservatrice.

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    3. Caro Paolo, siamo ancora al dualismo di verità di fatto e verità di ragione? Cioè a cento anni prima di Hegel? Ma non era stato Hegel ad affermare che il reale (il fatto) è razionale? Siamo ancora a prima di Vico e alla sintesi a priori di fatto e verità? Buonanotte. Hegel, non per colpa sua, studiò teologia; Croce no. E così Croce evitò di teorizzare un Padre (l'Idea), un figlio (la Natura) e uno Spirito Santo (lo Spirito) che, in quanto Spirito Santo deve riabbassare ad accidente la storia reale ed "estrarne" la verità. La pseudocategoria di "mentalità" non ha nulla di scientifico: è un'etichetta sociologica (di provenienza sessantottina, tra l'altro). Il '68 avrebbe disprezzato la cultura? Ma non fu a quei tempi che, per esempio, che si affermarono l'editoria di massa, le collane economiche e via dicendo? Lo sa che il '68 nacque nei licei classici tra quegli studenti che volevano studiare seriamente e che non si accontentavano di ripetere a pappagallo? Se poi il pappagallo è assurto a l'emblema della scientificitò, ritiro quanto detto e buonanotte al secchio.

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    4. Caro Francesco, mi era sfuggito il tuo commento e non so se leggerai questa risposta; ma è bene darla lo stesso per chiarire gli equivoci. Perché "ancora" al dualismo di verità di fatto e verità di ragione? Perché questo "ancora"? I problemi logici non nascono e muoiono per sempre come le cose, riemergono di continuo; quindi non c'è motivo di spazientirsi se in Hegel si presenta il contrasto tra verità di ragione e verità di fatto: Hegel distingue tra logica e natura, e il "reale" non è il "fatto", è la Wirklichkeit, cioè l'essere-in-atto aristotelico. Infatti Hegel, pur negando la verità della contraddizione, ne riconosce l'oggettività (nel movimento, nell'impulso ecc.). D'accordo? Per Hegel la contraddizione non è vera, si risolve, ma è OGGETTIVA, cioè ci sono oggetti contraddittori, e mentre il fatto è l'oggetto in quanto è intriso di contraddizione, la realtà (Wirklichkeit) è l'oggetto in quanto è la soluzione esistente della contraddizione. Se si fa lo sforzo di leggere la premessa dei "Lineamenti" non si mancherà di chiarirsi su questo punto. E si capirà che per Hegel la storia reale si svolge nell'accidentale, ma non è accidentale; vi si presentano le ragioni storiche, che la storiografia accerta, e il nucleo di verità, cioè la storia universale, che la filosofia sonda. Bisogna mettersi in testa che Hegel non è quasi mai sprezzante o polemico, che è sempre grato alle scienze particolari per i loro sforzi di cogliere la razionalità (la realtà) nell'esistente. Quanto al secondo punto, mi sembra di dire un'ovvietà trita nel ricordare che il '68 è escatologismo rivoluzionario, cioè intollerante alla realtà (in senso hegeliano), velleitario. Che alcuni sessantottini avessero voglia di studiare non toglie nulla al loro escatologismo. Peraltro il rifiuto del pappagallismo va a sua volta rifiutato. Voglio farti notare che i libri importanti vanno letti cinque, dieci volte; senza questo pappagallismo il loro contenuto ci resterà per sempre estraneo.

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    5. Caro Remigio ti ringrazio per la risposta. A presto

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  6. L'autore del post ci presenta l'alternativa tra la scuola di una volta, tutta ripetizione libresca e disciplina, e la scuola di oggi, tutta ignoranza, lassismo e "offerta formativa" supini allo studente-cliente. E argomenta giustamente che la volontaria distruzione della scuola pubblica ha come obiettivo non solo l'intorpidimento delle menti ma la nascita di una forte richiesta di scuola privata di qualità.

    Come insegnante e come genitore sono molto amareggiato che questa sia l'alternativa... Perché se queste sono le uniche scelte allora hanno già vinto, e la scuola pubblica ha gli anni contati, dato che troverà via via sempre meno difensori, se dentro alla cornice pubblica avremo come uniche scelte le due "pedagogie" alternative qui prospettate.

    Ma la terza via c'è, e non c'entra col '68 né con il contro-68. Si chiama scuola Montessori. Le chiuse in Italia il fascismo. Ci sarà stato un perché. La quantità di pregiudizi sulla pedagogia di Maria Montessori è inenarrabile. Un movimento politico come quello che da anni il prof Marino Badiale auspica dovrebbe farne un cavallo di battaglia. E invece in Italia sembriamo essercene dimenticati.

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    1. NON ho scritto: "Ogni insegnamento è ripetizione meccanica", ma "Ogni apprendimento è infatti CONDIZIONATO dalla fatica della ripetizione meccanica; senza questa fatica la memoria resta vuota, l’abilità non si sviluppa, la creatività resta dilettantismo; nessun metodo didattico può risparmiarla, proprio come la preparazione del cibo non è la digestione e non può sostituirla". NON ho scritto che l'insegnante deve imporre una disciplina da caserma, ho scritto che deve "presentare la scienza come un’esigenza vitale, il suo studio desiderabile, la difficoltà del suo momento meccanico sormontabile". Trovo poi inopportuno che un insegnante usi l'aggettivo "libresco", perché questa parola, annullando la differenza tra libri pessimi (la maggior parte dei manuali scolastici vi rientra), libri mediocri, libri ottimi, porta a dimenticare che la scuola è essenzialmente un aiuto a innalzarsi al livello dei libri ottimi, in cui consiste la civiltà.

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    2. Non mi ha risposto nel merito, anzi ha confermato, non correggendomi, la sua predilezione per la scuola "di una volta". Accetto le sue correzioni sugli altri punti laterali: ha ragione, dovevo esprimermi meglio (ma quel che volevo dire era chiaro, e purtroppo non mi ha risposto. Lo trovò un vero peccato. Il livello della pedagogia di Maria Montessori è davvero misconosciuto ai più. E dire che prove scientificamente e solidamente fondate della sua efficacia c'è ne sono:http://longagnani.blogspot.it/2015/06/valutazione-scientifica-del-metodo.html ).

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    3. Della scuola Montessori non so praticamente nulla, perciò non ho risposto su questo punto; coglierò il suo stimolo per informarmi. Non ho predilezione per la scuola di una volta; semplicemente ricordo che nel processo di apprendimento c'è un momento meccanico che non può essere eliminato. Si ricorda quella pagina in cui Gramsci scrive che studiare è anche una disciplina fisica? Senza questa sforzo anche fisico non c'è apprendimento. La trasformazione dell'alunno in cliente, propria della scuola della cosiddetta autonomia, cancella la necessità dello sforzo; quindi, qualunque sia il metodo adottato, cancella la scuola.

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  7. Sono d'accordo con l'articolo anche se non sono un insegnante e non ho l'esperienza per valutare quale sia la scuola migliore per lo studente, comunque osservo anche che ormai la parola e lo scrivere hanno dimostrato tatta la loro debolezza in mancanza di un potente mezzo di comunicazione di massa da sempre in mano alle elite finanziarie; abbiamo perso e perderemo anche perchè, come osserva Orizzonte 48 dalle pagine del suo blog, non basta essere istruiti per essere colti , infatti gli insegnanti sono caduti come topi nella trappola dell'autonomia scolastica pur avendo un'istruzione elevata, quindi la domanda che mi pongo è: che cosa significa essere colti oggi? e mi do anche la risposta: comprendere il mondo complesso in cui viviamo, i tranelli mediatici, l'orientamento culturale e sociale imposto da chi sta al vertice della piramide, ma il vero problema e come svelarlo e farlo comprendere alle nuove generazioni attraverso la scuola dato che le vecchie sono ormai culturalmente fuori dal gioco.

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    1. Che gli insegnanti abbiano un'istruzione elevata è un'opinione straordinariamente ottimista. La complessità del mondo è svelata dalla scienza; poiché però la scienza stessa è complessa, occorre il lungo tirocinio della scuola.

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  8. Trovo la domanda interessante Tiberio :). Tanto mi pare che, quando dico "colto" o quando dico "istruito", l'uso di due parole differenti sottenda necessariamente due diverse attività mentali soggiacenti. Visto che in italiano potrei tanto coltivare un campo quanto coltivare la tua amicizia o, semplicemente, me stesso, il participio passato "colt(ivat)o" potrebbe, in fase costitutiva, semplicemente denotare ciò che si è sottoposto ad una attività costruttiva.
    Il termine "istruire" mi sembra invece più problematico. Se fossi un insegnante ovviamente insegnerei ma, se i miei alunni/allievi non capissero un accidente di quanto vado spiegando loro, questo mio insegnamento sembrerebbe cadere nel vuoto, concludersi con un nulla di fatto. Se i miei allievi, invece, ne uscissero fuori "istruiti" questa loro "istruzione" denoterebbe un insegnamento di successo. L'istruzione sembrerebbe quindi essere un insegnamento che ottiene lo scopo di esitare in un apprendimento. Attendo Marino per le necessarie critiche ^_^

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  9. Caro Paolo Di Remigio, vorrei fare due considerazioni semplici, alcune domande che mi frullano per la mente da tempo.
    Una società ha bisogno di istruzione. Non voglio entrare nel merito, per adesso, sul tipo di istruzione. Questo argomento ci porterebbe molto lontani, anche se andrebbe affrontato.
    Per il momento, facciamo astrazione del sistema di rapporti sociali. E' un errore grave fare questa operazione, me ne rendo conto. Ma proviamoci.
    Dunque, se c'è bisogno di istruzione, occorre che ci siano coloro che la società indica per eseguire questa istruzione. Anziché "coltivare il grano", se una persona ha certe caratteristiche, una certa predisposizione, la dedico ad insegnare.
    Qual è il risultato che ci si attende? Ovviamente che i figli, o tutti coloro che ne hanno bisogno o voglia, apprendano. O anche, se non vogliamo metterla in termini nozionistici, che siano capaci di un ragionamento, che apprendano il metodo.
    Ora, prendendo ad esempio una squadra sportiva, si potrebbe dire che il compito dell'insegnante è quello dell'allenatore. Qual è il compito dell'allenatore? Mettere nelle condizioni chi scende in campo a fare al meglio i movimenti, a collaborare con i suoi compagni. I risultati ci sono se la squadra gioca bene.
    Rispetto alla scuola che conosco io, quella dei miei tempi (molto lontani oramai, ma potrei parlare dei miei figli), non è mai stato questo lo spirito con cui si è svolto l'insegnamento. Sembra che lo scopo sia quello di fare selezione, non di trasmettere conoscenza. Cioè, se uno non impara, si prende brutti voti e la colpa è sua. E L'insegnante? In una squadra, se il giocatore non fa canestro, se sbaglia, se gioca male e la squadra perde, la responsabilità è del giocatore ma anche dell'allenatore, che non l'ha messo nelle migliori condizioni per esprimere il meglio. Nella scuola no, non è così.
    Questo lo ritengo sbagliato.
    Lo scopo non è, almeno non dovrebbe essere, quello di selezionare le elite, ma di trasmettere metodo e conoscenza.
    Se siamo d'accordo su queste premesse, allora si può fare un passo avanti nel ragionamento.
    Penso che il migliore esempio di didattica sia quello raccontato nel libro sulla scuola di Barbiana. Credo che sarebbe un buon punto di partenza.

    (Io sono Francesco semplice. Ho visto che c'è anche Francesco al quadrato, ma io sono quello di prima, Francesco Morante

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    1. Sono d'accordo con te sul fatto che lo scopo primo della scuola non sia selezionare; tu devi però convenire con me sul fatto che la trasmissione di conoscenza provoca una selezione: la natura ci differenzia, ci sono quelli più e quelli meno intelligenti, quelli più e quelli meno laboriosi. Se è fatta correttamente e con lo scopo di orientare i giovani, la selezione ha la sua utilità: fa sì che le case siano progettate in modo da non cadere, che i computer non si blocchino, che le diagnosi siano corrette ecc.; diventa insomma uno strumento di mobilità sociale: non abolisce le classi, ma impedisce che si trasformino in caste.

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    2. Questo tipo di selezione potrebbe andare bene. Ma, tornando alla valutazione dell'insegnante, ci dovrebbe essere un meccanismo che dimostra che è stato capace di aver creato le condizioni ottimali per fare emergere le capacità di chi studia. Oggi non è così. Gli insegnanti incapaci (anche se preparati) si limitano a bocciare gli studenti che non hanno raggiunto il livello necessario. E' come se un allenatore dicesse che la squadra perde perchè i giocatori sono scarsi. Ma è compito suo quello di farli rendere al massimo della loro capacità.
      Questo vorrebbe dire che occorrono esaminatori esterni. Il compito dell'insegnate dovrebbe essere quello di far ottenere il massimo risultato alle proprie classi.
      Facciamo un altro esempio. Se do lezioni private di una certa materia, mi preoccuperò di fare in modo che lo studente che preparo superi gli esami. Non è che se è scarso gli metto "due". Allora, perché questo rapporto cambia così radicalmente se mi trovo in una classe?

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    3. Francesco, si vede che sei estraneo al mondo della scuola: oggi nessun insegnante si limita a bocciare, il consiglio di classe deve dimostrare di aver fatto di tutto (corsi di recupero, sportello didattico, didattica personalizzata, coinvolgimento della famiglia) per recuperare chi è in difficoltà. Altrimenti la sua decisione è suscettibile di ricorso. Così nella scuola primaria si boccia solo in casi eccezionali, in quella secondaria raramente. - Poi, il meccanismo che dimostra che l'insegnante è stato capace di aver creato le condizioni ottimali per far emergere le capacità degli alunni c'è già da sempre: tenere la classe e portare avanti ordinatamente il programma sono appunto il creare le condizioni ottimali di apprendimenti di cui parli. - Quanto all'allenatore, è evidente che l'aver fatto il massimo non implica in alcun modo la vittoria della squadra. - Infine, il caso delle lezioni private è appunto quello dell'alunno-cliente di cui tratto nel post. Ora, il corso di recupero non è una forma alternativa di didattica, che funziona perché chi lo gestisce fa di tutto, ma è complementare della didattica normale: è la forma ridotta della bocciatura, che tanto paventi, e funziona SOLO in quanto c'è il pericolo della bocciatura nella sua forma eclatante: lo si frequenta perché c'è stato un "due" ed esso è efficace solo in quanto chi vi ricorre teme di essere bocciato; è questa la differenza tra andare a lezione e andare a ripetizione, non tanto il carattere mercantile della ripetizione. Viceversa, quando il rapporto didattico ha assunto un carattere mercantile, svanisce il pericolo del "due", non si desta la preoccupazione di ripararlo e la scuola diventa una finzione.

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    4. Nelle scuole Montessori non sono previsti né voti positivi né bocciature. Però all'uscita da una buona scuola Montessori i bambini sanno di più: http://longagnani.blogspot.it/2015/06/valutazione-scientifica-del-metodo.html

      L'insegnante in una scuola Montessori è esattamente un allenatore, anzi meno, un consulente a disposizione dei discenti. Prepara l'ambiente educativo, presenta materiali e argomenti, poi si fa discretamente da parte, per non ostacolare l'apprendimento. Ma è lì, fianco a fianco, pronto ad aiutare quando gli sarà chiesto. Che un qualsiasi discorso sulla scuola prescinda dalle scoperte della Montessori (che sono poi quelle del costruttivismo e delle moderne neuroscienze), è inconcepibile. La più moderna ricerca, per esempio (2012) dice che il corsivo è meglio dello stampatello maiuscolo. E da noi, 2015, si insegna in prima e in seconda lo stampatello maiuscolo.

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  10. non dimentichiamoci che la responsabilità è anche vostra

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  11. Molto interessante: ho inserito questo articolo su un post nel mio blog Il Diario di un dipendente riluttante.
    http://dipendenteriluttante.blogspot.it/2015/06/scuola-e-azienda-un-paragone-impossibile.html

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