giovedì 16 luglio 2015

Una critica a Marx

Pubblichiamo un intervento di Paolo Di Remigio, che discute alcuni nodi teorici importanti del pensiero di Marx a partire dal noto scritto sulla "Questione ebraica". Quella di Di Remigio è una critica serrata agli aspetti utopico-messianici che permangono nel pensiero di Marx. Non credo di condividerla in toto, ma la trovo ben argomentata, e sono convinto che questo tipo di discussioni siano quelle di cui ha bisogno il pensiero antisistemico per uscire dalla sua sostanziale inutilità, che appare evidente dall'intera storia recente.
(M.B.)






Gli ERRORI DEL GIOVANE MARX



Paolo Di Remigio





Et nous savons que cette erreur procède d'un déni de réalité et infecte l'esprit de bien des gens.


Jacques Sapir


UN COMMENTO A Marx, Sulla questione ebraica


È noto che la sinistra non ha letto Marx, meno noto che se lo avesse fatto non sarebbe molto diversa da come è: determinata dal rifiuto di conoscere e di affermare la verità presente, posseduta dalla volontà di realizzare un sogno, dall’aspirazione a una realtà diversa. In questo non differisce da Marx; che già Marx viva il presente come una gabbia e la verità come una prospettiva futura, è infatti evidente fin dall’articolo giovanile “Sulla questione ebraica”. Suo tema centrale è l’insufficienza dell’emancipazione politica effettivamente realizzata dallo stato costituzionale, rispetto al dover-essere, che il giovane Marx chiama emancipazione umana.
Lo stato moderno che opera secondo leggi generali e razionali non è ancora, per Marx, l’emancipazione umana, perché esso è travagliato da un’intima contraddizione: è generale in quanto è determinato da leggi generali che esprimono la volontà generale; ma questa sua generalità non determina la vita sociale particolare che esso comprende, cioè il mondo dei proprietari dal comportamento egoistico e particolare, che Marx, facendo sua la terminologia hegeliana, chiama “società civile”; anzi, lo stato si rapporta alla società civile come al suo opposto. Così tra il generale dello stato moderno e il particolare della sua società civile non c’è, come sarebbe ovvio aspettarsi, un rapporto di sussunzione; Marx, infatti, estremizza la loro differenza fino a considerarla contrasto irriducibile: lo stato sarebbe espressione della volontà comune dei cittadini, sarebbe l’insieme dei cittadini come comunità solidale, ma questa comunità è soltanto illusoria, in quanto i cittadini sono anche borghesi, membri della società civile, dunque scissi in contrasti che lo stato, cioè la loro volontà comune, è impotente a conciliare.
In quanto la riduce a contrasto irriducibile, Marx concepisce di fatto la società civile come stato di natura: la considera come se essa non fosse regolata dalle leggi, e fa della proprietà privata, cioè del riconoscimento statale del possesso, innanzitutto della propria corporeità, un torto. Questa identificazione della società civile con lo stato di natura, è un grave equivoco. Marx vi incorre insieme ai liberali. Mentre però i liberali identificano stato natura e società civile in modo da civilizzare lo stato di natura, riflettono cioè sullo stato di natura l’ordine proprio della società civile, Marx li identifica con l’intento opposto di riflettere sulla società civile l’orrore proprio dello stato di natura.
Lo stato di natura è l’animalità dell’uomo, ciò che Freud individua nel fondo di ogni individuo come pulsioni inconsce, ciò che storicamente si presenta come sterminio, politicamente come tirannia e socialmente come schiavitù. A differenza dalla natura animale, che è regolata dalla razionalità esterna dell’istinto, l’animalità dell’uomo ne è svincolata, allo stesso modo per cui la sua razionalità è libera: solo l’uomo è crudele, solo l’uomo infligge dolore anche senza interesse, perfino contro l’istinto di autoconservazione; solo l’uomo è capace di ogni crudeltà, non solo di quelle che presuppongono forza, destrezza, coraggio, addirittura buone intenzioni – e che formano il monotono materiale degli spettacoli da cui è attratta la sensibilità maschile –, ma anche di quelle esercitate sull’inerme per sentire la propria potenza.
La volontà libera dell’uomo spezza lo stato di natura, perché il bellum omnium contra omnes si risolve nell’infinita precarietà di una vita sempre esposta alla violenza casuale: l’interesse primo, più profondo, ma non più evidente, dell’uomo è quello di evitare l’orrore dello stato di natura. Lo evita riconoscendo l’altro, cioè volendo la sua volontà, volendo fargli soltanto ciò che l’altro vuole gli sia fatto e ottenendo che l’altro gli faccia soltanto ciò che egli vuole gli sia fatto, in una parola: rinunciando alla volontà del proprio bene esclusivo e adottando come propria volontà la volontà del bene comune. Questa volontà del bene comune, la volontà generale, è il fondamento della legge umana, del diritto.
L’organizzazione che realizza il diritto è lo stato. Mentre lo stato di natura è l’ambito della precarietà radicale provocata dal presupporre l’ostilità irriducibile dell’altro, lo stato è l’ambito della sicurezza, in cui si ha fiducia di non essere danneggiati volontariamente dall’altro e di poterne anzi essere aiutati. Il superamento della precarietà naturale nella fiducia collettiva è la base dello stato. Poiché sorge non da un ipotetico desiderio naturale di socialità, ma dal rifiuto volontario dello stato di natura, dall’orrore dell’orrore, essere membri dello stato non è un atto di sacrificio gratuito, ma è un interesse, il primo interesse, degli individui. L’essenza dello stato è la realtà della legge universale, per cui è superata la casualità della violenza, è dissolta l’angoscia che ne deriva, si instaura il sentimento della sicurezza, è posta la base di quella realizzazione di sé attraverso l’altro che si chiama libertà.

È stato per primo Hobbes a fare del rifiuto dello stato di natura il fondamento della teoria politica. Benché abbia compreso che lo stato è la risposta dell’uomo alla minaccia della propria naturalità, Hobbes, in quanto ideologo della monarchia feudale, ha però ignorato che lo stato può avere questa funzione solo in quanto il sovrano realizza non una volontà particolare, ma la volontà generale, la legge, solo in quanto è stato costituzionale; infatti la volontà particolare è appunto la volontà tirannica che genera l’orrore dello stato di natura. Teorie politiche che non riconoscano nelle leggi universali dello stato la soppressione dello stato di natura, le rappresentazioni volutamente o involontariamente edulcorate dello stato di natura stesso, hanno come esito teorico l’incomprensione dell’essenza dello stato e come conseguenza pratica l’attuazione dello stato di natura. Così l’anarchismo, che addirittura immagina buono l’individuo naturale, rifiuta lo stato e si manifesta praticamente come violenza impotente contro l’ordine sociale. Così il liberalismo, che con Locke immagina uno stato di natura in cui i diritti sono già presenti, si mostra infine come attuazione della precarietà sociale per garantire la sicurezza dell’investimento. Così il comunismo, che con Marx identifica lo stato di natura con l’individualismo della società civile, si è mostrato come annullamento dell’individuo nel terrore poliziesco per garantire la tirannia del partito.
Per trattare lo stato, in “Zur Judenfrage”, Marx muove dal problema dell’emancipazione. La stessa scelta del termine mostra che l’essenza dello stato è ricercata senza la necessaria radicalità. “Emancipazione”, infatti, significa la rinuncia volontaria alla patria potestas sul figlio. Per sondare l’essenza dello stato, occorreva invece parlare di manumissio, cioè dell’affrancazione dello schiavo; infatti la schiavitù, il rapporto per cui l’uomo tratta l’altro uomo come una cosa di cui può fare ciò che vuole (l’imperatore Domiziano punì con una multa i padroni che castravano i loro schiavi), è lo stato di natura nella sua forma sociale. Lo stato antico la consentiva: esso era impigliato nella contraddizione di considerare la libertà non come riconoscimento tra autocoscienze, ma come un privilegio particolare, legato alle circostanze; quindi si arrendeva alla contraddizione che alcuni uomini non siano uomini. Realizzando la promessa del cristianesimo per cui tutti gli uomini sono figli di Dio, lo stato moderno la riconosce come contraddizione, cioè la considera delitto, e così rende la libertà di ogni individuo un fatto banale. Invece Marx, parlando semplicemente di emancipazione, trascura il carattere qualitativo dell’asimmetria tra padrone e schiavo, ignora la dignità etica dello stato moderno che la impedisce, anzi la degrada rendendo salienti i rapporti asimmetrici in senso quantitativo, quelli per cui un uomo ha di più, l’altro uomo ha di meno. Anche la sua critica del capitalismo, per quanto magistrale, si basa sulla nozione di plusvalore sottratto ai lavoratori, resta cioè al livello quantitativo. Ma che qualcuno abbia di più e qualcun altro abbia di meno non costituisce di per sé un problema etico, non minaccia cioè la loro libertà. La variabilità quantitativa della proprietà ha due limiti qualitativi: il massimo della precarizzazione delle masse, il minimo della vanificazione del merito. Entrambi questi limiti costituiscono una minaccia della libertà; essa vive nel loro intervallo. Né da questa nozione quantitativa dell’asimmetria può derivare la concezione che Marx ne fa derivare, quella del proletariato come classe senza diritti, per la quale la fine del capitalismo rappresenterebbe dunque la fine soltanto delle sue catene. Infatti l’asimmetria quantitativa nel rapporto tra persone non implica di per sé il venir meno di ogni loro diritto, dunque non comporta quella loro estraneazione totale che Marx considera condizione della lotta che supera per sempre le classi sociali e lo stato.
La concezione quantitativa del rapporto alienante induce Marx a trascurare che l’asimmetria ha innanzitutto un carattere qualitativo: nel rapporto schiavistico un uomo è uomo, l’altro uomo non è meno-uomo, è non-uomo, instrumentum vocale, che ha linguaggio umano, che nondimeno è una semplice cosa. Poiché Marx considera l’asimmetria quantitativa identica all’asimmetria qualitativa, il proletario moderno gli appare identico allo schiavo. Questo errore ha due conseguenze, da una parte che la società civile, l’ambito dei rapporti di classe, diventa stato di natura, cioè Marx degrada la nozione di società civile; dall’altra che lo stato moderno, caratterizzato dall’universalità delle sue leggi, e la sua tendenza a garantire i diritti a tutti, gli appaiono una finzione; cioè Marx non riesce a concepire il significato dello stato. In altri termini, poiché senza nessuna ragione razionale, ma solo in base a impulsi viscerali, ha ridotto la società civile moderna a stato di natura, come se fosse fatta di padroni e schiavi, la legalità dello stato moderno gli appare non una barriera alla schiavitù, cioè allo stato di natura, ma una sfera di uguaglianza esornativa, illusoria. Commette così un duplice errore: non capisce che la società civile non è estranea all’eticità, ma è la forma estraniata dell’eticità, ossia è la sfera in cui l’individuo egoista è sociale contro le sue stesse intenzioni, e non capisce che lo stato è l’interesse comune (res publica) degli individui anche nella loro particolarità.
Contro il giovane Marx ha dunque ragione Bauer, che si attiene fedelmente alla teoria hegeliana dello stato e pone il problema dell’emancipazione in riferimento non allo stato moderno, ma solo allo stato feudale (lo stato cristiano), cioè allo stato fondato non sulle leggi, ma sulla volontà privata, quindi particolare, del sovrano. Per Bauer l’emancipazione del suddito in cittadino e dello stato feudale in stato moderno si verifica quindi con la laicità dello stato:


«Ogni privilegio religioso in generale, dunque anche il monopolio di una chiesa privilegiata, dovrebbe essere soppresso, e se qualcuno o parecchi o addirittura la stragrande maggioranza credesse di dover adempiere ancora dei doveri religiosi, questo adempimento dovrebbe essere consentito loro come una faccenda privata».


A Marx non basta l’emancipazione assicurata dallo stato laico, che garantendo la tolleranza tra le religioni si garantisce la superiorità rispetto al dogma e dunque il terreno della razionalità: occorre ben altra emancipazione, un’emancipazione futura di cui scorge il movimento nella realtà attuale.


«La critica … doveva chiedere: di che specie di emancipazione si tratta? … Soltanto la critica dell’emancipazione politica stessa era la critica definitiva della questione ebraica e la sua vera soluzione nella «questione generale dell’epoca».


Seguendo Feuerbach, ma anche la propria intolleranza, Marx concepisce la religione sempre e solo come difetto; finché si è religiosi si è schiavi. Quindi non è possibile che ci sia vera libertà, vera emancipazione in uno stato, quantunque laico, se i suoi membri sono ancora devoti, quantunque privatamente, a qualche religione. Poiché il superamento della religione non è nell’agenda dell’emancipazione politica e non avviene nello stato laico, qualunque esso sia, allora l’emancipazione politica è un’emancipazione solo parziale:


«Se perfino nella terra della perfetta emancipazione politica troviamo non solo l’esistenza, ma l’esistenza vivace, rigogliosa della religione, allora è provato che il sussistere della religione non contraddice la compiutezza dello stato. Poiché però il sussistere della religione è il sussistere di una manchevolezza, la sorgente di questa manchevolezza si può cercare soltanto nell’essenza dello stato».


Inoltre, oltrepassando Feuerbach, Marx ritiene che la religione non sia l’alienazione originaria, ma un derivato della manchevolezza materiale, un fenomeno dell’alienazione reale degli individui. Conservando al suo interno questo fenomeno, lo stato laico denuncia di non aver raggiunto la compiuta libertà, ma di essere esso stesso contraddittorio, dunque non altro che una forma più raffinata di schiavitù umana. Insomma l’emancipazione politica è insufficiente, perché lo stato laico, anziché vanificare la religione, la conserva:


«Il limite dell’emancipazione politica appare subito nel fatto che lo stato può liberarsi da una gabbia senza che l’uomo ne sia effettivamente libero, che lo stato può essere uno stato libero, senza che l’uomo sia un uomo libero».


Anche a voler concedere che la religione sia soltanto manchevolezza, resta il fatto che Marx non vuole ammettere ciò che il suo disprezzo tante volte gli suggerirebbe: che l’individuo è in ogni caso manchevole, che, per esempio, senza le elevate capacità logiche necessarie a comprendere la scienza della realtà, deve ripiegare su una visione rappresentativa. Poiché a chi è incapace di scienza la stessa scienza appare una rappresentazione, la smania di sostituire la conoscenza scientifica alle rappresentazioni della religione, oltre a costituire una sinistra premessa del barbarico ateismo di stato, non porterebbe in nessun modo alla scomparsa della manchevolezza.
Per Marx lo stato laico è indice di un’insufficiente emancipazione dell’uomo: se come cittadino dello stato laico è emancipato dalla religione e come individuo entro la società civile ne è ancora irretito, l’uomo deve ancora emanciparsi. La sua emancipazione si configura come contemporanea soppressione dello stato e della società civile, da cui si genera un individuo non più articolato in pubblico e in privato e con il compito di conciliare la volontà generale con la volontà particolare, ma un individuo il cui egoismo è generoso e la cui generosità è egoista, che come l’anima bella, o l’ultimo uomo spenceriano, ha la bontà naturale, l’innocenza del buon selvaggio. Con questo il giovane Marx rifiuta la sintesi reale tra stato e società civile, ossia il fatto che questa sia non solo particolare ma anche universale in quanto è regolata da leggi, e quello sia non solo universale ma anche particolare in quanto stato relativo a un popolo storico, quindi soltanto momento dello spirito universale, e regredisce a una rappresentazione elementare in cui gli opposti sono astrattamente identici. Come si realizzi il sogno di questo individuo che nella sua particolarità è immediatamente universale, è la storia successiva a rivelarlo: è l’incubo del capo carismatico in cui si incarna magicamente la volontà generale delle masse. La storia del comunismo ne pullula.


«Ma il rapporto … dello stato libero con la religione è soltanto il rapporto degli uomini che formano lo stato con la religione … Ne segue … che l’uomo, perfino quando per la mediazione dello stato si proclama ateo, cioè quando proclama ateo lo stato, resta pur sempre irretito nella religione, proprio perché riconosce se stesso solo per una via indiretta, solo tramite un medio … Come Cristo è il mediatore a cui l’uomo accolla tutta la sua divinità, tutto il suo pregiudizio religioso, così lo stato è il mediatore in cui egli sposta tutto il suo ateismo, tutta la sua spregiudicatezza umana».


Lo stato, scrive Marx, è un’alienazione analoga a quella della religione: come l’uomo attraverso Cristo si carica del pregiudizio religioso, così attraverso lo stato acquisisce spregiudicatezza umana. Qui Marx non si avvede che nel primo sillogismo si verifica un’alienazione non perché ci sia un medio, ma per il contenuto dell’estremo, cioè per il pregiudizio religioso a cui l’uomo è connesso; poiché nel secondo sillogismo il medio dello stato lega l’uomo alla sua spregiudicatezza, con il primo esso ha in comune soltanto di essere un sillogismo, non di essere una forma analoga di alienazione. In effetti questo sillogismo significa soltanto che in quanto fa parte di uno stato laico, ogni cittadino, pur essendo devoto a una religione particolare, si obbliga ad essere tollerante nei confronti delle altre religioni. E non si capisce perché mai la tolleranza reciproca debba essere una forma di alienazione rispetto all’ateismo universale, dal momento che l’ateismo universale non rende affatto superflua la tolleranza; la realtà presenta infatti anche diversità irriducibile, e la virtù dell’accettazione della diversità è la tolleranza. Marx si lega qui al principio d’identità, e così resta indietro rispetto al concetto con cui Hegel ha concepito lo stato: non generalità, in cui i differenti sono trattati come identici, ma singolarità, in cui i differenti, nel restare differenti, superano la loro incompatibilità e armonizzano. Che la legge generale si coniughi con il rigoglio della particolarità, è quindi il privilegio dello stato moderno, è quindi la sua verità in senso enfatico. Per Marx è invece il suo difetto:


«L’elevazione politica dell’uomo sulla religione condivide ogni difetto e ogni vantaggio dell’elevazione politica in genere. Lo stato come stato annulla, per esempio, la proprietà privata, l’uomo dichiara soppressa in modo politico la proprietà privata appena sopprime il censo per l’elezione attiva e passiva, come è accaduto in molti stati nord-americani … Eppure con l’annullamento politico della proprietà privata la proprietà privata non solo non è soppressa, ma è addirittura presupposta.


E così per le altre differenze:


«Ben lungi dal sopprimere queste differenze fattuali, lo stato esiste solo con il loro presupposto, si percepisce come stato politico e fa valere la sua universalità solo nel contrasto con questi suoi elementi».


È evidente come Marx lotti contro le sue intenzioni già nell’esprimerle: dice che lo stato fa valere la sua universalità solo nel contrasto con questi suoi elementi, dice cioè che lo stato riporta all’universalità elementi in contrasto – e questo è il concetto speculativo dello stato; poi però riflette solo sul contrasto e trascura il valere; così lo stato torna ad apparirgli come unità illusoria rispetto alla diversità inconciliata della società civile. In realtà la sua stessa frase significa che l’universalità (la legalità) dello stato è valida anche quando entri in contrasto con la società civile, che essa è non una forma illusoria come Marx vorrebbe credere, ma una forza determinante la società civile; lo rivela proprio l’esempio della proprietà privata: questa differisce dal semplice possesso perché questo è un fatto, quella un diritto, cioè una determinazione che, anziché essere in contrasto con l’esistenza dello stato, ne è essenzialmente il riflesso.
La contraddizione di Marx è palese anche in queste due frasi:


«Solo così, oltre gli elementi particolari, si costituisce lo stato come universalità».


«Lo stato politico compiuto è, per sua essenza, la vita universale dell’uomo in contrasto alla sua vita materiale».


Nella prima il rapporto tra lo stato e gli elementi particolari, indicato da oltre, sembra essere di subordinazione; nella seconda la subordinazione diventa un contrasto. Che ci sia subordinazione è evidente: lo stato ha, per esempio, poteri fiscali, monetari, valutari e questi poteri possono anche avere una funzione redistributiva della ricchezza privata, quindi creano l’universalità entro la stessa proprietà privata. Che la subordinazione possa essere considerata un contrasto, esigerebbe dunque un’accurata spiegazione, non dovrebbe ridursi a uno slittamento inavvertito. Già Hegel ha infatti sottolineato che mentre nell’ambito del diritto astratto della personalità e della proprietà al mio diritto corrisponde il dovere altrui e viceversa, cioè che l’unità di diritto e dovere si distribuisce su due persone; che mentre nella moralità al mio dovere dovrebbe corrispondere il mio diritto (la virtù, per Kant, non è garanzia immediata della felicità); l’eticità è il congiungersi di diritto e dovere, dell’intreccio tra il mio interesse particolare e l’interesse generale, di egoismo e altruismo. Poiché è una sfera etica, la società civile non è puro egoismo, come ritiene Marx: l’individuo vi ha l’onore di provvedere a se stesso provvedendo agli altri, è immediatamente egoista e mediatamente altruista; poiché lo stato è ugualmente una sfera etica, non vi è solo altruismo e dovere, ma vi sono entrambi: altruismo ed egoismo, dovere e diritto, in un rapporto inverso a quello della società civile: l’individuo che obbedisce alle leggi è immediatamente altruista; ma la validità delle leggi è condizione della sua volontà particolare; quindi nel realizzare la volontà generale l’individuo realizza mediatamente la sua volontà particolare. Ne risulta che la concezione di una duplicità radicale tra stato e società civile è insostenibile. Marx la esprime così:


«Dove lo stato politico ha raggiunto la sua vera formazione, l’uomo, non solo nel pensiero, nella coscienza, ma nella realtà, nella vita, conduce una vita doppia, celeste e terrena, la vita nella comunità politica in cui si sente come comunità, e la vita nella società civile in cui è attivo come uomo privato, considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a mezzo e diventa burattino di forze estranee».


Qui Marx non si accorge che, se nel considerare l’altro uomo come mezzo l’uomo si degrada a mezzo, la degradazione è soppressa e la simmetria che rende possibile il riconoscimento e la libertà è ripristinata. È ciò che avviene in ogni scambio di prestazioni: se mia moglie cucina, diventa mezzo per il mio pranzo; se lavo i piatti, divento mezzo per il suo riposo; ma così non siamo degradati, semplicemente collaboriamo. Questa collaborazione è il punto in cui la società civile cessa di essere il dispiegamento dell’egoismo e da sola muta nello spirito comunitario proprio dello stato. In questo modo, come vuole Hegel, la società civile è il proprio mutare nella comunità politica. Marx è invece così innamorato dello schema feuerbachiano da non accorgersi della sua inapplicabilità:


«Lo stato politico si rapporta alla società civile nello stesso modo spiritualistico in cui il cielo si rapporto alla terra. Vi sta nello stesso contrasto, la supera nello stesso modo in cui la religione supera la limitatezza del mondo profano, cioè col doverla riconoscere, riprodurre, lasciarsene dominare».


Ciò può senz’altro accadere: lo stato può essere un cattivo stato, può non far valere l’universalità della legge. Ma il problema è che per Marx lo stato cattivo non è un’evenienza: è la natura stessa dello stato di non poter far valere le leggi, perché non domina la società civile, ma vi è in conflitto. L’enormità di queste esagerazioni spinge infine Marx a qualche attenuazione.


«L’emancipazione politica è certamente un grande progresso; ma non è la forma ultima dell’emancipazione umana in generale, è invece la forma ultima dell’emancipazione umana all’interno dell’ordine del mondo finora vigente. Si capisce: qui parliamo di emancipazione effettiva, pratica».


La “forma ultima” di cui Marx favoleggia è un evidente residuo teologico: la storia non ne conosce; così la precisazione finale serve ad allontanare il sospetto che questa “emancipazione umana in generale” sia l’attendismo del messianismo religioso. Ma che essa assuma la forma del messianismo ateo non è un guadagno. È infatti la confusione teorica per cui la subordinazione diventa contrasto a spingere Marx verso la soluzione pratica: il mancato riconoscimento della natura dello stato moderno diviene intolleranza nei confronti del moderno e velleitarismo rivoluzionario.
Secondo Marx, lo stato è in grado di sopprimere il conflitto con la società civile solo nelle fasi rivoluzionarie, nelle quali in verità, più che il contrasto, è la stessa società civile a essere soppressa dal fanatismo della rivoluzione permanente. Il tema della rivoluzione permette a Marx di passare alla trattazione dei diritti dell’uomo. Egli li riconosce come esigenze della società civile e per questo motivo li squalifica. Ma, di nuovo, si impiglia nelle solite inconseguenze.


«Nessuno dei cosiddetti diritti umani supera … l’uomo egoista, l’uomo come membro della società civile, come individuo ritratto su di sé, sul suo interesse e arbitrio privato, e separato dalla comunità. In essi l’uomo non è stato concepito come essere universale, anzi la vita universale stessa, la società, appare come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoista».


Con ciò Marx riconosce che la società borghese non è la guerra di tutti contro tutti, non è lo stato di natura, ma ha un suo legame. Se però ha un legame, essa non è in contrasto con lo stato; dunque non c’è nessun contrasto che debba essere sanato messianicamente. In altri termini, da questa corretta (e ispirata a Hegel) concezione della società civile come mondo dell’egoismo armonizzato esternamente a quella come stato di natura, come bellum omnium contra omnes, c’è un profondo baratro; ma l’intenzione di identificare lo stato alla religione costringe Marx a ignorarlo. Così si trova in grave imbarazzo subito dopo:


«È già enigmatico che un popolo che sta iniziando a liberarsi … proclami solennemente il diritto dell’uomo … egoistico … Questo fatto diventa ancora più enigmatico se consideriamo che la cittadinanza, la comunità politica, è stata degradata dagli emancipatori politici addirittura a semplice mezzo per la conservazione di questi cosiddetti diritti umani».


Marx tenta di risolvere questo enigma con una narrazione storica: gli emancipatori erano condizionati dal dover abolire il feudalesimo, nel quale l’individuo era sussunto dai suoi bisogni particolari nelle corporazioni; la società era un insieme conflittuale di corporazioni che avevano un immediato significato politico, e così lo stesso potere politico aveva un carattere particolare; la rivoluzione eliminò il carattere particolare del potere politico e il carattere politico delle corporazioni particolari.


«Tuttavia il completamento dell’idealismo dello stato fu nel contempo il completamento del materialismo della società civile. Lo scuotimento del giogo politico fu nel contempo lo scuotimento dei legami che tenevano incatenato lo spirito egoistico della società civile. L’emancipazione politica fu nel contempo l’emancipazione della società civile dalla politica, dalla parvenza stessa di un contenuto generale».


Se gli emancipatori hanno sentito come una liberazione questo doppio movimento, evidentemente l’egoismo della società civile, che essi avevano in mente, non è quello cieco del vero stato di natura, ma quello edulcorato dello stato di natura lockiano, quello cioè mediato in realtà dallo stato, dunque un egoismo non egoistico: un egoismo illuminato in quanto rispetta le leggi; il contenuto generale della società civile, che Marx irride come parvenza, benché non posto nell’autocoscienza dei membri della società civile, è presente virtualmente nel loro rispettare le leggi. Sebbene nel loro liberalismo confondano la società civile con lo stato di natura, è questa universalità immanente della società civile, la sua necessità dello stato, e non l’orrore dello stato di natura, che gli emancipatori vogliono sia rispettata dal potere politico. Marx non risolve l’enigma del perché i rivoluzionari abbiano identificato la liberazione con il diritto dell’uomo egoista, e si limita a una narrazione storiografica, perché, come si è visto, condivide lo stesso equivoco degli emancipatori, per quanto ne tragga le conseguenze opposte: se gli emancipatori hanno fatto propria l’identificazione lockiana della società civile con uno stato di natura che hanno reso idillico proiettandone l’orrore sulla monarchia feudale (così come i liberali successivi lo proietteranno sullo stato democratico), se questo li ha spinti a quell’erronea visione conciliata della naturalità umana da cui germina l’illusione che i diritti dell’uomo abbiano realtà al di fuori delle leggi dello stato costituzionale, – da parte sua Marx ha per un verso commesso lo stesso errore: come i liberali, ha identificato la società civile con lo stato di natura; per un altro verso ne ha tratto la conseguenza opposta: ha tenuto fermo l’orrore dello stato di natura così da proiettarlo sulla società civile, e, avendo accusato lo stato costituzionale di impotenza a domarlo, è scivolato nel messianismo ateo.
Come mai gli uomini si sono sentiti liberati creando uno stato con leggi uguali per tutti, che quindi li accomuna in una solidarietà virtualmente illimitata (Rousseau parla di alienazione totale degli individui naturali allo stato), ma sovraordinato a una società civile dominata dagli egoismi? Come mai hanno considerato più libera, dunque più vera, questa forma etica? Evidentemente la libertà, come la verità, implica non soltanto l’universalità, ma la congiunzione di universalità e particolarità. In effetti a questo mira la definizione di verità come adaequatio rei et intellectus. Marx però ha dissolto l’idea speculativa respingendola nella dialettica, ossia ha rifiutato il comporsi di interesse egoistico e spirito solidaristico nello stato, tenendo fermo il dogma del contrasto irriducibile tra diritti e doveri. Egli disprezza la verità già esistente, è dunque costretto a scivolare nel dover-essere, nel sogno di un’immediata identità tra forza sociale e forza politica nell’individuo. Poiché fa di questa identità un risultato di dinamiche storiche necessarie, Marx sorpassa la volontà dell’individuo, cioè arriva all’assurdo di una libertà che non è come essenza della volontà, ma come qualità che questa acquisisce in virtù del futuro contesto sociale. In altri termini: l’individuo egoista della società civile vuole egoisticamente, l’individuo politico vuole universalmente; occorre che l’individuo egoista voglia universalmente. Nella realtà già data, nella verità già esistente, questo accade, per noi, quando l’individuo scorge nella volontà generale la condizione per cui il suo egoismo è soddisfatto: vuole il bene di tutti perché solo così può realizzare il suo bene – questa è la base del contratto sociale di Rousseau. Marx, invece, sorpassa la volontà dell’individuo e immagina, alla maniera positivistica, un individuo futuro in cui l’impulso egoistico è esternamente armonizzato alla legge. È chiaro che questo individuo senza egoismo e senza particolarità è soltanto momento astratto del corpo sociale; in ciò Marx abbandona la modernità e regredisce al totalitarismo dello stato platonico.
Nella seconda parte Marx ritorna sulla questione ebraica per risolverla a suo modo. Contro la proposta di Bauer che resta sul terreno della critica della teologia, Marx propone una soluzione materialistica:


«Un’organizzazione della società che sopprimesse i presupposti del trafficare, dunque la possibilità del trafficare, renderebbe impossibile l’ebreo. Come una nebbia inconsistente, la sua coscienza religiosa si dissolverebbe nel reale vento vitale della società.


Ma di fatto questo materialismo è rifiuto della realtà e fuga nel dover-essere:


«Non appena la società riuscisse a sopprimere l’essenza empirica dell’ebraismo: il trafficare e i suoi presupposti, l’ebreo sarebbe diventato impossibile, perché la sua coscienza non avrebbe più un oggetto, perché la base soggettiva del giudaismo è la versione umana del bisogno pratico, perché il conflitto dell’esistenza sensibile-individuale dell’uomo con la sua esistenza universale è soppresso».


Di fatto Marx non ha alcun motivo di credere alla possibilità di una società che voglia sopprimere l’essenza empirica dell’ebraismo, di una società così diversa dalla società civile reale che vuole la soppressione del trafficare e dei suoi presupposti. Il proletariato, con cui gli scritti successivi identificheranno ciò che qui si chiama società, supera quello che Marx vuole chiamare conflitto tra individualità e universalità finché è classe che si sente in lotta, esattamente come gli individui rinunciano a tutto il proprio egoismo e diventano consapevoli di formare un popolo finché devono fronteggiare una catastrofe; che, a dispetto di ogni rivoluzione permanente o culturale, questo conflitto riaffiori dopo la vittoria rivoluzionaria e che possa essere risolto soltanto attraverso lo stato, è testimoniato dalla storia di ogni rivoluzione.







(Le citazioni dalla “Questione ebraica” sono mie traduzioni fatte sul seguente testo:



6 commenti:

  1. Non condivido praticamente niente di questa ricostruzione. Mi sembra che ossessivamente si ritorni sul tema dello "Stato" e della critica di Marx senza averla compresa veramente. Lo Stato non è sempre esistito, è un fatto storico. Lo stato borghese non ha nulla a che vedere con l'organizzazione sociale dei Sioux. Eppure esistevano regole comunitarie, ruoli, leggi non scritte. Se parliamo in astratto dell'organizzazione sociale e la definiamo "Stato" compiamo un errore.
    E poi non è per niente vero che la critica di Marx esclusivamente quantitativa nei confronti dello schiavismo e del lavoro salariato. Credo che tante critiche si possano fare a Marx, ma proprio questa è davvero bizzarra. A questo proposito consiglio un bel libro di Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx. Se il feticcio è centrale nella critica dell'economia politica, se qualcuno parla del capitale come feticcio automatico, non si comprende davvero come la critica sia "quantitativa". Il fatto di chiamare l'opera Das Kapital dovrebbe mettere sulla pista giusta, cioè la descrizione di un soggetto impersonale che domina l'esistenza umana, alle cui leggi siamo assoggettati senza nemmeno rendercene conto.
    Ci sono spunti interessanti sul rapporto tra Marx e Hegel. C'è una parte di critici che considera l'analisi tra i due pensatori mal posta. Secondo questo filone, Marx non si può definire né hegeliano né non hegeliano. Solo che il mondo che descrive Hegel è quello vero, autentico, secondo Marx. Il mondo del dominio dell'astratto sul concreto. E la descrizione di questo mondo, secondo Marx, è stata fatta alla perfezione da Hegel. Ma è proprio il mondo da ribaltare, questo è il punto.

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  2. L'ossessione ha un motivo ben preciso. I "sonnambuli" (per usare il termine di Badiale e Tringali) della sinistra confondono da vent'anni Unione Europea e internazionalismo socialista; questa confusione deriva, a mio avviso, non da ultimo dal rifiuto del valore dello stato - qualunque esso sia - presente in tutti gli scritti marxiani, trapelato dunque nella tradizione di sinistra, per quanto poco questa abbia letto Marx. Ma noi, oggi, come possiamo salvarci senza difendere la costituzione? Come possiamo difendere la costituzione se continuiamo a nutrire il sovrano disprezzo che Marx ha sempre nutrito per lo stato?
    Se ben capisco, secondo Francesco la critica di Marx allo stato sarebbe che non è una realtà eterna, ma un fatto storico. Ma questa non sarebbe una critica. Marx accusa invece lo stato (dovrebbe essere chiaro anche dalle citazioni nel mio articolo) di essere una sfera di uguaglianza e libertà soltanto illusorie (quanto quella della religione) e incapace (come la religione) di incidere sulla società civile uguagliata a stato di natura. Temo che, inconsapevolmente impregnati di questa accusa, ci siamo lasciati sfilare, quasi senza accorgercene, la sovranità, la costituzione, lo statuto dei lavoratori, la sanità pubblica, la scuola pubblica e così via.
    Quanto al secondo punto, c'è un fraintendimento. Io distinguo tra schiavismo e lavoro salariato: mentre lo schiavismo fa dell'uomo un non-uomo, e questo è uno sfruttamento che implica una differenza qualitativa, il lavoro salariato di per sé non implica la degradazione del lavoratore a cosa: la può implicare nel senso che lo sfruttamento può arrivare al limite oltre il quale la personalità del lavoratore è lesa, ma non la implica necessariamente. Ne deduco che il capitalismo non è in sé e per sé degradante: lo è il capitalismo liberale che riduce i lavoratori a bestie da soma, non lo è quando le retribuzioni, i tempi e i modi del lavoro rispettano le persone. L'inumanità del capitalismo risulta insomma non dal fatto che i lavoratori vendano la loro forza lavoro, ma dall'eventualità che il capitalista ne abusi, cioè, nella terminologia dell'articolo, non da un fatto qualitativo, ma da un fatto quantitativo.

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  3. Caro Paolo Di Remigio, quello che scrivi conferma in pieno quello che penso. Io, come tanti altri, non penso affatto che l'Unione Europea corrisponda all'internazionalismo socialista. Per niente. Credo invece che sia stata costruita come una gabbia funzionale agli interessi imperialistici della Germania e agli interessi del capitale finanziario.
    Nello stesso tempo però sono molto perplesso su questa tendenza ricorrente di riacciuffare la sovranità nazionale. Io non ragiono così. Io ragiono in termini di conflitti di classe e la vicenda della Grecia per me ne è la dimostrazione: un'oligarchia storica (al cui apice ci sono gli armatori), un paese abbandonato a se stesso, i diritti dei lavoratori calpestati. E' questa oligarchia che ha portato la Grecia dentro la moneta unica, infischiandosene dei lavoratori e dei loro diritti. Per non parlare di evasione fiscale.
    Il discorso sullo Stato, così come è impostato, è inaccettabile dal mio punto di vista. Dovremmo essere abituati al pensiero critico, a comprendere che cos'è lo Stato (anche quello italiano), quali sono gli apparati, come funziona. La storia dello stato italiano, dal dopoguerra in poi, non è quella meraviglia a cui tendere nostalgicamente. Non mi pare per niente. Giusto per citare un fatto, le stragi di stato cominciarono nel 1° maggio del 1947, con la strage di Portella della Ginestra. Dieci giorni dopo la vittoria del fronte popolare nelle elezioni regionali siciliane. Possiamo dire che quella fu l'impronta che diede lo Stato Italiano, il marchio di fabbrica. Per il resto, non mi dilungo, sappiamo tutti di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, dell'Italicus, della stazione di Bologna, di Ustica, di Falcone, di Borsellino.
    Che questo stato non abbia assolto il compito di classe, di gestione del capitalismo italiano, non mi pare che si possa affermare.
    In ultimo, sulla questione degli schiavi, ritengo utile andare a rivedere la storia della guerra di secessione americana. Il nord non chiedeva l'abolizione dello schiavismo per un fatto umanitario, spero che non crediamo a questa favoletta. Il lavoro salariato è incopatibile con lo schiavismo, per il semplice fatto che lo schiavo è proprietà privata del padrone. E invece servivano persone "libere". Libere di essere sfruttate nelle fabbriche e di essere mandate via quando non servivano più.
    Ti assicuro che visitare le fabbriche di Detroit è sconvolgente. Appena entri, una lunghissima linea di montaggio composta esclusivamente da donne nere. Qualcosa vorrà dire, o no?
    Che poi il capitalismo non sia sfruttamento ma è solo quello liberale che lo è mi sembra una boutade, scusami se te lo dico. Ma allora, del pensiero economico, non solo di Marx ma anche di Smith e di Ricardo, cosa ne facciamo? Polpette?

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  4. Caro Francesco, all'ottavo rigo del tuo commento leggo "i diritti dei lavoratori calpestati", una frase che implica 1) che i lavoratori abbiano diritti - non è una banalità perché nello schiavismo i lavoratori non hanno diritti; 2) che ci sia uno stato che IN GENERE tuteli questi come gli altri diritti; 3) che lo stato in QUEI casi abbia omesso di farlo. Nel resto del commento, invece, lo stato appare SOLTANTO come un apparato per organizzare complotti e stragi. A mio avviso questo secondo punto di vista, quello che chiami "pensiero critico", è in contrasto con l'idea dei diritti dei lavoratori e soprattutto è parziale: si può seriamente sostenere che lo stato italiano sia stato SOLTANTO un complotto ai danni della maggioranza della popolazione? Non è più realistico pensare che al suo interno ci siano stati apparati deviati (da potenze straniere - e questo ripropone il tema della sovranità) che si siano macchiati di gravi reati (cioè abbiano infranto specifiche leggi dello stato)?
    Lo stesso contrasto ritorna quando scrivi "libere" tra virgolette. Riconosco che è il punto di vista autenticamente marxiano, ma è un punto di vista che contiene questo problema: disprezza la libertà già PRESENTE, per quanto parziale, per quanto a volte calpestata, e rimanda a una libertà FUTURA; in altri termini, diventa IDEALISTA a forza di MATERIALISMO. Marx è senz'altro perdonabile: aveva davanti agli occhi il capitalismo liberale dell'Ottocento (quello a cui stiamo tornando) e non aveva visto la collettivizzazione dell'agricoltura nella Russia di Stalin, o il Grande Balzo di Mao, oppure il Super Grande Balzo di Pol Pot; quindi era poco sensibile ai pericoli del rifiuto integrale del presente. Ma NOI, che sappiamo queste cose, non possiamo attenerci più al suo disprezzo per la "libertà" e alla sua ansia per il futuro.
    Quanto alla "boutade": NON ho scritto che il capitalismo non sia "sfruttamento", ho scritto che il capitalismo non è "in sé e per sé degradante", spiegando che non la vendita, ma l'abuso, della forza lavoro comporta la disumanizzazione del venditore, ossia la sua riduzione in schiavitù.

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  5. Provo a replicare ancora una volta, vediamo se riesco ad essere più efficace.
    1) Non penso affatto che l'abolizione dello schiavismo sia stato un fatto irrilevante. Per niente. E' stato rilevantissimo, ci mancherebbe.
    2) Non penso però che dobbiamo cadere nell'inganno di pensare che, dato che i lavoratori siano liberi, lo siano fino in fondo. Non è così. Se non ho altra alternativa per sopravvivere, sarò costretto, anche se non mi piace, a vendere la mia forza-lavoro. E la costrizione è l'opposto della libertà. Non è un caso che negli USA non ci sia uno stato sociale come quello della tradizione europea (oramai in disarmo). Perchè agli ex schaivi non volevano dare tutti i diritti, solo alcuni, quelli indispensabili. Ti assicuro che visitare gli Stati Uniti è molto istruttivo.
    3) Ancora sullo Stato. I diritti, anche sanciti da leggi dello stato, sono stati conquistati con la lotta, non discendono automaticamente dall'esistenza di un'entità chiamata Stato. Lo Stato, così come lo conosciamo, nasce dopo la rivoluzione francese, non è a-storico, non è sempre esistito.
    4) Ancora stato. Credo che ci si confonda spesso tra organizzazione sociale e stato. Che occorra un'organizzazione sociale non ho dubbi. Che si definiscano le regole condivise. Questa organizzazione, chiamata Stato Moderno, è una particolare organizzazione sociale, che rispecchia le condizioni storiche in cui ci troviamo.
    5) Che lo stato italiano abbia una lunga storia, non certamente costellata di episodi edificanti, mi pare che non ci siano dubbi. Se vogliamo, possiamo risalire all'Unità d'Italia e al modo barbaro con cui fu realizzata (anschluss, annessione guidata da potenze imperialiste straniere come Inghilterra e Francia).
    6) Per finire, che le condizioni non siano mai pure, cioè che lo stato rappresenti esclusivamente il modo di funzionamento del capitale, questo mi sembra un fatto evidente. Che la costituzione rappresenti anche alcuni diritti dei lavoratori, mi sembra evidente. Ma è altrettanto evidente che fu il frutto di una guerra partigiana.
    7) Che si parli di libertà FUTURA sacrificando quella conquistabile oggi è una posizione che non mi appartiene. Per Marx il comunismo era il movimento per il cambiamento reale delle cose, non era lo STATO stalinista né, tanto meno, quello cinese. Comunque la si pensi, sacrificare il presente in vista della Città Futura non è il mio pensiero.
    8) La teoria del valore. Purtroppo questo punto richiederebbe molto più spazio. Dico solamente che per Marx (ma anche per me) il valore (che poi si rappresenta nel denaro) deriva dal lavoro umano. Questo è un punto essenziale. Da lavoro umano "socialmente necessario", non direttamente il tempo di lavoro. Se non si afferra questo concetto, i discorsi che facciamo girano a vuoto. Viviamo dentro un feticcio. Con i suoi meccanismi che sono occulti ai protagonisti. Che piaccia o non piaccia un mondo fatto così, questo fa parte delle libere scelte e dei gusti personali. Però, comprendere come funziona è importante.

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