martedì 18 maggio 2021

L'insegnamento delle lingue (P.Di Remigio, F. Di Biase)

Un intervento degli amici Paolo Di Remigio e Fausto Di Biase (M.B.)



L’insegnamento delle lingue nella scuola divenuta servizio sociale


1.  Le trasformazioni imposte alla scuola pubblica nell’ultimo quarto di secolo, facendone un servizio sociale e un apparato di propaganda ideologica, l’hanno separata dalla libera scienza.

2. La libera scienza ha un legame essenziale con i libri. ‒ Platone, l’unico pensatore antico di cui ci è pervenuta tutta l’opera, ha contestato la loro utilità. Per lui la scienza si conserva e si sviluppa soltanto nella memoria vivente e nella trasmissione diretta dal maestro al discepolo. Per quanto insensibile agli effetti della scrittura sull’oralità, la sua critica ha il merito di distruggere una volta per tutte l’illusione che il supporto possa sostituire lo spirito, che chi impara possa fare a meno della memoria e dell’insegnamento. In ogni caso, per noi moderni scienza e cultura sono indissolubilmente legate al libro. Le religioni monoteiste sono basate sul libro per eccellenza: leggerlo e commentarlo sono momenti essenziali del culto e costituiscono il fondamento su cui sono innalzate le cattedrali della teologia. Né il mondo moderno ha rifiutato i libri, anzi ha preso avvio dall’anelito filologico a far rinascere a nuova vita gli antichi testi, in cui intravvedeva non solo la bellezza, ma anche il fondamento della libera scienza: è l’umanesimo che, conservato nei collegi gesuiti, ha trasmesso al mondo moderno l’imperativo di sollevarsi all’altezza del mondo classico. Così da secoli nell’odio del libro si rivela soltanto la rozzezza che è a suo agio con la pratica servile e la violenza.

3.    Verba volant scripta manent. Legata al qui e ora dell’interlocuzione tra individui viventi, la parola detta è tanto evanescente quanto irrevocabile: udita, non può più essere cancellata, ma solo modificata da altre parole. La permanenza della scrittura è invece connessa alla possibilità di ponderarla e correggerla all'infinito. Poiché è lontana dal gesto e nasce dalla riflessione, la scrittura estende l’universalità del linguaggio: ha per destinatario virtuale l’umanità intera, quella contemporanea e quella futura. Quando superano la critica che ogni generazione esercita sull'altra, i discorsi scritti formano il patrimonio comune di verità per cui l’uomo progredisce non nel senso darwiniano di eliminare i meno adatti, ma nel senso lamarckiano di rendere le acquisizioni degli eccellenti inizi di nuove acquisizioni. Odia i libri chi crede che l’umanità sia ancora nella barbarie preistorica e debba cominciare da lui.

4.    Mentre non possiamo non udire, il discorso scritto si manifesta soltanto alla buona volontà. Privo della melodia della lingua parlata, il suono gli è dato dal lettore. Non solo è muto, è anche sordo: gli si confanno il silenzio e, più dell’incalzare delle domande, l’attesa che in qualche suo punto ci sia già la risposta. La scrittura compensa la generosità del lettore colmando l’oralità di ricchezza lessicale, di determinatezza fonetica e semantica, di articolazione sintattica ‒ smorzando l’animosità della polemica con la pacatezza dell’attenzione, l’incalzare dell’eloquenza con la cogenza logica, la veemenza del tono con la profondità degli argomenti.

5.    Si può affrontare il senso di inferiorità che l’analfabeta sente di fronte al letterato riconoscendone la fondatezza e provvedendo all’alfabetizzazione universale. È questo, e solo questo, il senso della scuola pubblica. Ma si può anche credere che quel senso di inferiorità sia l’effetto del mondo dilaniato da un contrasto inconciliabile che non può essere domato con il dialogo, ma va deciso con lo scontro. Il fanatismo dell’inconciliabilità radicale si traduce in due programmi opposti: voler mantenere l’inferiore nella sua inferiorità concependola come naturale (razzismo), oppure pretendere che l’inferiore sia superiore (Rousseau), che la spontaneità sia migliore dell’abilità, il gesto migliore del discorso, l’immagine migliore della scrittura, l’uguaglianza migliore dell’eccellenza (chiameremo questo atteggiamento primitivismo). La scrittura è spacciata in entrambi i casi.

6.    Il Novecento è stato il secolo del primitivismo, nell’arte (Dada, Surrealismo, Futurismo – le avanguardie ‒ le forme più estreme) e in politica. Dalla sua prospettiva l’intellettuale è apparso un colpevole che poteva redimersi solo come propagandista degli sterminatori. I nazisti hanno bruciato i libri; i sovietici li hanno solo sequestrati ma, in compenso, nella loro ansia palingenetica, hanno eliminato poeti, filosofi e scienziati, perfino gli ingegneri; la rivoluzione cinese ha scatenato gli allievi contro i maestri, ha disperso quelli nell’esperienza diretta, ha aggiornato questi nei campi di rieducazione. Poiché dopo il 1992 i poteri forti hanno aperto i palazzi di governo agli abusivi impregnati di stalinismo o maoismo, il primitivismo continua ad avvelenare le nostre scuole.

7.    Incapace di padroneggiare la pulsione a menare le mani e a gridare, il primitivismo soffre all’idea di addestrarle ai movimenti minuti e leggeri che disegnano le lettere sul foglio e all’idea di dare voce ai discorsi altrui. Odia la scuola che è legata al mondo raccolto della scrittura. Nutre nostalgia per il mondo analfabeta, quando l’istruzione era data immediatamente nella vicinanza tra piccoli e grandi, e si ribella all’artificialità, come se l’artificialità non fosse un’espressione essenziale della libertà dell’uomo. Cerca, se non addirittura di eliminarla, di sostituirla con metodi più vicini alla spontaneità, ma proprio per questo meno efficaci e tali da ingenerare disturbi.

8.    Nulla più dello studio delle lingue classiche ha sempre suscitato l’odio primitivista ‒ un odio ugualitario che mira a ridistribuire non solo l’altrui ricchezza, ma anche la propria miseria. ‒ Perché studiare le lingue che nessuno più parla, le lingue morte? – chiede, sicuro dell’impossibilità di una risposta determinata. Ebbene, ci sono due precise ragioni. La prima: poiché per noi sono lingue soltanto scritte, lingue senza suono che chiedono la nostra voce, lingue senza udito che chiedono il nostro silenzio, il latino e il greco, e solo essi, insegnano l’ineludibilità dei libri per la libera scienza. Fare silenzio e prestare la voce alla scrittura è il lavoro di traduzione con cui la modernità si è aperta la via filologica alla severità della libera scienza e della bellezza. ‒ La seconda: come il vivente nel morire lascia la sua parte eterna nella sua progenie, così il greco e il latino, e solo essi, si sono conservati come lingue dotte, che alimentano il lessico e la sintassi della libera scienza e ne sono quindi il presupposto.

9.    Nell’insensato conformarsi a una formazione professionale resa ogni volta anacronistica dalla rapidità evolutiva delle tecnologie, nel ridursi a servizio sociale e ad apparato ideologico, la scuola attuale rifiuta la scrittura, la libera scienza e la bellezza. Nascondendo il suo primitivismo dietro il culto futuristico del cambiamento e della tecnologia, essa vuole sostituirle con forme di comunicazione di cui presume l’immediata disponibilità, ignorando che di fatto esse implicano una maggiore padronanza della scrittura. Scrivere un messaggio decente su WhatsApp implica la conoscenza del latino. Il primitivismo vuole però raggiungere l’abilità applicativa senza studio della disciplina, la competenza linguistica senza conoscenza grammaticale; obbedendo all’impazienza della mentalità pratica, preme sulla scuola perché si affretti verso il risultato spendibile senza avere indugiato sulle premesse.

10.  Così i suoi alunni sono privati di tutto. È una constatazione amara, ma vera, che la maggior parte di essi non sa tenere la penna in mano e non padroneggia la lingua scritta, così da rapportarsi alla lingua orale come a un dialetto infarcito di immagini. È questa regressione dalla parola all’immagine ad effetto che comporta la proliferazione delle parole inglesi. Per la precarietà del loro rapporto con l’oralità, gli inglesismi sono immagini scintillanti e incantatrici, ma senza profondità espressiva, perché chi li usa non è consapevole della loro etimologia, né delle associazioni fonetiche, né dei legami logici alle altre parole, e finisce per parlare un gergo che non è italiano e non è inglese. Così si crea una generazione separata sia dai tesori culturali della lingua italiana sia da quelli della lingua inglese, perché non conosce né la prima né la seconda.

11.  Gli insegnanti che meglio si accorgono del disastro della scuola non sono quelli di italiano, che vincolati dall’imperativo dell’inclusione perdonano l’inesistenza della forma fingendo le virtù del contenuto, ma quelli che devono presupporre la padronanza dell’italiano. Così gli insegnanti di matematica osservano spesso che gli alunni non sanno risolvere i problemi perché non ne capiscono il testo, cioè perché non sanno leggere; gli insegnanti di lingua straniera osservano che, ignorando la grammatica italiana, gli alunni non capiscono la grammatica implicita nelle espressioni straniere e vi trasferiscono quella implicita nella propria lingua: poiché non hanno una conoscenza riflessa dell’italiano, poiché non lo hanno mai considerato come oggetto, ma sempre solo usato come mezzo di comunicazione, non riescono a staccarsene e apprendono la lingua straniera a metà.

12.  Così l’apprendimento della lingua straniera è il campo in cui meglio si mostra il fallimento della scuola ridotta a servizio sociale con appendice ideologica. Essendo divenuta il paese dei balocchi e avendo ridotto gli insegnanti a psicologi e animatori, rifiuta la calligrafia, la scrittura e la lettura, come se fossero delle superstizioni. Le si richiede nondimeno che gli alunni, non conoscano, ma mastichino l’inglese, ovviamente non come espressione spirituale dei popoli che lo parlano, ma come un esperanto globale, un po’ come quello che era il latino nel medioevo ‒ con la differenza che il latino medievale era comunque una lingua dotta, l’inglese attuale può essere imparato come se fosse soltanto una lingua da bar.

13.  A dispetto dell’enfasi propria di ogni documento governativo, lo stato dell’insegnamento dell’inglese è il compimento degli slogan sessantottini: la fantasia al potere che nel suo realismo vuole l’impossibile. Ci sono cinque modi diversi di accedere a quest’insegnamento nelle elementari, dei quali solo uno, quello più improbabile, dà garanzia di una didattica efficace: a) aver conseguito la laurea in lingue avendo superato tre esami di lingua e letteratura inglese; b) essere laureati in scienze della formazione primaria e aver superato un esame di lingua inglese; c) aver superato la prova di inglese al concorso ordinario o riservato; d) essere stati cinque anni all’estero, e infine ‒ si badi bene ‒ e) aver frequentato un corso di formazione linguistica in servizio (il testo da cui cito aggiunge metodologica dopo linguistica, perché fa chic). I burocrati che lasciano proliferare questa selva oscura di possibilità devono pensare: «Perché sottilizzare sui requisiti degli insegnanti? Hanno a che fare con bambini. Basterà qualche frasetta, qualche canzoncina!». Costoro ignorano che qualunque frasetta presuppone il possesso dell’intera lingua, che l’estraneità a questa porta a storpiare quella ‒ che è meglio, molto meglio, nulla della storpiatura. Si può così verificare che a un insegnante magari capace ed esperto, ma affatto digiuno dell’inglese, sia imposto a quarant’anni suonati di fare un corso di formazione di 50 ore, alla fine del quale comprometterà la sua dignità professionale insegnando ciò che ignora ‒ come se si spostasse all’improvviso un ortopedico in cardiologia.

14.  Nelle scuole medie di nuovo il caos. A dispetto dell’enfasi dei burocrati del ministero, le ore assegnate all’inglese non sono aumentate: erano e restano 3, del tutto insufficienti a raggiungere obiettivi effettivi; né sono previsti lettori madrelingua che esercitino gli alunni alla conversazione. Anziché aumentare le ore e i mezzi degli insegnanti di inglese, qui come altrove il burocrate, che si sente vivo solo innovando e schifa le discipline, cerca di fare della lingua inglese un ambiente di apprendimento. È così che essa deborda dalle sue poche ore e si riversa sulle altre discipline.

15.  Effetto dell’esondazione è il CLIL, cioè lo studio in lingua inglese di un’altra disciplina (filosofia, storia, matematica...). Il metodo è nato ed è applicato nelle regioni caratterizzate dalla coabitazione di più lingue, in cui il fenomeno del bilinguismo è dunque molto diffuso. Qualcosa di simile si verifica nel nostro Alto-Adige, oppure nel Québec in Canada, o in Svizzera. Ma l’Alto Adige è un’eccezione in Italia; per il resto essa è isolata dai mari e dalle Alpi. Ne segue che quasi tutti gli insegnanti parlano solo l’italiano e non c’è chi sia in grado di insegnare la sua materia in lingua straniera. D’altra parte, non si capisce come il ceto dirigente possa esigere un simile livello di prestazione dagli insegnanti tra i più umiliati e malpagati d’Europa.

16.  Nell’impossibilità di attuare il CLIL autentico, la fantasia dei burocrati della scuola italiana chiama CLIL ciò che CLIL non è: l’abbinamento di un insegnante di una disciplina, che non parla inglese, con un insegnante di inglese che non conosce la disciplina. Il risultato della doppia ignoranza è a) una pubblica umiliazione per gli insegnanti, spinti in una situazione che richiede da loro ciò che non si poteva e doveva richiedere e che mostra le insufficienze della loro preparazione, b) una perdita per gli alunni cui è sottratta una disciplina senza nulla in cambio. Questa doppia sconfitta è però un vantaggio per il primitivismo dei burocrati al potere, che vorrebbero eliminare tutte le discipline e che sono a loro agio solo nel cambiamento continuo, dunque nelle riforme impossibili. A testimonianza della confusione dei tempi, c’è da osservare che, nonostante celi un equivoco e un fallimento, l’acronimo CLIL ha però avuto fortuna e diversi istituti hanno costituito intere sezioni che propongono queste deprimenti accoppiate addirittura a pagamento.

17.  La situazione è dunque questa. La scuola pubblica è ora un servizio sociale, certo inclusivo, ma senza finalità di istruzione; gli insegnanti non devono insegnare ma limitarsi ad animare, gli alunni sono esentati dal lavoro personale di apprendimento, dal peso dei libri, dai compiti domestici. Ma una lingua straniera, più di ogni altra disciplina, implica l’esercitazione personale intensiva (practice) già per imparare la semplice pronuncia: l’apparato fonatorio è uno strumento con una sua meccanica, il cui addestramento ai fonemi stranieri non può essere sostituito da nessun miracolo didattico – ancora più per imparare il lessico e la sintassi. L’apprendimento dell’inglese è dunque impossibile nella scuola pubblica. D’altra parte, la mente colonizzata del ceto dirigente concepisce l’italiano come un dialetto e l’inglese come la lingua. Ne segue che la riduzione ad ambiente di apprendimento della scuola pubblica assume un senso particolare: essa si limita a fare da tramite ad enti privati che, a pagamento, per un verso offrono corsi, per l’altro organizzano prove e rilasciano certificazioni. Più di ogni altro fenomeno, queste certificazioni sono la sentenza di condanna della scuola come servizio sociale: richiederle contiene l’implicito riconoscimento che il diploma rilasciato dalla scuola non attesta il raggiungimento di nessuna conoscenza o competenza, ma è ormai un semplice certificato di frequenza, e che i consigli di classe non sono credibili né i loro voti hanno verità.

18.  In questo modo si conferma come l’ideologia ugualitaria, a cui la nuova scuola è piegata dal suo principio di inclusione, si incastri perfettamente con lo spirito mercantile: ben lungi dal promuovere i meritevoli anche se sprovvisti di mezzi, la scuola pubblica sacrifica gli obiettivi cognitivi al principio dell’uguaglianza; chi voglia raggiungerli è costretto a rivolgersi ai privati.


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