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mercoledì 22 aprile 2015

Invito all'esodo/2

Questa è la seconda parte di "Invito all'esodo". La prima parte è il post precedente, pubblicato sabato 18 aprile. Gli autori sono Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Federico Dinucci.
(M.B.)




II.

1. La “sussunzione reale” dell’essere umano. La nostra analisi critica non può però fermarsi qui. La critica ai ceti politici di destra e di sinistra che attualmente si contendono il potere, l’invito a rompere i legami con destra e sinistra sono posizioni che giudichiamo assolutamente necessarie, ma non ancora sufficienti. L’analisi critica che abbiamo svolto nelle pagine precedenti non coglie infatti un aspetto profondo e decisivo del capitalismo contemporaneo. Si tratta del fatto che la logica del capitale è ormai penetrata in profondità nella costituzione stessa degli individui. Il capitalismo, inteso come modo di produzione, è un sistema di relazioni sociali che nella sua progressione storica tende a imporsi come l’elemento dominante dell’organizzazione sociale, il punto focale di ogni attività, il presupposto non discusso di ogni azione. Il profitto tende a diventare il fine rispetto al quale l’intera vita sociale e la stessa natura appaiono come mezzi. Per usare il linguaggio marxiano, il capitale come plusvalore che si valorizza “sussume a sé” natura e società. Ora, il marxismo storico ha avuto sufficientemente chiaro l’andamento di questo processo nei confronti del lavoro produttivo. Le analisi di Marx e dei migliori fra i suoi epigoni sulla “sussunzione reale” del lavoro al capitale restano nella sostanza corrette. Il fenomeno divenuto decisivo in questi ultimi decenni sembra a noi costituito dall’estendersi di questa “sussunzione” al di fuori del rapporto di lavoro: all’intera società, alla natura, al modo di essere personale degli esseri umani. Se questo è vero, è chiaro allora che al di fuori di una resistenza d’insieme a tutte queste forme nelle quali il capitale “sussume a sé”, piega alle proprie finalità, l’intero mondo, non si dà alcun orizzonte anticapitalistico. Occorre cioè comprendere che il capitalismo si autoriproduce non soltanto attraverso la politica economica delle sue imprese, e neppure soltanto attraverso la divisione sociale e tecnica del lavoro che innesca, bensì anche, in maniera essenziale, attraverso l’operare apparentemente autonomo di elementi antropologici e di forze ambientali su cui ha impresso in profondità il suo sigillo. Il capitalismo non è una “gabbia d’acciaio” che imprigioni individui lasciati sussistere tali e quali, e che si tratterebbe solo di liberare. Il capitalismo è una logica complessiva dei rapporti sociali che, appunto perché complessiva, agisce in profondità sulle dinamiche personali degli esseri umani, plasmando psicologie e rapporti umani. Nello stesso tempo questa azione profonda non è mai completa e assoluta perché, a differenza di quanto credono Marx e i marxisti, l’essere umano non è l’insieme dei rapporti sociali: l’introiezione della logica del capitale nelle psicologie degli individui presuppone comunque una soggettività, una scelta, e perciò stesso non può mai escludere del tutto la possibilità della scelta opposta, e quindi della resistenza. Soltanto l’attivazione di questo tipo di resistenza apre uno spazio, difficilissimo ma non illusorio, di anticapitalismo. L’anticapitalismo non può quindi esistere se non sulla base di un modo di essere personale capace di resistere in qualche forma, sia pur limitata, a quelle logiche che impongono una psicologia degli individui basata sulla competizione, sulla riduzione dei rapporti personali alla forma del “contratto”, sull’isolamento degli individui che non sanno più comunicare se non nei termini della “contrapposizione commisurante” (per usare un linguaggio heideggeriano). Queste logiche dei rapporti personali sono appunto quelle che traducono in termini di motivazioni individuali l’impersonale dinamica sistemica dell’accumulazione senza fine di plusvalore. Allo stesso modo, l’anticapitalismo deve saper combattere contro quelle ideologie spontanee che trasformano, in modo irriflesso, le necessità del capitale in assiomi del senso comune. 



2. Ideologie spontanee nel capitalismo. Facciamo qualche esempio di cosa sia oggi il “senso comune del capitalismo”. Il capitalismo, in quanto dominato da una logica di crescita quantitativa, non ha né può avere limiti; tende, e non può non farlo, a sfruttare ogni ambito della vita sottomettendolo all’imperativo della valorizzazione. Non può quindi ammettere che culture, morali, religioni tradizionali sottraggano qualche aspetto della vita umana alla mercificazione, e deve quindi dissolvere tutti quegli aspetti delle culture tradizionali che potrebbero appunto porre dei limiti alla sua espansione quantitativa.

Ma tali limiti non vengono solo dalle culture a base religiosa o comunque di tipo autoritario e gerarchico. Tali limiti vengono anche posti all’interno della tradizione, tipica della filosofia occidentale, di una razionalità dialogica che non impone autoritariamente una norma all’altro, ma chiede la disponibilità ad una ricerca comune (sul bene e sul male, sul giusto e l’ingiusto) e all’assunzione di responsabilità rispetto alle conclusioni cui tale ricerca arriva. Entro tale tradizione è stata elaborata razionalmente una visione del mondo che contrasta in tutto e per tutto con l’idea che sia un bene per l’essere umano la dominanza totale di una logica di espansione illimitata della merce, qual è quella del capitalismo contemporaneo. E’ chiaro allora che il dominio materiale e ideale del capitalismo deve portare alla critica di tale tradizione culturale. Per essere più precisi, deve portare a una temperie culturale nella quale i principi basilari di tale tradizione appaiano sbagliati, assurdi, incomprensibili. Il meccanismo ideologico per l’annullamento dei valori della tradizione filosofica dell’Occidente è quello della riduzione della razionalità a razionalità strumentale, in modo che alla ragione viene sottratta ogni possibilità di indagine normativa sui fini delle azioni umane, sul giusto e l’ingiusto, ed essa è così confinata all’esame dei mezzi migliori per raggiungere fini arbitrariamente scelti. Si tratta della razionalità teorizzata da Weber e analizzata dalla Scuola di Francoforte. Una ragione che non può più occuparsi dei fini delle azioni umane, che non può più riferirsi a norme universali elaborate in un dialogo ordinato nell’orizzonte di una verità umana mai compiutamente raggiunta ma tuttavia capace di indirizzare la ricerca, è una ragione che non può più opporre nessun ostacolo al dilagare della mercificazione universale.

Se questa è la torsione che la realtà contemporanea impone alla ragione, possiamo ora analizzare il tipo di storture impresse al mondo dei desideri e della pulsionalità. E’ evidente come le pulsioni e i desideri umani siano deviati, nel mondo contemporaneo, verso l’avere piuttosto che verso l’essere (per usare la celebre formula di E.Fromm) e come, allo stesso tempo, essi siano amplificati oltre ogni misura. Si tratta qui naturalmente del fatto che la massa di valore continuamente crescente, creata nel processo produttivo, deve poi essere realizzata sul mercato, per non bloccare il processo di accumulazione. Le merci devono trovare acquirenti. Gli individui devono quindi essere indotti ad abbandonare ogni restrizione alla continua acquisizione di beni, e devono essere indotti a vivere le proprie pulsioni e i propri desideri solo come desideri di merci (materiali e immateriali) da acquisire sul mercato, e mai, per esempio, come desideri di relazioni umane più profonde, di comunicazioni più autentiche, di riflessioni intellettuali orientate alla verità.

Cosa risulta dalla somma di queste considerazioni? Risulta che l’essere umano come viene formato dai meccanismi automatici del capitalismo contemporaneo è un essere umano che ha rinunciato all’idea di una ragione che si sforza di arrivare a verità morali universali, e che quindi crede a una pluralità di morali fra le quali ciascuno sceglie secondo il proprio arbitrio; che ritiene ogni passione o desiderio moralmente indifferente, accettando l’idea che essi siano regolati in sostanza dal mercato; che può anche avere valori e ideali, purché sia chiaro che si tratta di scelte arbitrarie sulle quali non è possibile un dialogo razionale. Un individuo che tenderà a regolare i propri rapporti umani nella forma di contrattazioni, che risulterà molto razionale e molto abile nelle situazioni in cui l’abilità richiesta è quella necessaria ad adattarsi alle richieste del meccanismo sociale e a sfruttare le occasioni di carriera personale che esso permette. Questo individuo tollerante, ironico, che vive le proprie emozioni come evenienze staccate dal resto della propria personalità e da ogni riflessione razionale, e la propria razionalità come semplice ricerca dei mezzi migliori per fini arbitrari, è esattamente, ci sembra, il tipo umano dominante nelle nostre società occidentali, e la sua visione del mondo è quel relativismo culturale politicamente corretto che ci appare la vera ideologia del capitalismo contemporaneo. È chiaro che non c’è a questo livello nessuna distinzione fra destra e sinistra: questo tipo umano può essere indifferentemente un elettore di Berlusconi o di D’Alema, di Casini o di Rutelli. È proprio questa profonda unità antropologica la base dell’indistinzione politica fra destra e sinistra: è perché esprimono gli stessi tipi umani che destra e sinistra esprimono anche, in sostanza, le stesse politiche.

Dovrebbe ora risultare chiaro come per noi la teoria anticapitalistica abbia bisogno urgente, per non rimanere fasulla, di venire articolata ben al di là di una raffigurazione riduttiva del modo di produzione. Non c’è neppure una reale teoria del modo di produzione capitalistico senza far luce su come la sua dinamica autoriproduttiva determini particolari strutture di essere personale e ne tragga impulso. Occorre capire, per fare ancora un esempio, che chi riduce la realtà umana alla sola dimensione della prassi empirica, e ne ignora la profondità metafisica, il cui riconoscimento gli sembra magari roba da new age, compie un’astrazione mentale che ricalca e fa apparire necessaria la corrispondente astrazione reale quotidianamente operata dal modo di produzione capitalistico: è il funzionamento di tale modo di produzione, infatti, che nel sussumere l’uomo nel suo ciclo di produzione e di consumo, lo fa essere sola prassi empirica, e lo rende cieco ad ogni altro lato ontologico.

3. Tecnica e ambiente. Tutto ciò ci conduce ad un’altra questione nodale. Si è fin qui parlato del modo di essere personale degli individui come elemento antropologico realmente sussunto sotto il capitale in funzione della sua autoriproduzione. Ma si è anche accennato come in una situazione perfettamente analoga si trovi anche un altro elemento, quello cioè dell’ambiente dell’uomo. Anche se non è facile a capirsi, e non è questo il luogo in cui spiegarlo adeguatamente, l’ambiente dell’uomo non è ormai più la natura, ma è la tecnica. Certo, tutte le radici della vita umana stanno ancora nella natura, ma questa natura non è più la natura originariamente autoregolantesi, bensì è una natura regolata dalla tecnica, e condizionatrice dell’uomo soltanto attraverso le maniere in cui è a sua volta condizionata dalla tecnica, che col suo operare riduce le pratiche sociali a mero servizio obbligato delle sue funzioni. Queste funzioni costituiscono i soli binari su cui è fatto scorrere il mondo, e rappresentano perciò un ambiente necessitante. Chi oggi comprende correttamente come la tecnica sia il vero ambiente dell’uomo, e sia necessitante, commette però di solito il duplice errore di considerarla autonomamente autoriproduttiva, come se il suo incessante sviluppo non nascesse che da se stesso, e di concepire la sua necessità in maniera antropologicamente assoluta, come se non potessero più esistere in linea di principio soggetti e progetti, ormai sostituiti completamente e irreversibilmente da ruoli e funzioni. Il primo errore oscura il fatto che la tecnica è entrata nella fase attuale di sviluppo, velocissimo e senza più alcun controllo da parte di altre istanze sociali, soltanto da quando è diventata strumento di produzione del plusvalore, e fa così scomparire il capitalismo dietro la tecnica. Il secondo errore assolutizza la realtà storica e sociale facendone il criterio ultimo di giudizio, per cui ciò che è oggi sconfitto sul piano storico e sociale appare anche umanamente superato: un po’ come se, per farci capire con un esempio banalizzante, la considerazione economica e statistica che un certo paese sopravvive con i proventi delle attività mafiose fosse intesa nel senso che nessuno in assoluto dei suoi abitanti possa essere estraneo alla mafia, e che non abbia alcun valore essere estraneo alla mafia.

Questo tipo di cultura antiumanistica (della quale un ottimo esempio è il recente volume “Psiche e Techne” di U. Galimberti) è per noi una ideologia nemica, al pari di quella della sinistra. Essa, infatti, riducendo la realtà dell’uomo al condizionamento tecnico, negandone la dimensione etica, e sciogliendo la disumanità del capitalismo nell’ambiente della tecnica, fa apparire come necessario e inevitabile il modo in cui il capitalismo opera e appare nella pratica, e quindi contribuisce a renderne impensabile il superamento. Diciamo dunque con forza: siamo contro il capitalismo, e quindi siamo contro l’antiumanesimo della tecnica. Siamo dalla parte, con G. Anders, di quell’uomo che la tecnica ha reso antiquato. Le meraviglie del progresso scientifico (nel senso e nella direzione che la scienza ha nel mondo contemporaneo), e soprattutto di quello tecnologico, non ci incantano: il progresso scientifico non vale nulla, se non è accompagnato dalla giustizia e dal rispetto per gli esseri umani. Se potessimo, fermeremmo del tutto l’avanzamento scientifico nel campo dell’ingegneria genetica, perché sappiamo fin troppo bene che i suoi risultati, indotti dal capitalismo (non esiste in questo mondo una ricerca scientifica pura e disinteressata), rischiano di porre l’intera economia mondiale sotto il dominio ed il ricatto di pochi grandi centri di potere, di mettere nelle mani dei potenti armi biologiche da incubo, di alterare in modi imprevedibili e irreversibili i meccanismi della vita. Chi considera l’uomo legittimamente manipolabile dalla tecnica, adducendo come ragione che non esiste un’essenza immutabile dell’umano, e che l’umano è sempre stato una costruzione, è un nostro nemico, perché è un amico del capitalismo, quand’anche si consideri anticapitalista: è il capitalismo, infatti, che non riconosce alcun limite invalicabile alla manipolazione dell’umano. Per noi, invece, esistono limiti eticamente e ontologicamente inviolabili anche quando sono socialmente e storicamente valicati: la loro invalicabilità ontologica, in tali casi, non è mero fumo, ma, in quanto radicata nei principi di soggettività e di riconoscimento, costitutivi della dimensione umana e perciò mai eliminabili in assoluto, è sorgente di resistenza effettiva, pur se del tutto minoritaria, prospettazione di speranza, promessa di un’altra storia.



In una situazione nella quale non compaiono all’orizzonte possibilità di cambiamenti autentici, far vivere questa speranza implica per noi un lavoro che è essenzialmente culturale e morale. La nostra proposta è quella di una rottura profonda con la totalità dei ceti politici che si contendono il potere nei paesi occidentali, e insieme con l’intero mondo dei riferimenti intellettuali e delle realtà simboliche della sinistra e della destra. Ma soprattutto si tratta per noi di criticare e rifiutare le ideologie profonde del mondo contemporaneo, l’insieme di visioni della realtà, di “precomprensioni del mondo” (per usare ancora una volta il linguaggio heideggeriano) che contribuiscono a quella “sussunzione reale” della persona umana e della natura al capitale, della quale abbiamo parlato. E’ questo, lo ripetiamo, l’esodo interiore al quale alludiamo nel titolo. Si tratta di un lavoro lungo, che può apparire lontano dai pressanti problemi dell’oggi. Ma si tratta di un lavoro necessario per mantenere viva la speranza che le prossime crisi alle quali il nostro mondo andrà incontro, le crisi alle quali ci porterà la natura folle e distruttiva del nostro modo di produrre, consumare, vivere, non siano solo negazione di valori e di civiltà ma viva in esse il seme di un futuro più umano.







13 commenti:

  1. Criticare l’insieme delle due parti di “Invito all’esodo” non è impresa facile. Perché la materia che si tratta è complessa, molto articolata. Provo a farlo cercando di semplificare il ragionamento e con interventi separati.
    Il primo è questo: destra e sinistra
    Una prima cosa che mi sento di dire è che, nello svolgimento del ragionamento scientifico, si parte dalle definizioni. Le definizioni che sono proposte di “destra” e “sinistra” non sono esplicite. Proviamo a farlo in senso storico.
    La destra e la sinistra storicamente rappresentano il mondo della conservazione da una parte e dell’emancipazione dall’altro. Conservazione e emancipazione di cosa? Dei rapporti sociali. La destra ha storicamente rappresentato la resistenza a non modificare l’ordine esistente, la sinistra a emancipare le classi subalterne. Si parla di produzione di ricchezza e del dominio di una èlite, esercitato mediante la forza e la violenza, mediante le leggi e le forze dell’ordine. Il dominio naturalmente si esplica nell’appropriazione della ricchezza prodotta dalle classi subalterne.
    La sinistra si identifica come il movimento verso l’emancipazione delle classi subalterne, in termini di diritti e di rapporti sociali.
    È per questo motivo che nel ‘700 la borghesia è stata una classe rivoluzionaria. È per questo motivo che il movimento dei lavoratori, a partire dall’800, ha rappresentato la spinta verso l’emancipazione. La spinta verso l’autogestione dell’inizio del ‘900 con l’occupazione delle fabbriche rappresentò proprio il tentativo di dimostrare di essere capaci di produrre la ricchezza senza la proprietà capitalistica.
    Definire “destra” e “sinistra” per le etichette auto-attribuite dai ceti politici dell’attualità è quindi fuorviante. Occorre definire le cose. Nel 1996 uscì il libro di Marco Revelli “Le due destre”, nel quale si argomentava che non c’erano una destra e una sinistra, ma due destre appunto. Una di queste con caratteristiche populistiche e reazionarie (Berlusconi e la Lega), l’altra tecnocratica. Ma due destre.
    Ci sono altre definizioni relative ai ceti politici dominanti. Ad esempio la distinzione tra neo-liberisti e social-liberisti. Berlusconi ad esempio entrerebbe proprio nella categoria del neo-liberismo, un monopolista che, a dispetto del presunto smagrimento dello Stato, lo sfruttano a pieno, creano ingenti deficit e esercitano un dirigismo verso l’economia. L’unico vero aspetto “liberista” è nei confronti dei lavoratori. Cioè distruzione sistematica dei diritti del lavoro. Keynesismo privatizzato lo chiama qualcuno, l’unico modo concreto per far sopravvivere un’economia capitalista. Renzi rappresenta perfettamente la continuità di queste politiche e, nei confronti dei diritti dei lavoratori, è riuscito dove il suo “maestro” non era riuscito.
    I social-liberisti sono invece realmente liberisti, cioè incapaci di reggere una società capitalisticamente avanzata. Sono “social” perché vorrebbero favorire il welfare e la condizione dei lavoratori. Ma, si sa, sono i vincoli di bilancio che lo impediscono. Bersani mi sembra la migliore personificazione di questo archetipo.
    Da questa descrizione mi sembra evidente che le categorie classiche di “destra” e di “sinistra” hanno poco a che fare con gli agglomerati politici che dominano la scena.

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  2. Ancora su destra-sinistra. La rappresentazione ideologica di destra.
    C’è anche un modo di rappresentarsi che va al di là della difesa diretta di interessi. Ad esempio, l’aspetto ideologico del fascismo è stato molto ben descritto dal saggio di Bontempelli che è stato pubblicato qui recentemente. Dio, patria e famiglia. La piccola borghesia alla riscossa, l’illusione di costruire una società corporativa come superamento del capitalismo e del socialismo. La realtà delle cose è stata ben descritta: la potenza economica della grande industria non si poteva scalfire, l’unico risultato era massacrare il movimento degli operai annientando i sindacati, le case del popolo, e così via. Non è forse l’esempio perfetto di falsa rappresentazione questo? Il capitale nazionale che aveva bisogno di costituirsi e di rafforzarsi, anche di uscire dalla crisi con politiche keynesiane (il nazismo è l’attuazione economica più fedele del pensiero di Keynes). Lasciando fare a questi qui con le camice nere. Molto utili.
    Qualche tempo fa è uscito un libro di Marcello Veneziani “La cultura della destra”. Superando il senso di nausea che mi prendeva a leggere quelle pagine, sono riuscito a portarlo a termine. È il regno dell’astrattezza. Ci sarebbero questi “valori” che, davvero, non si capisce su cosa siano fondati. Metafisica.
    Visto che è stato citato Fusaro, provo a spiegare la mia avversione. Quali sarebbero questi “valori borghesi” che il capitalismo ha distrutto? Dio, Patria e Famiglia? Ancora una volta, senza definire i concetti, si può dire di tutto. Borghesia è quella classe sociale che, mediante la proprietà privata dei mezzi di produzione, ha avviato il processo di accumulazione del capitale. Quel modo di produzione, rivoluzionario rispetto a quello medievale, è quello di cui stiamo parlando. Viene il sospetto che questi “valori borghesi” non siano altro che un surrogato della ideologia fascista che descriveva Bontempelli. Anche sul concetto di Stato Nazionale c’è molto da discutere. Lo Stato non è una creatura “naturale”. Se non si comprende quando e perché sono nati gli Stati nazionali, si ciancia a vanvera. Cioè, se non si comprende che lo Stato è un prodotto della storia, che ha subito un’evoluzione parallela alla storia sociale, di che si parla?
    Non è vero che il capitalismo globalizzato non ha più bisogno degli Stati Nazionali. Non è vero. Con buona pace dei liberali, quelli che trovano lo Stato “soffocante” senza comprendere che il capitalismo senza lo Stato, sarebbe morto. Qui da noi, il capitalismo mafioso italiano, come farebbe a sopravvivere senza Stato? E poi, lo Stato è fondamentale per imporre con la violenza le misure per “fluidificare” il proprio capitalismo nei confronti di quello mondiale, globalizzato.
    Si potrebbe obiettare che quello di oggi non ci piace. Se questo Stato non piace, qual è quello che si vorrebbe? Quello degli anni ’50 di Scelba? Quello degli anni ’60? La classe operaia che va in paradiso? Quello delle stragi di stato, di Piazza Fontana, dell’Italicus? Quello della P2, di Stay Behind? A quale epoca dovremmo riferirci per identificare il modello?

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    1. Solo un punto, a cui tengo molto. Io non penso che il capitalismo globalizzato possa o voglia fare a meno degli stati nazionali, dico una cosa differente, che vuole la privatizzazione degli stati. In sostanza, si toglie a queste istituzioni la loro sovranità con i connessi privilegi, ma se ne mantiene la struttura repressiva.
      La questione centrale non è se ci saranno o no gli stati ma che genere di stati ci saranno. L'importante è che il potere sia altrove, ma perchè mai il capitale dovrebbe fare a meno degli stati se essi rimarranno a fare il lavoro sporco sotto dettatura da parte della cupola finanzairia che governa il mondo?

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    2. Io su questo sono d'accordo. Per questo dico che non si può parlare di Stato in modo generico come fa Fusaro.

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    3. Pertanto, dovremmo essere d'accordo che la difesa dell'esistenza stessa di nazioni dotate di una costituzione democratica, e quindi almeno su un piano formale democratici diventa il punto fondamentale per contrastare il globalismo neoliberista. Senza queste istituzioni, saremmo ben più disarmati rispetto al potere debordante della internazionale della finanza criminale.
      Non capisco quale possa essere l'alternativa. Qualcuno insiste sulla proposta di un globalismo alternativo, di cui però non v'è traccia alcuna in giro per il mondo. Supponiamo però che la cosa possa ingranare. Mi chiedo quale sia l'obiettivo. Vogliamo fare del mondo un'unica nazione? E' questa la prospettiva massima che ci poniamo?
      Se qualcuno mi spiega come e perchè una nazione che conterebbe sette miliardi di anime dovrebbe funzionare meglio rispetto a un mondo formato da più nazioni, che siano pertanto meno mastodontiche, gliene sarei grato.
      A me pare che i grandi numeri allontanino le persone comuni dal livello decisionale, relegandoli in ruoli passivi. Non sto dicendo che il modo in cui si forma la volontà popolare non abbia problemi, non sia affetta da difetti e necessità di meccanismi correttivi, ma in ogni caso, nessuna democrazia può funzionare se deve applicarsi ad una comunità di sette miliardi di persone. Credo che l'unica forma di governo con questi numeri debba necessariamente essere di tipo dispotico.
      Per me è sorprendente vedere come una certa sinistra marxista non sia neanche in grado di formulare una strategia, ma si manifesti nel criticare l'odiato capitalismo, ma non con la prospettiva di abbatterlo, ma di conviverci semplicemente mugugnando.

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    4. Il vero problema è la presa d'atto della realtà. Possiamo disegnare la città di Campanella, Stati piccoli, grandi, democratici, corretti. Possiamo sognare di vincere la forza di gravità, che è solo un'idea della nostra mente. Ma poi affogheremo. La realtà di cui parlo è il capitale. Questa è la realtà antropologica di questa epoca. E' per questo che non ci capiamo. Pensiamo davvero di fare una battaglia per lo stato nazionale per sconfiggere la globalizzazione? Anche se uscissimo dall'euro e dall'Europa, pensiamo di poter fare da soli? Non c'è una divisione internazionale del lavoro? I mercati finanziari non sono interconnessi? Non avremmo più rapporti con le multinazionali americane o cinesi? Non pagheremmo più il petrolio in dollari ma in lire? Sappiamo cosa sono le catene del valore? Quelle per cui per fare un telefonino si comprano componenti e software in tutto il mondo? Proponiamo l'autarchia?

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    5. Francesco, sarai molto giovane, sennò non credo che ti porresti di questi problemi, perchè l'interconnessione economica c'è da sempre, possiamo dire almeno dai tempi di Marco Polo, e sicuramente nel dopoguerra. L'alternativa alla globalizzazione non è l'autarchia, è una cosa così ovvia che davvero a volte mi sembra che alcuni sedicenti oppositori del capitalismo ne sono i primi sostenitori. Questa andrebbe benissimo coime propaganda filocapitalista, far credere che essere contro la globalizzazione significhi proporre l'autarchia.
      Per me essere contro la globalizzazione significa solo ripristinare la sovranità monetaria ed il controllo dei flussi di capitali e merci attraverso le nostre frontiere, cose che gli stati nazionali hanno fatto dalla loro fondazione senza che a nessuno passasse per la testa di sostenere che si trattasse di una politica di tipo autarchico. In verità, è l'unico modo per gli stati di esistere, senza questo minimo controllo dell'economia uno stato finisce con l'essere identico ad un privato, è la forma indispensabile di autodifesa che gli stati nazionali devono esercitare.
      Tempo fa, qualcuno per argomentare contro l'antiglobalismo, disse che non si poteva perchè sarebbe successa una catastrofe, consistente, udite udite, nell'mpossibilità di usare le carte di credito. Io ho vissuto decenni senza di queste e per viaggiare acquistavo i traveller cheques, se questo è il livello dei problemi...
      Il fatto, caro Francesco è, che a forza di dire che la realtà unica ed inevitabile è il capitale, l'esercizio della politica diventa niente più che un hobby, una sorta di passatempo più o meno piacevole. Dichiararsi anticapitalisti affermando contestualmente che al capitale oggi non v'è alternativa, rende atti come l'intervenire su un blog, un esercizio di letteratura, un'attività del tutto gratuita. Aggiungo che c'è nel marxismo anche questo aspetto, per confermare il materialismo storico, deve valorizzare il nemico costituito dal capitalismo.

      Io invece trovo che il capitalismo pur così potente non è mai stato tanto in pericolo, e questo lo rende massimamente pericoloso, e l'umanità non si può permettere che questo potere in fase terminale compia dei danni irreversibili, soprattutto per quanto riguarda l'ambiente. Per questo, credo nell'attualità della rivoluzione anticapitalista. Qui la filosofia di Campanella non c'entra nulla, c'entra il requisito ovvio che chi si muove deve avere una idea anche vaga di dove va. E' significativo che Francesco non entri nel merito delle mie argomentazioni rifugiandosi nel realismo, un classico per chi non riesce ad opporre argomenti a una tesi avversa.

      MI aspettavo di essere obbligato a dibattere in un recinto di realismo magari da un renziano che può almeno esibire il titolo dall'alto del suo potere, un marxista doc che si propone come realista in verità mostra degli aspetti paradossali.
      Apparentemente, il realismo starebbe per te nel rifugiarsi in un'attività speculativa su una base sostanzialmente dogmatica, in attesa messianica che qualcuno sfrutti le contraddizioni del capitalismo, per cui avere degli obiettivi politici, una strategia, è tempo perso, Nella tua visione, chi come me invece crede nella riflessione politica ma nel concreto contesto di una politica alternativa possibile, fa speculazione filosofica: interessante!

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    6. Caro Vincenzo, intanto ti ringrazio molto di ritenermi giovane. Anagraficamente non lo sono, ma mi piace essere considerato giovane, non nel senso giovanilistico ma nel senso del pensiero. Peraltro, anche io ti considero giovane anche se non so se tu lo sia o no.
      Ti rispondo per provare a farmi capire perché evidentemente non ci sono riuscito. Tu dici che “il capitalismo pur così potente non è mai stato tanto in pericolo”. Se vai al fondo, l’ultimo intervento l’ho intitolato “Il capitalismo è un cane morto”. Quindi, siamo d’accordo. Anzi, la mia affermazione è estrema e non si presta a dubbi su come la penso, credo.
      Sono d’accordo con te anche su un altro punto e cioè che “l’umanità non si può permettere che questo potere in fase terminale compia dei danni irreversibili”. L’unica differenza è che userei il condizionale, cioè che l’umanità non “dovrebbe” permettere la barbarie. E penso alla natura, come fai tu, ma soprattutto alla civiltà umana.
      Io non voglio per niente essere offensivo. Rileggendo la mia risposta lo sono stato. Hai ragione di lamentarti e me ne scuso. Sono convinto però che chi la pensa come te non tenga conto di una realtà che ha dimostrato di essere potente. Il capitale l’ho definito un feticcio, anzi il feticcio dell’era capitalista. Se vogliamo la religione monoteistica dei nostri tempi. Un sistema cioè di comandi occulti che nascondono i reali rapporti sociali. Cioè un sistema che costringe l’umanità a produrre sempre più merci senza sapere nemmeno perché, solo per valorizzare il capitale. E produrre merci in condizioni di dominio di una classe (i detentori del capitale) su tutto il resto della società. È una macchina automatica, Matrix.
      Detto questo, io credo che le soluzioni “stataliste” non è che siano buone o cattive. Semplicemente non sono praticabili. Io non osservo lo svolgere degli avvenimenti pensando di non poter cambiare il corso. Dico solamente che le soluzioni devono scaturire direttamente dai movimenti della società e scavare dentro le contraddizioni di questo sistema che, adesso, sono diventate gigantesche, mostruose.

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  3. Destra e sinistra. La rappresentazione ideologica della sinistra.
    Accanto alla rappresentazione di destra c’è, naturalmente quella di sinistra. Storicamente la sinistra è per il “progresso”. Un concetto illuminista, ingenuo.
    Dalla fine dell’800 però la sinistra è diventata l’area di emancipazione dei lavoratori. Che si divide in due filoni portanti: la socialdemocrazia (prevalentemente quella tedesca di Kautsky) e quella leninista, all’inizio del ‘900. Il comunismo italiano, ispirato da Gramsci, è l’ultima variante.
    Ci sono tante cose da dire su questi tre filoni, anche sulle rispettive ideologie. Tante critiche si possono fare come il determinismo, il positivismo, il produttivismo, l’adesione ingenua e fideistica ad una sorta di catechismo di derivazione stalinista. Certo, difetti gravi.
    Ci sono aspetti che giudico peggiori di altri. Uno dei più dannosi è la fiducia che i meccanismi interni al capitalismo portino necessariamente alla sua fine e al suo superamento. Sembra che, in questo caso, non si debba far altro che aspettare. Anzi, in altre versioni, addirittura di incoraggiare lo sviluppo capitalistico più puro per accelerare la sua estinzione. Sono tesi che non tengono conto della soggettività che, a mio avviso, rappresenta un aspetto decisivo. C’è poi la versione alla Toni Negri secondo cui il socialismo, di fatto, c’è già. Occorre solamente rimuovere gli ostacoli per la sua manifestazione palese.
    Modi di vedere le cose che sono tutti da respingere a mio parere. E che hanno generato errori e fraintendimenti.

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  4. Marx, la società, il capitalismo e la natura. (1)
    Veniamo adesso all’aspetto più interessante.
    Il primo punto è questo: la realtà è dialettica? Non è una domanda accademica. Se ogni realtà contiene il suo contrario, allora la storia non si può raccontare come un processo di colonizzazione progressiva da parte del capitale che ingloba sempre di più nei suoi meccanismi non solo le persone in carne e ossa che diventano lavoratori salariati. Ingloba (sussume se si vuole) anche l’immaginario. Senza alcun antidoto.
    Negli schemi di Marx le contraddizioni giocano un ruolo fondamentale. Da una parte il capitale accumula sempre più capitale, dall’altro questa accumulazione produce la caduta del saggio di profitto. Certo, non è un fatto deterministico come qualcuno pensa; se la produttività cresce allo stesso ritmo dell’accumulazione il saggio di profitto non cade. In Cina non cade per l’effetto dell’espansione esplosiva, per il tasso di natalità, per il fatto che sempre più persone entrano a far parte del circuito capitalista. Che questo possa avvenire all’infinito però, dubito fortemente.
    Non è vero che negli schemi di Marx non ci sia la soggettività. C’è. La distinzione tra forza-lavoro, la merce che il capitalista compra (valore in potenza), e l’effettivo lavoro erogato (lavoro vivo, valore in atto) non è solo dovuta agli aspetti organizzativi dell’azienda. Dipende anche dalla resistenza che il lavoratore oppone all’estrazione di lavoro vivo dal suo corpo. Ancora una volta non è accademia, è quello che è capitato negli anni ’60 e ’70, l’opposizione operaia all’interno della fabbrica.
    Quando leggo il brano che riporto, francamente non capisco, proprio per le cose che ho scritto sopra. “Il capitalismo è una logica complessiva dei rapporti sociali che, appunto perché complessiva, agisce in profondità sulle dinamiche personali degli esseri umani, plasmando psicologie e rapporti umani. Nello stesso tempo questa azione profonda non è mai completa e assoluta perché, a differenza di quanto credono Marx e i marxisti, l’essere umano non è l’insieme dei rapporti sociali: l’introiezione della logica del capitale nelle psicologie degli individui presuppone comunque una soggettività, una scelta, e perciò stesso non può mai escludere del tutto la possibilità della scelta opposta, e quindi della resistenza. Soltanto l’attivazione di questo tipo di resistenza apre uno spazio, difficilissimo ma non illusorio, di anticapitalismo.”
    Io capisco che qui si parla di adesione ideologica agli schemi del capitale. Mi pare di capire che la vostra critica sia rivolta ad uno schematismo, come se per Marx, dati i rapporti sociali, dipendentemente dalla collocazione individuale, ci sia adesione o no. Se sono un padrone la penserò come padrone, se sono un lavoratore salariato allora automaticamente mi opporrò. È chiaro che le cose non stanno così.
    Per Marx il capitale è un feticcio. Un idolo messo al centro del villaggio che determina i comportamenti. Il valore e la sua forma, il denaro, sono un feticcio. Se le cose stanno così, se la realtà esterna di cui parla Marx è una realtà “sovrasensibile”, cosa c’è di più sociale e introiettato psicologicamente di questo? Francamente non trovo materialismo volgare in Marx. Se il denaro non è altro che lavoro accumulato, se questo sistema nasconde la realtà sociale che sta sotto, non c’è niente di più “spirituale”.
    Ma non importa salvare Marx o non salvarlo. La prima cosa è comprenderlo e stabilire se la sua analisi scientifica è ancora in grado di darci un’interpretazione della società che sia valida. E poi, se è possibile agire sulle contraddizioni individuate per trasformare la società.

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  5. Marx, la società, il capitalismo e la natura. (2)
    Quando si parla di sussunzione reale al di fuori del rapporto di lavoro si allude alla adesione ideologica a modelli capitalistici. Si allude, secondo me, alla costituzione di archetipi che condizionano profondamente il modo di essere sociale. È una materia complessa che rimanda a tematiche di inconscio collettivo e alla persuasione occulta.
    Sicuramente ogni società e ogni epoca ha i suoi miti. D’altra parte, parlare di feticcio significa prendere in esame gli aspetti antropologici, dare una descrizione dei rapporti sociali che si articolano mediante rappresentazioni occulte.
    L’uomo non è fatto di sola ragione e le scoperte della psicoanalisi dimostrano quanto complessa sia l’architettura della nostra personalità.
    Il mito primordiale del capitalismo è naturalmente il denaro. Il denaro, che una volta aveva una rappresentazione simbolica potente nelle brillanti monete d’oro, rappresenta il vero arcano. Lo splendore con cui si presenta questa ricchezza è talmente abbagliante da non far vedere che dietro ci stanno persone in carne e ossa che con la loro fatica quotidiana realizzano questo “miracolo” della moltiplicazione del denaro, come la moltiplicazione dei pani e dei pesci. È un po’ come se, scusandomi per la metafora, si magnificasse della bontà del piatto basato sulla carne d’agnello dimenticandosi o semplicemente rimuovendo l’uccisione dell’agnellino e la sua macellazione.
    Se poi si vuole alludere all’atteggiamento riguardo al consumo di merci, sicuramente l’opera di persuasione e di introiezione dei modelli veicolati dalla pubblicità, dai mass media, fonti inesauribili di ideologia, ha un peso rilevante nei comportamenti e nell’attaccamento a questo tipo di società.
    Sono tutti temi di grandissima rilevanza. È vero che la soggettività è fondamentale e le teorie meccanicistiche del crollo sono da respingere. La percezione di sé è decisiva, solo uno che comprende di essere schiavo si mette in movimento per abolire lo schiavismo. Se non comprendi di essere sfruttato, che la tua vita è comandata da una macchina automatica, se ti accontenti di entrare in un negozio e comprare lo smartphone di ultima generazione, allora non ti metterai in movimento.
    Ma…

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  6. Psiche e Techne
    Mi sembra di capire che per voi che scrivete, le contraddizioni non siano quelle che ho accennato prima, ma la contraddizione primaria da cui può scaturire un cambiamento è tra la dimensione disumana della tecnica e l’essenza morale dell’umanità, tra Psiche e Techne. Sarebbe troppo lungo entrare nel merito come servirebbe. Mi sembra che ci siano parecchi problemi in questo modo di esporre la questione. La prima è che si parte dall’idea che esista un’essenza umana trascendente, metafisica e metastorica. Si parla di tecnica che è anch’essa un concetto metastorico. La tecnica c’è sempre stata nella storia dell’umanità, anche l’invenzione dell’agricoltura è tecnica. Quindi, che questi due aspetti siano separati, anzi in conflitto, mi sembra un affermazione che ha tanti problemi. La tecnica, la tecnologia, sono invenzioni umane, questo è il primo punto. Mi sembra anche innegabile che non esista la natura umana assoluta ma che, nel corso dei secoli, si sia modificata. Perché mai si parla di pulsioni e non di istinti? L’istinto riconduce ad un comando esterno, della natura appunto. Chi obbedisce all’istinto appartiene alla natura. Le pulsioni invece sono istinti elaborati dalla personalità. Non sono quindi comandi automatici. Descrivere l’uomo come natura è un errore. E poi, non è forse in contrasto con l’idea di soggettività? Lo spirito assoluto si incarna nella religione cristiana, una metafora potente del genere umano in cui lo “spirito” non è più esterno e l’uomo è anche un po’ Dio, capace cioè di creatività, dote divina.
    Parlare di conflitto tra psiche e techne in questi termini lo trovo molto discutibile. Il problema semmai, a mio avviso, è che le “macchine” inventate dagli uomini dominino l’umanità. Le macchine sono espressione umana, solo che si è sempre ricorso al “vincolo esterno” per condizionare la nostra vita. Cioè la mistificazione. È il processo di naturalizzazione di ciò che naturale non è. Anche le religioni svolgono questo ruolo, un apparato che richiede obbedienza cieca, che non si può discutere perché è “naturale”.
    Io non parlerei di conflitto tra psiche e techne, utilizzerei categorie storiche. Il capitale, il feticcio, è storico. Naturalmente ha la sua tecnica che non è neutra, è quella funzionale alla sua riproduzione. Ecco, secondo me è questa la macchina, quella che produce denaro a mezzo di denaro. La domanda è sempre la stessa: questa macchina è assoluta, invincibile, senza difetti e contraddizioni?

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  7. Il capitalismo è un cane morto.
    Ma torniamo al punto. Il capitalismo è un monolite? Credo proprio di no. Basta osservare il mondo di oggi per rendersene conto: esplosione di conflitti geopolitici in tutto il mondo, Africa devastata da guerre, barconi di migranti che sbarcano quotidianamente sulle nostre coste. Contraddizioni clamorose tra la necessità del capitale occidentale di succhiare il sangue alla carne fresca e quella di far fronte alla protesta sociale.
    Per non parlare dell’ambiente e degli effetti di un atteggiamento nei confronti della natura che rischia di mettere in discussione la riproduzione della vita stessa.
    È un monolite il capitalismo? Internamente coerente? Non credo proprio.
    La crisi del 2007-2008 ha svelato in modo evidente che il capitalismo è un cane morto. Sicuramente nell’occidente a capitalismo maturo. Il bisogno irrinunciabile del capitale di crescere si è scontrato con problemi strutturali. La crisi di astinenza l’impossibilità di sfruttare i lavoratori oltre un certo limite, l’ha portato ad escogitare un sistema che si basa su una promessa: io produco merce oggi in eccesso riguardo la domanda e faccio i profitti che mi servono per garantire un buon tasso di accumulazione. La promessa è che il valore tu lo produrrai in futuro. Cos’è il debito privato per il consumo se non questo? Una promessa. Come ripagarlo in futuro? Semplice, con altri debiti, sempre più grandi. Non è un modo per fare profitti senza passare dalla produzione di merci, come qualcuno pensa, come se la magia dell’albero degli zecchini si fosse realizzata. È solo un modo per spostare il problema in avanti anche se diventa sempre più grande.
    Cosa c’entra con la soggettività questo che ho scritto? Apparentemente nulla, sembrano esiti di una macchina automatica, di un algoritmo. A parte che la macchina è molto sofisticata e non banale e le soluzioni che individua tengono conto delle condizioni soggettive, della forza dei movimenti di opposizione, delle tradizioni, della posizione geografica.
    La soggettività c’entra perché anche la fiducia più ingenua nelle risorse salvifiche di questo sistema è messa a dura prova. Se ho dedicato la mia vita a consumare e non riesco più a farlo, qualche problema me lo porrò. La crescita straordinaria del capitale finanziario significa solamente debito, pubblico e privato. Per essere ripagato, cosa impossibile, occorrerà che lavoriamo sempre di più. Qualcuno ha notato che il numero di ore lavorate è in continua crescita? Lo sfruttamento è sempre più spietato. Non solo in Cina. Qualcuno ha avuto la ventura di seguire un giovane nelle sue prime esperienze di lavoro? Contratti debosciati, assoluta illegalità, sessanta-settanta ore settimanali. Puoi continuare a credere che diventerai come Bill Gates o come Jennifer Lopez, ma intanto la tua vita è un inferno. Pensiamo che le menti siano così “sussunte” da accettare qualsiasi tortura e di non farsi mai una domanda? Ancora, la devastazione dell’ambiente (una contraddizione non marxiana) crea giganteschi problemi che difficilmente si possono affrontare con le armi del capitale.
    Ho solo citato alcuni degli effetti di questo sviluppo, ce ne sono tantissimi altri. Io credo che occorre avere le capacità di analizzare fino in fondo il funzionamento di questo sistema e essere presenti nei luoghi in cui le contraddizioni esplodono.
    Questo è il mio modo di vedere le cose. Ho scritto tanto e ringrazio per l’ospitalità e la pazienza.

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