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martedì 31 marzo 2015

Un saggio su fascismo e antifascismo/2

(Seconda e ultima parte del saggio scritto con Massimo Bontempelli. La prima parte è stata pubblicata domenica 29. M.B.)


5. Che fare?

Dopo questo esame sulla natura del fascismo, riprendiamo l’esame della situazione italiana. La domanda naturale, a seguito delle analisi fin qui svolte, è naturalmente: che fare? Come opporsi al pericolo effettivo di dissoluzione della società italiana? Se tale pericolo fosse quello del fascismo, la risposta sarebbe chiara e dettata dalla storia: di fronte al pericolo fascista occorre una politica di unità antifascista, quel tipo di politica che ha permesso la lotta del CLN e il trionfo dell’antifascismo. E’ in sostanza questo il modello che viene continuamente richiamato da molti antiberlusconiani. Noi riteniamo che questo modello sia oggi del tutto inapplicabile. Come l’attuale capitalismo feudal-criminale, del quale il berlusconismo è l’espressione più chiara, non è fascismo, così l’opposizione alle dinamiche distruttive di tale capitalismo non può definirsi antifascismo. Si può anzi affermare che nell’attuale fase storica l’antifascismo (in quanto, beninteso, pratica politica, e non assunto etico-culturale) non sia più attuale. La tesi sull’esaurimento di senso politico, nella realtà contemporanea, dell’opposizione fascismo/antifascismo, si argomenta in maniera molto semplice. L’antifascismo è definito dall’essere opposizione e contrasto al fascismo e al nazismo. Ma il fascismo e il nazismo sono stati sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, e da allora non hanno più alcuna esistenza storicamente significativa. Non c’è, da più di sessant’anni, nessun fascismo da contrastare, e l’antifascismo non ha quindi nessun senso. Le obiezioni a questa tesi possono assumere forme molto diverse, ma in sostanza si riducono a due: in primo luogo, si contesta l’assunto che oggi non esista più alcun fascismo storicamente rilevante. In secondo luogo, si obietta che difendere l’attualità dell’antifascismo significa in realtà difendere gli ideali che hanno ispirato la lotta antifascista e che sono depositati nella Costituzione Italiana. Per cui chi riconosce il valore di tali ideali (e fra questi vi sono gli autori di questo saggio) perciò stesso riconosce l’attualità e il valore dell’antifascismo. Esaminiamo allora queste due obiezioni.

La discussione sul fascismo svolta in precedenza ci permette di capire in che senso affermiamo che oggi non esiste nessun fascismo storicamente rilevante. Vogliamo dire che non esiste nessun movimento politico storicamente rilevante che si proponga un obiettivo di controllo politico totalitario della società diretto alla mobilitazione e attivizzazione permanente delle masse con lo scopo di coinvolgere le masse stesse in una attiva politica di conquiste imperialistiche. Ovviamente, ci sono oggi fascisti e nazisti, ma si tratta di piccole realtà insignificanti. Nei casi in cui l’estremismo di destra è stato coinvolto in progetti eversivi si è sempre trattato di piccole realtà completamente subalterne a strategie organizzate e portate avanti da forze di tutt’altra natura. La risposta a questi dati di fatto, da parte di chi sostiene l’attualità dell’antifascismo, sta in sostanza in un cambiamento del significato dei termini, per cui si chiama “fascismo” ogni forza politica e ogni tendenza culturale che abbia in comune col fascismo propriamente detto alcune caratteristiche come la violenza, il rifiuto della democrazia e dell’universalità dei diritti umani, il maschilismo, il sospetto nei confronti della libertà della cultura e dell’elaborazione intellettuale. Si tratta di una mossa abituale nella sinistra italiana, nella quale è sempre stata operante la comoda tendenza a qualificare come “fascista” chiunque esprimesse punti di vista diversi da quelli egemoni all’interno della sinistra stessa. Questa impostazione è chiaramente espressione di un errore logico, paragonabile a quello contenuto nel seguente pseudo-ragionamento: “tutti i salmoni sono pesci, quindi tutti i pesci sono salmoni”. Se è chiaro l’errore contenuto nella frase appena enunciata, dovrebbe anche essere chiaro come un errore dello stesso tipo sia contenuto negli pseudo-ragionamenti di chi afferma che, poiché il fascismo attacca la democrazia, allora chi attacca la democrazia è fascista (per concludere magari che Berlusconi è fascista), e poiché il fascismo è violento, allora chi è violento è fascista, e poiché il fascismo è maschilista, allora chi è maschilista è fascista. Questo errore logico porta ad un sostanziale svuotamento della nozione di “fascismo”, ridotta ad una astrazione priva di determinazioni storiche.

domenica 29 marzo 2015

Un saggio su fascismo e antifascismo/1


Ripubblico, in due parti, un saggio su "Berlusconi, fascismo, antifascismo", scritto con Massimo Bontempelli fra fine 2010 e inizio 2011. Al di là delle analisi del fenomeno Berlusconi, credo che esso possa oggi risultare interessante sia per l'analisi di alcuni dati di fondo della realtà italiana, sia per una discussione sul tema fascismo/antifascismo, che periodicamente ritorna di attualità.  La sezione 3 è dovuta interamente a Massimo.
(M.B.)


1. Introduzione

L’autunno del 2010 verrà ricordato come l’inizio dell’autunno o del tramonto di Berlusconi. Il segnale più evidente di questo tramonto è forse l’attacco che i giornali da lui dipendenti hanno sferrato, all’inizio di ottobre, contro Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria. Si tratta evidentemente di una mossa disperata, dovuta all’incapacità da parte di Berlusconi di gestire i problemi e gli scontri interni ai ceti dominanti italiani. E’ del tutto ovvio che egli non può permettersi, senza minare le basi del suo potere, di attaccare i poteri rappresentati dalla Confindustria, e di portare lo scompiglio e l’insicurezza fra gli stessi vertici del potere reale nel nostro paese.

Il ciclo degli ultimi quindici anni della vita italiana, dominato, sul piano dell’immaginario diffuso, dalla “discesa in campo” di Berlusconi e dall’antiberlusconismo delle sinistre, ha segnato lo sprofondare del nostro paese in una declino sociale, civile e morale che si è tradotto in una ulteriore perdita di diritti dei lavoratori, in un costante abbassamento del reddito reale dei ceti medi e bassi, nella disgregazione del tessuto connettivo del paese, nel diffondersi della corruzione, nel controllo da parte della criminalità organizzata di vaste zone del territorio nazionale. Si tratta di fenomeni che stanno ormai mettendo in pericolo la coesione sociale e l’unità politica del paese.

Chi voglia opporsi a questa decadenza deve elaborare una interpretazione chiara e convincente di quanto sta accadendo, e noi intendiamo cominciare. Nel fare questo tenteremo di rispondere a tre domande. La prima: Berlusconi rappresenta un effettivo pericolo per la democrazia? E’ possibile cioè che, di fronte alla prospettiva della propria definitiva sconfitta, Berlusconi tenti la carta di una eversione della democrazia? La seconda: se si ammette il pericolo di una “dittatura berlusconiana”, ha senso allora parlare del berlusconismo come di una forma di fascismo? E infine ha senso, per combattere un tale “fascismo berlusconiano”, proporre lo schema dell’unità antifascista fra tutte le forze che si oppongono a Berlusconi? Si tratta, come è evidente, di domande alle quali è necessario rispondere se si vuole elaborare una strategia politica che blocchi la decadenza del nostro paese e allontani lo spettro della dissoluzione politica, sociale e morale della nazione italiana. Per chiarezza, anticipiamo subito le nostre risposte a queste tre domande. In primo luogo, riteniamo che Berlusconi rappresenti davvero un pericolo per la democrazia, e che la possibilità di una “dittatura berlusconiana” non sia esclusa. In secondo luogo, riteniamo che tale dittatura non avrebbe nulla di “fascista”, e che non avrebbe quindi senso proporre lo schema dell’unità antifascista contro di esso. Nel seguito cercheremo di argomentare queste tesi.


2. Feudalità criminale.

La realtà sociale e politica dell’Italia di oggi è espressione di fenomeni generali che fanno parte della fase attuale del capitalismo, ma possiede anche una sua specificità, legata sia ad aspetti storici di lunga durata sia alle dinamiche politiche degli ultimi anni. Volendo descrivere alcune di queste caratteristiche generali del mondo contemporaneo, abbiamo in passato usato le espressioni “capitalismo assoluto” o “totalitarismo capitalistico”[1]. Con esse intendiamo indicare il fatto che il rapporto sociale capitalistico è divenuto “assoluto”, cioè non ammette più nessuna (relativa) autonomia di istituzioni non economiche. Lo Stato diventa un’azienda, gli ospedali e le scuole diventano aziende, le stesse più intime relazioni umane devono venir gestite in termini “aziendali”. Questo totalitarismo ha come ovvio effetto lo svuotamento di ogni senso della politica. Se ogni decisione sull’economia è imposta dai mercati e tolta alla politica, quest’ultima si riduce ad una attività vacua e autoreferenziale. E questo è esattamente quello che succede: in tutto il mondo del capitalismo avanzato il ceto politico tende a non incidere minimamente sulla realtà sociale, che è abbandonata alle dinamiche dell’economia capitalistica. La politica in sostanza deve solo garantire la dinamica economica da ogni interferenza contraria, e raggiunge questo risultato appunto con la propria autoreferenzialità che la rende impermeabile alle sofferenze e ai conflitti che la dinamica economica fa sorgere nella società. In cambio di questa garanzia il ceto politico può vivere parassitariamente a spese della ricchezza sociale. Questa configurazione della realtà sociale vale per tutto il mondo occidentale. Ad essa si aggiungono però, in Italia, quelle specificità alle quali abbiamo sopra accennato. Per comprenderle, occorre partire dal fatto che in Italia vi è una tradizione storica per la quale la politica è una forma abbastanza diffusa di sbocco occupazionale dei ceti medi. Le origini di questa particolarità storica andrebbero probabilmente ricercate nel modo stesso in cui si è sviluppato in Italia il capitalismo industriale, con un forte intervento statale, ma per non andare così lontano basterà ricordare come questo aspetto della politica in Italia sia stato molto visibile durante il fascismo: Mussolini riuscì infatti a neutralizzare gli aspetti più eversivi del movimento fascista, e a fare del Partito fascista una semplice cassa di risonanza propagandistica della sua gestione per via burocratica dello Stato, grazie alla trasformazione dei quadri fascisti in funzionari stipendiati di enti statali o dello stesso Partito Nazionale Fascista. Se nell’immediato dopoguerra questo processo conosce una battuta d’arresto, perché il ceto politico emerso dalla Resistenza esprime una cultura diversa, esso però riprende rapidamente con la creazione degli apparati dei vari partiti di massa. L’episodio emblematico di tale processo è lo scontro che nella DC, poco prima della morta di De Gasperi, vede protagonisti lo stesso De Gasperi e Fanfani. Quest’ultimo vuole in sostanza che il partito si crei una base elettorale indipendente dalla Chiesa, e per questo ha bisogno di un ceto di funzionari stipendiati che viene creato sfruttando le risorse occupazionali dell’amministrazione pubblica. Gli altri partiti di massa della Prima Repubblica imiteranno il modello democristiano. A partire da queste premesse, attraverso una dinamica storica che sarebbe troppo lungo ricostruire qui, siamo arrivati alla situazione attuale, nella quale il ceto politico italiano appare come uno dei più estesi, dei più corrotti e dei più rapaci dell’intero mondo occidentale. Questo particolare fenomeno si deve alla sostanziale impunità di cui la corruzione politica ha potuto godere in Italia, con l’eccezione di pochi casi isolati e del momento storico di Mani Pulite. Le ragioni di questa sostanziale impunità stanno probabilmente in aspetti “di lunga durata” dell’Italia, che da molto tempo sono stati indicati all’attenzione pubblica (mancanza di senso dello Stato, “familismo amorale”). Il punto che qui vogliamo sottolineare è che, in presenza di una occupazione delle strutture pubbliche da parte dei partiti, la sostanziale impunità della corruzione genera un ceto politico che si espande sempre di più. Infatti, in mancanza di repressione dei comportamenti illegali, la forza di cui ciascun politico dispone nelle lotte per il potere è direttamente proporzionale alle dimensioni delle propria corte di clienti. Il progressivo estendersi di queste corti clientelari, dovuto anche al progressivo venire meno, in larga parte dell’opinione pubblica, di ogni tipo di resistenza alla corruzione generalizzata, crea alla fine un problema di risorse. Le stesse risorse statali diventano insufficienti e il ceto politico, per finanziarsi, si introduce nel mondo dell’economia, non ovviamente per dirigerla o indirizzarla (il che sarebbe in contrasto, come dicevamo all’inizio, con la natura stessa della politica contemporanea), ma per diventare mediatore d’affari e lucrare guadagni. Questo avviene in tanti modi diversi, per esempio grazie al controllo del territorio di cui dispone il politico e al fatto che è necessaria la sua mediazione per mettere in opera progetti di costruzioni di un tipo o dell’altro, oppure grazie alla possibilità per il politico di far saltare agli imprenditori “amici” le lungaggini burocratiche effettivamente presenti in Italia. Il fenomeno Berlusconi si inserisce in questa dinamica e ne rappresenta la summa perfetta.