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martedì 2 gennaio 2024

Una critica della pedagogia contemporanea

Siamo lieti di pubblicare questo interessante intervento dell'amico Di Remigio (M.B.)





LA PEDAGOGIA NATURALISTICA

E I SUOI PROBLEMI

(Paolo Di Remigio)






Il fallimentare modello scolastico americano



Si dice spesso che la scuola italiana non funzioni e che occorra innovarla per metterla al passo con i tempi. Chi lavora nella scuola non può non concordare con la prima affermazione; la seconda appare invece sospetta di conformismo e fuori dalla realtà. Infatti negli ultimi trent’anni ogni ministro dell’istruzione ha innovato; in particolare, nel 1997 l’autonomia scolastica ha aperto gli istituti al territorio e li ha incoraggiati ad avventurarsi in ogni sorta di iniziative; nel 2015 la riforma Renzi ha reso obbligatorie sperimentazioni ardite come la scuola-lavoro oppure il CLIL (lo studio in lingua straniera di una disciplina studiata di solito in italiano), ha inoltre fatto dell’innovazione didattica la preoccupazione principale degli insegnanti e il titolo con cui accedere alla premialità, qualunque ne fosse il risultato.

Che dopo 26 anni di riforme innovative la scuola resti disfunzionale, suggerisce l’ipotesi che proprio le riforme la rendano tale. L’ipotesi è confermata da un indizio: le riforme parlano in un gergo anglosassone (inquiry learning, cooperative learning, skill, metacognitive skill, problem solving, lifelong learning – da cui il nome TreeLLLe, l’associazione che ispira da decenni il ministero), consistono dunque nell’imporre in Italia e in Europa la pedagogia dominante negli Stati Uniti. Delle scuole statunitensi l’opinione pubblica sa soprattutto che vi avvengono stragi efferate di alunni e insegnanti. Di fatto sa anche un’altra cosa. I giornali parlano spesso di «fuga dei cervelli» dall’Italia. Vista dall’altra parte dell’Atlantico, questa fuga non può che prendere il nome di importazione dei cervelli. Dalle notizie della stampa l’opinione pubblica può giungere dunque a due conclusioni: 1) le scuole americane sono pericolose per chi le frequenta; 2) istruiscono così male che, per popolare le loro celebrate università, gli Stati Uniti devono importare studenti istruiti altrove.

Da 26 anni il nostro Ministero dell’istruzione si ispira dunque a un modello pedagogico fallimentare per promuovere innovazioni fallimentari. Il fatto è paradossale e merita approfondimento. L’abbiamo compiuto soprattutto sui libri di Eric Donald Hirsch Jr., un filologo americano che nella seconda fase della sua carriera intellettuale si è dedicato ai problemi della scuola del suo Paese. Sappiamo così che per tutto il XX secolo gli americani sono sempre stati insoddisfatti dalla situazione delle loro scuole, che ogni circa dieci anni si sono levate voci critiche per chiedere trasformazioni radicali (Ravitch, 2016, pp. 297-298). In particolare, nel 1983, ben prima che iniziassero le innovazioni in Italia, uscì negli Stati Uniti un rapporto dal titolo eloquente: Una nazione a rischio, nella cui introduzione si può leggere: «Se una potenza straniera nemica avesse tentato di imporre all’America i mediocri risultati educativi odierni, lo avremmo certamente considerato un atto di guerra» (Buck, 2020, p. 230). Il rapporto fece molta impressione, tanto che per qualche anno rallentò il declino dei punteggi riportati nel SAT (la prova sostenuta dagli studenti per l’ingresso nelle università). Ma poi i punteggi ripresero a scendere. I governi vi reagirono con due programmi, No Child Left Behind e Race To The Top, che determinarono una forte pressione sugli insegnanti affinché aumentassero i punteggi delle prove degli alunni e diedero il via alla privatizzazione della scuola pubblica, ma non cambiarono l’impostazione didattica. Così gli antichi problemi non sono stati risolti e ne sono stati prodotti di nuovi e più gravi. La scuola americana, minata da un travaglio infinito, non può dunque offrire alcun modello imitabile.

Si tratta ora di spiegare perché la nazione che esercita un’egemonia mondiale ormai secolare sia scivolata tanto in basso nel campo così strategico dell’istruzione scolastica e stia trascinando con sé tutta la scuola occidentale. In generale, quando devono operare delle scelte, i dirigenti politici si fanno consigliare da esperti. Come esperti nelle questioni scolastiche si presentano i pedagogisti. La causa del deterioramento della scuola americana va dunque cercata non in America, ma nella pedagogia europea.


L’ideale naturalistico nell’Illuminismo e in Rousseau



In Europa la storia della pedagogia moderna inizia nel 1762, anno di pubblicazione del romanzo pedagogico Emilio. Del suo autore, Jean Jacques Rousseau, è noto che ha esaltato l’uomo di natura, non perché egli fosse così ingenuo da credere nella sua realtà, ma perché l’innocenza primitiva gli sembrava un ideale sublime, degno di essere perseguito a qualunque costo. Rousseau ha anche odiato la civiltà perché è uscita dallo stato di innocenza creando rapporti di dipendenza tra gli uomini. A suo parere, essi derivano dal rapporto tra padrone e servo, che nuoce alla libertà e corrompe entrambi. Anche il rapporto educativo tradizionale sarebbe sfigurato dalla dipendenza del bambino dall’adulto; non solo, esso sarebbe finalizzato alla dipendenza definitiva dei bambini divenuti adulti da altri adulti.

Rousseau vuole spezzare questa tradizione educativa doppiamente colpevole. In questo egli è fedele allo spirito dell’Illuminismo, che Kant definisce come «uscita dell’uomo dallo stato di minorità che deve imputare a sé stesso». Gli illuministi hanno scoperto l’origine della minorità dell’uomo nella sua dipendenza da un Dio trascendente. Se Dio è in un aldilà lontano e inaccessibile, è necessario un clero capace di innalzarsi sul mondo e di raggiungerlo, ed è inevitabile che dal suo contatto diretto con il divino ricavi il potere paternalistico di dirigere gli uomini. Meglio esasperare, con il deismo, la lontananza di Dio e concepirlo come inaccessibile a chiunque, così da eliminare il terreno della mediazione clericale; ma ancora meglio eliminare Dio, abbracciare cioè l’ateismo, così da restituire all’uomo perfetta indipendenza.

Nato dal bisogno che l’essenza non sia in un aldilà lontano, ma sia presente agli uomini così che questi possano goderne la vicinanza, l’ateismo spinge gli illuministi non solo contro Dio, ma contro ogni trascendenza in generale. Al principio antico della linguisticità per cui il mondo è formato dalla parola divina ed è conosciuto dalla parola umana, l’ateismo sostituisce il criterio della tangibilità: l’essenza non è lo spirito, che porta ancora su di sé l’odiato sentore del mondo sovrasensibile della teologia; l’essenza è anzi la materia e la forma che da questa germoglia – la natura, e lo spirito ne è soltanto un prodotto secondario. L’esigenza di libertà spinge così gli illuministi nel materialismo e nel naturalismo; essi valorizzano, come gli empiristi inglesi, la sensibilità contro l’intelletto, e dell’utilità eudemonistica fanno il sommo principio morale. In una parola, pagano l’indipendenza dell’uomo da Dio con la sua umiliazione a episodio della natura vivente.

Ispirato dall’Illuminismo, Rousseau annuncia al mondo un nuovo tipo di educazione, che lasciando intatta la perfezione della natura evita che l’allievo dipenda ora dal precettore e in futuro dagli altri uomini: il suo Emilio vive in campagna, e le cose, non le parole degli adulti, lo educano alla libertà, vale a dire a essere indipendente dalla società, in cui un giorno potrà vivere immune dalla corruzione, come un estraneo.

Affinché le cose educhino Emilio, anziché annichilirlo, è tuttavia necessario che l’ambiente in cui cresce sia organizzato segretamente da un istitutore onnisciente e onnipotente. L’entusiasmo per l’idea impedisce a Rousseau di comprendere che la sua educazione impone al bambino un asservimento molto più profondo di quello imposto tradizionalmente, un carcere dal quale non si può evadere: alla proibizione espressa dall’educatore tramite il linguaggio, che il bambino può percepire come volontà umana essenzialmente criticabile, egli sostituisce una manipolazione segreta dalla quale il bambino è ingannato e che lo riduce a una marionetta. È una cieca esaltazione che spinge Rousseau a dispensare consigli pratici utili, più che agli educatori, ai regimi totalitari (Rousseau, 2016, p. 203):



Lasciategli credere di essere il padrone, ma in realtà siate sempre voi a guidarlo. Non esiste assoggettamento così perfetto come quello che conserva l’apparenza della libertà, perché, in questo modo, si riesce a controllare la sua stessa volontà. [...] Certamente, deve fare solo ciò che vuole, ma non deve voler altro tranne ciò che voi volete che faccia.



Già a Rousseau l’artificialità dell’educazione naturale era così evidente da fargli dubitare apertamente della reperibilità di un istitutore tanto sublime (Rousseau, 2016, p. 94). La difficoltà non è però solo nell’implementazione dell’idea, ma nell’idea stessa. Il rapporto esclusivo tra bambino e istitutore (Rousseau, 2016, pp. 260-261), per cui questi dovrà dedicarsi, senza ricompensa, a condizionare occultamente il suo pupillo dalla nascita fino a quando non trovi moglie e anche oltre, prelude a una libertà solo astratta, adatta al fanatico rivoluzionario, non al cittadino, una libertà come negazione del riferimento agli altri, non come riconoscimento di sé nell’altro.

Nonostante la sua insensatezza pratica e la sua inaccettabilità morale, l’idea dell’educazione naturalistica, che per conservare l’innocenza del bambino evita la parola e si serve soltanto di esperienze empiriche, si continua nella pedagogia romantica – anzi vi si esaspera, perché essa può evitare le messinscene e le manovre occulte dell’istitutore rousseauiano solo in quanto attribuisce al bambino un autonomo impulso infallibile a evolversi verso le virtù dell’adulto. Per evitare il controllo ossessivo del bambino, il naturalismo romantico è costretto a concepirlo come un essere a cui il semplice istinto naturale detta tutto ciò che deve fare. Ma l’essere al quale è sufficiente la guida del semplice istinto è il vivente inconsapevole, la pianta e l’animale. È quanto spunta dal groviglio di fiori mistici della scrittura di Froebel (Froebel, 1826, p.10):



Per questo, in origine e nei loro primi tratti fondamentali, educazione, istruzione e insegnamento devono essere necessariamente tolleranti, compiacenti (soltanto difensivi, protettivi), non prescrittivi, determinanti, interventisti. – Essa, l’educazione, deve essere però necessariamente tale anche in sé: l’operare indisturbato del divino è infatti necessariamente buono, deve essere buono, non può che essere buono. Questa necessità comporta che l’uomo ancora giovane, per così dire appena all’inizio, quantunque ancora inconsapevole proprio come una creatura naturale, voglia tuttavia con precisione e sicurezza l’ottimo in sé e per sé, e lo voglia inoltre in una forma a lui perfettamente idonea, per la cui rappresentazione egli sente in sé anche tutti i talenti, le forze e i mezzi. Così l’anatroccolo si affretta allo stagno e sopra e dentro l’acqua, mentre il pulcino razzola nel terreno e il rondinino prende il cibo in volo e quasi non sfiora mai la terra.



Questa pedagogia dedita all’adorazione della natura innocente nel bambino, e che ha ricevuto un’accettazione entusiastica nella cultura statunitense, si mette in urto con l’intera tradizione occidentale. Nella concezione classica, qual è delineata, per esempio, da Platone nel Protagora (Platone, 1971, 320c-323c), l’uomo appare come il vivente che Epimeteo ha lasciato senza facoltà naturali, che dunque non ha mezzi per sopravvivere nella sua costituzione corporea e nel suo istinto, e che può farlo solo imparando il sapere tecnico, donatogli da Prometeo insieme al fuoco, e imparando la scienza politica, dono di Zeus. La visione cristiana acutizza con il dogma del peccato originale il senso dell’inaffidabilità della natura dell’uomo. Agostino non ha difficoltà a riconoscere il peccato già nel lattante (Agostino, 1987, p. 42):



Dunque i bambini non sono innocenti nell’anima; lo sono, semmai, in quanto sono ancora in formazione. Ho visto e osservato bene un bambino che soffriva di gelosia: non parlava ancora, e già guardava, pallido e accigliato, un altro lattante.



Per il mondo classico, l’istinto umano, lungi dal poter guidare l’uomo, dev’essere guidato dalla saggezza; per il mondo cristiano esso deve essere limitato dalla volontà fortificata dalla grazia. L’Illuminismo e i suoi prolungamenti nel Romanticismo fanno invece dell’innocenza naturale la guida dello spirito e così infrangono il principio della morale, che riconosce sia l’inevitabile rovesciarsi dell’innocenza nel male sia la possibilità di vincerlo con la virtù.

L’esaltazione dell’innocenza naturale ha un effetto distruttivo anche sulla gnoseologia. Ci si apre alla conoscenza solo se si supera il pregiudizio che la verità sia semplice e afferrabile dalla semplice intuizione sensibile, e se si riconosce nel pensiero lo strumento per districare la mirabile complessità dell’esistente. La materia è però il semplice; così il materialismo è semplificante e non è in grado di accettare la fatica, anche eroica, necessaria alla conoscenza della realtà, in cui tutto è il contrario di sé stesso. La materia è poi anche indifferenza alla forma, dunque è plasmabile dall’esterno; così il materialismo distoglie dalla teoria e sollecita la pratica. La conoscenza rifiutata come oziosa e lo slancio verso ciò che non è, ma deve essere, si traducono in cieca volontà di rinnovamento radicale. È in questo senso che, nell’ultima Tesi su Feuerbach, il materialista Marx scrive che i filosofi hanno finora solo interpretato diversamente il mondo, e invece occorre cambiarlo.

Il volontarismo palingenetico che sulla base del culto della semplicità innocente si propaga dall’Illuminismo al Romanticismo, e di qui si irradia agli esperimenti politici fallimentari del Novecento, è dunque lo sfondo da cui emerge la pedagogia moderna. Ossessionata dal nuovo, essa smania per il cambiamento della realtà, che non apprezza perché le sembra lontana dalla semplicità naturale; così rinnega il suo compito essenziale, quello di trovare i modi attuali per aprire alla gioventù l’accesso all’eredità artistica e scientifica con cui il passato arricchisce il presente e gli porge la comprensione di sé e della realtà.

Combattere la pedagogia naturalistica sarà difficile finché la nostra civiltà resterà confusa dalla contraddizione dell’Illuminismo: esso libera l’uomo emancipandolo dalla trascendenza; ma è trascendente anche la superiorità dell’uomo sulla necessità naturale; la conquista illuministica della libertà negando la trascendenza è dunque il contrario di sé stessa: rinuncia alla libertà, riduzione dell’uomo a natura e disprezzo nichilistico dello spirito – dal segno linguistico alla scienza, dalle leggi alle istituzioni.



L’illusione naturalistica dello sviluppo autonomo della mente

La pedagogia moderna presuppone che gli adulti siano guastati dalla civiltà, e vede nel bambino una perfezione in sviluppo autonomo; ne deduce la richiesta che il bambino sia subito emancipato dagli adulti e affidato alla mano infallibile della natura. La pedagogia crede, cioè, a un bambino guidato dalla natura a dare forma a sé stesso; il suo naturalismo la porta al puerocentrismo. Ecco come si esprime un’eminente rappresentante di questa visione, Maria Montessori (Montessori, 1999, p. 14):

Al suo nascere [...] il bimbo è nulla [...]. Dopo un dato periodo di tempo, il bambino parla, cammina e passa da una conquista ad un’altra, fino a costruire l’uomo in tutta la sua grandezza e intelligenza. Ed ecco che una verità si fa strada: il bambino non è un essere vuoto, che deve a noi tutto ciò che sa e di cui l’abbiamo riempito. No, il bambino è costruttore dell’uomo, e non esiste uomo che non sia stato formato dal bambino che egli era un tempo.

La celebre pedagogista pretende che il bambino si evolva per opera della sua natura, e che l’adulto sia figlio, non dell’educazione ricevuta a suo tempo dagli adulti, ma del bambino che egli è stato. In difficoltà come Rousseau di fronte alle contraddizioni, la Montessori non vede che l’esaltazione dello sviluppo autonomo del bambino ne è piuttosto l’umiliazione; è infatti l’animale che, privo di linguaggio di parole, fa tutto per istinto.

La pedagogia moderna presuppone la mente del bambino come un organo corporeo e il pensiero come una secrezione organica, dunque non crede che si sviluppino acquisendo l’eredità culturale trasmessa dagli adulti attraverso il linguaggio. Il pregiudizio naturalistico non le consente di comprendere né la vita naturale né lo spirito dell’uomo. – La vita naturale è la trasmissione da un individuo all’altro della conoscenza dell’ambiente trascritta nel genoma di una specie – conoscenza inconsapevole, che si manifesta nella forma corporea e negli istinti dei viventi; lo spirito dell’uomo nasce invece dalla capacità di registrare nel suo linguaggio di parole (fissato da un certo momento in poi nella scrittura) le conoscenze dell’ambiente acquisite consapevolmente dagli individui, che così possono trasmettersi immediatamente alla generazione presente e a quelle successive. Dalla trasmissione della parola, in particolare dalla sua forma scritta, dipendono dunque la storia umana e la sua luminosa rapidità rispetto all’ottusa lentezza dell’evoluzione naturale. Come il denaro non è soltanto mezzo per lo scambio ma anche determinazione e soprattutto deposito del valore, così la parola non è soltanto mezzo per la comunicazione, ma anche segno delle essenze e soprattutto deposito della loro conoscenza. Non ha dunque alcun senso razionale una pedagogia che voglia educare emarginando la trasmissione del linguaggio e della scrittura, e si illuda che la mente sia un organo in crescita insieme al corpo, indifferente al contesto linguistico e secondo leggi che natura prescrive e a cui Piaget dà un’apparenza di oggettività scientifica. Non ha senso sostenere che l'adulto debba rinunciare a guidare il bambino e a trasmettergli l’eredità culturale di cui è portatore, che debba limitarsi ad alimentare in silenzio la sua crescita (don’t be a sage on the stage, be a guide on the side, si raccomanda agli insegnanti americani), come un giardiniere che si limita a innaffiare i fiori.


L’apprendimento infantile del linguaggio come gioco

Non che il ribaltamento puerocentrico dell’educazione non abbia avuto qualche buon motivo dalla sua parte: la critica dell’unilateralità della pedagogia naturalistica non si getta tra le braccia dell’unilateralità opposta, ma riconosce che un tempo l'adulto ha guidato il bambino a volte in modo brutale; che a volte le scuole erano caserme e l’istruzione addestramento meccanico; che a volte miravano solo a selezionare alcuni, anziché a istruire tutti. Il puerocentrismo, però, non trae forza dalla giusta protesta contro la brutalità, l'imposizione militaresca e la selezione classista; il suo successo, come accade spesso, nasce invece dalle semplificazioni esclusiviste che degradano in antitesi le complementarità. È così che il pensiero sembra escludere la conoscenza, la cosa il segno, il gioco il lavoro. A dare una parvenza plausibile alle false antitesi è l’apprendimento infantile menzionato dalla Montessori – non tanto quello del movimento, nel quale i bambini sono più lenti degli animali, ma quello del linguaggio.

Il linguaggio di parole segna uno iato tra uomo e animale: esso è artificiale. Nondimeno, poiché nell’uomo la natura è al servizio dello spirito, il bambino lo apprende per un impulso naturale: c’è in lui un istinto linguistico, in virtù del quale impara a parlare per semplice imitazione degli adulti. Per questo apprendimento magico e gioioso, per il fatto che lo si impara spontaneamente, il linguaggio materno non appare artificiale, ma misteriosamente emanato dall’essenza delle cose.

Il naturalismo pedagogico è così incantato dall’apprendimento spontaneo del linguaggio orale, da esigere che si impari tutto secondo quel modello e da condannare ogni apprendimento che richieda sforzo consapevole. Scrive a questo proposito Ovide Decroly, l’alfiere del cosiddetto metodo globale (Decroly, 1953, p. 19):

La madre, senza ricorrere ad alcun metodo stabilito, con l’aiuto di coloro che attorniano il bambino, gli insegna tutte le difficoltà della lingua; senza pensare ad analizzare, a classificare gli esercizi, essa si fa capire e imitare a poco a poco. Se questo miracolo, che consiste nell’apprendere il linguaggio col procedimento materno, che non ha niente di formale né di coscientemente logico, ma che pure è logico, se questo miracolo fosse conosciuto meglio dagli educatori, vedrebbero probabilmente più chiaro in tutto il problema che trattiamo qui.

Sembra a Decroly che l’apprendimento inconsapevole dei bambini autorizzi un congedo dalla consapevolezza logica e la condanna dell’istruzione scolastica che, come ha visto Vygotskij (Vygotskij, 1990, pp. 225 sgg.), vi ha il suo principio. Ma non è la pedanteria o la crudeltà che induce l’istruzione a rifiutare il modello di apprendimento infantile del linguaggio; essa vi è obbligata da due necessità ben determinate: per un verso, proprio la spontaneità esaltata da Decroly rende limitato e insicuro l’apprendimento infantile del linguaggio, e suscita l’esigenza della scrittura e della scienza grammaticale, che, in quanto universali, sono consapevoli e volontarie; per altro verso, la struttura innata che sostiene l'apprendimento spontaneo infantile svanisce prima dell’età adulta, e per apprendere ogni ulteriore conoscenza e abilità l’adulto non può contare soltanto sulla spontaneità e sull’imitazione, ma deve ricorrere all’insegnamento e allo studio. D’altra parte, se la capacità di apprendimento spontaneo producesse conoscenze e abilità universali, non ci sarebbe bisogno di scuole, né di quelle tradizionali né di quelle obbedienti ai canoni pedagogici.


L’apprendimento in generale come lavoro

Solo il bambino può imparare a parlare con gioia e senza sforzo. L’apprendimento infantile della lingua madre rientra così nella categoria di gioco, ossia di un’attività, comune all’uomo e a parte degli animali, svolta per il piacere di svolgerla, e non in vista del risultato che comunque viene conseguito, assorbita dunque nel presente e non volta al futuro. Ogni altro apprendimento rientra invece entro la categoria di lavoro, ossia è un’attività volontaria e basata su conoscenze consapevoli, nella quale mezzo e fine sono separati, non identici come nel gioco. A causa di questa separazione, la volontà deve imporsi la fatica di usare il mezzo per essere compensata dalla gioia del fine realizzato. Anche nel lavoro c’è dunque gioia, ma futura, non presente, una gioia che bisogna meritare. Solo la gioia meritata del lavoro è peraltro degna dell’adulto; solo il lavoro è propriamente umano; nell’uomo il gioco non occasionale si lega sempre al vizio e al senso di colpa.


Il rifiuto del lavoro scolastico in Dewey

Dewey si ribella al fatto che ogni apprendimento successivo a quello della lingua materna è consapevole e volontario come il lavoro. Nel suo «Credo pedagogico» egli scrive (Carbotti, 1974, p. 82):

l’educazione è [...] un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro. La scuola deve rappresentare la vita attuale – una vita altrettanto reale e vitale per il fanciullo di quella che egli conduce a casa, nel vicinato o nel campo di gioco.

Per la pedagogia naturalistica il futuro, a cui essa di solito sacrifica tutto, ha solo il significato di nemico del presente, non quello di sua conseguenza. È così che queste affermazioni sono un nido di false antitesi. Proprio perché è un processo di vita, l’educazione in generale è anche preparazione al vivere futuro. Infatti la vita di cui Dewey parla è quella umana, non quella animale o quella ripiegata nella puerilità, quindi è qualificata non tanto dal gioco, che si immerge nel presente, quanto dal lavoro, cioè dal rapporto mezzo-fine, che è essenzialmente rapporto tra presente e futuro. – Proprio perché rappresenta la vita reale umana, che è lavoro e solo marginalmente gioco, l’attività scolastica è lavoro, quindi deve essere differente dalla vita giocosa che il bambino continua a condurre a casa, nel vicinato o nel campo di gioco.

Il primo significato educativo della scuola è che essa sollecita il salto del bambino dalla spontaneità del gioco alla consapevolezza e alla volontarietà del lavoro. È questo superamento della spontaneità il senso e il fascino irresistibile della favola di Pinocchio. La pedagogia naturalistica che si ribella a questa verità tradisce il bambino: la sua scuola, che esclude da sé il lavoro consapevole e si conforma al modello del gioco spontaneo, rinuncia ai risultati cognitivi.


L’imbarazzo puerocentrico di fronte all’insegnamento della scrittura

Proprio all’inizio, insegnando la scrittura, la scuola stacca i bambini dalla spontaneità e li conduce al rapporto consapevole e volontario con il linguaggio. Infatti, a differenza dell'apparato fonatorio che ha bisogno di parlare e dunque impara a farlo spontaneamente, purché ci sia qualche parlante da imitare, la mano è predisposta dalla natura ad afferrare i rami, non alla scrittura, che dunque è agli inizi un atto inevitabilmente artificiale e faticoso, che richiede l’io e la sua volontà. Non è allora un caso che già la scrittura, base ideale e materiale di tutta l’attività scolastica, e a maggior ragione la grammatica e le lingue dotte, siano sempre state fonti di grave imbarazzo per la pedagogia naturalistica. Stigmatizzata la lettura come «flagello dell’infanzia» e ridotti i problemi della scrittura a una sciocchezza, Rousseau scrive che «prima dei dodici anni, Emilio non saprà che cos’è un libro» (Rousseau, 2016, pp. 197 e sgg.). Dewey dichiara di voler porre l'insegnamento formale, quello dei segni, in seconda linea rispetto alle attività manuali del bambino (Carbotti, 1974, p. 114). In perfetto stile rousseauiano anche la Montessori ritrae a tinte drammatiche il superamento della spontaneità (Montessori, 2023, p. 193):



Tutti sappiamo che il primo scoglio della scuola è il leggere e scrivere: primo tormento dell’uomo che deve sottomettere la propria natura alla necessità della civilizzazione.



Ella ha escogitato un metodo per l’apprendimento «spontaneo» della scrittura, mascherando come giochi le complesse esercitazioni preparatorie necessarie. Nel mondo anglosassone degli anni ’80 e ’90 la pedagogia naturalistica, ignorando rozzamente l’artificialità della scrittura, ha infine adottato il «metodo» del whole language, del «linguaggio intero» (Hirsch, 2020, p. 81). Esso consisteva 1) nel risparmiare ai bambini la memorizzazione delle corrispondenze tra grafemi e fonemi, 2) nel collocarli tra fogli, quaderni e libri stampati, perché si risvegliasse in loro l’istinto di lettura e di scrittura, 3) nella speranza che giungessero all’abilità di lettura indovinando i significati delle parole a partire dal contesto. In sostanza, si voleva eliminare il lavoro di memorizzazione e, facendo leva su un ipotetico appetitus scribendi, lo si voleva sostituire con il gioco degli indovinelli, in modo che i bambini potessero imparare spontaneamente la lingua scritta come se fosse lingua orale. La faciloneria del metodo whole language ha diffuso un’epidemia così grave di analfabetismo che esso è caduto infine in discredito ed è stato proibito.

La pedagogia compromessa con il naturalismo rifiuta il «tormento» nell’apprendere la lettura e la scrittura perché non sa coglierne il significato spirituale. Mentre la spontaneità infantile è connessa all’onnipotenza ingenua dell’io immaturo, la civilizzazione non è soltanto corruzione dell’innocenza primordiale, come il naturalismo crede (una corruzione che l’innocenza non può evitare, dunque pienamente legittima), ma è la libertà adulta – con formula hegeliana, riconoscimento di sé nell’altro, vale a dire 1) prendere atto della differenza e 2) compiacersene come di una ricchezza. Poiché la scrittura è dare all’ascoltatore un’immagine durevole del discorso (scripta manent), dunque comporta l’esposizione del parlante alla lettura critica, la fatica della scrittura può essere certo alleviata dalla sagacia degli insegnanti, ma non va eliminata del tutto, perché è l’inizio della fatica feconda insita nel riconoscere la legittimità dell’altra visione, l’inizio della difficile disposizione all’ascolto benevolo e alla lettura attenta di ciò che è dapprima al di fuori del proprio orizzonte e dunque disturba: una fatica necessaria da cui germoglia la prima ricchezza dell’umanità – l’atteggiamento scientifico.


Il gioco trasfigurato in esperienza, l’esperienza trasfigurata in scienza

La scienza è il discorso che provoca e assorbe la critica. I naturalisti la esaltano soltanto per errore, perché la identificano con l’osservare ingenuo in cui l’onnipotenza ingenua dell’io si continua indisturbata. È così che Hirsch ha potuto rimarcare l’abitudine della pedagogia di costruirsi una psicologia tutta sua, indifferente alla psicologia ufficiale (Hirsch, 1999, pp. 127 e sgg.). Ma essa si è costruita anche un’epistemologia su misura.

Fare esperienza significa esporsi all’estraneità delle cose, che è scomoda, anche pericolosa; il naturalismo pedagogico la concepisce invece come baloccarsi in un ambiente protetto. – Dopo aver trasfigurato il gioco in esperienza, esso trasfigura l’esperienza in scienza; dopo aver, cioè, trascurato la dura estraneità delle cose d’esperienza, trascura che lo scienziato giunge a conoscere le leggi naturali non perché faccia scampagnate, ma perché padroneggia l’astrazione e può interrogare la natura a partire da ipotesi matematiche. L’affermazione di Dewey «che nella storia della razza le scienze sono nate gradualmente dalle occupazioni sociali utili» (Carbotti, 1974, p. 121) è priva di qualunque fondamento storico e logico: le scienze non nascono dai lavori manuali, ma dalle scoperte a cui conduce l’interesse puramente teorico. Galilei definisce infatti il suo metodo non come «occupazione sociale utile», ma come unione di sensate esperienze e certe dimostrazioni, e con stupenda intuizione dell’essenza scritturale della natura la paragona a un libro scritto da Dio con caratteri matematici.

Dalla trasfigurazione del gioco in esperienza, che consente di eliminare la dura estraneità delle cose, e dalla trasfigurazione dell’esperienza in scienza, così da risparmiarsi la dura astrazione teorica, risultano due illusioni – che il bambino sia già uno scienziato e che lo scienziato sia solo un bambino. Questa faciloneria opera il prodigio di una didattica affidata tutta all’alunno in ambiente ludico e immersivo, e nondimeno idonea a condurre all’acquisizione del metodo scientifico e del pensiero critico.



Das Unzugängliche, L’inaccessibile,

Hier wird's Ereignis; Qui si fa evento:

Das Unbeschreibliche, L’indescrivibile,

Hier ist's getan. Qui è realtà.



È il pensiero magico che si possa apprendere facilmente il difficile a insinuarsi nella didattica attraverso l’abitudine di chiamare all’americana – con l’acronimo STEM – le discipline matematiche, scientifiche e tecnologiche. La tecnologia si basa però sulla scienza, e la scienza affronta l’estraneità della natura poggiando sulla logica e sulla matematica, che sono non giochi immersivi, ma discipline eminentemente teoretiche, quella perché indugia sui rapporti immanenti negli elementi linguistici, questa perché deduce le sue conoscenze da assiomi. Senza il duro lavoro dell’astrazione teorica, l’apprendimento delle STEM è destinato a restare un miraggio.


Le fonti della conoscenza

Tre sono dunque le forme della conoscenza umana: 1) quella spontanea e giocosa dell'imitazione, che consente di apprendere magicamente il linguaggio orale, ma che è diretta all’oggetto singolo e dura pochi anni; 2) quella laboriosa della scuola, che permette l’accesso alla tradizione in cui è contenuto il tesoro delle leggi già scoperte dai geni del passato; infine 3) quella avventurosa dell'esperienza, che presuppone la conoscenza scolastica e solo così può affrontare la realtà ancora inesplorata. La pedagogia puerocentrica è l’illusione che la forma conoscitiva adulta, l’esperienza, possa essere conseguita mediante un’attività ludica che stimoli lo sviluppo naturale della mente, senza l’acquisizione diretta delle conoscenze già disponibili. Di qui la sua intolleranza oscurantista per la didattica trasmissiva guidata dall’insegnante.


Gli equivoci del costruttivismo pedagogico

Essa accusa gli insegnanti trasmissivi di riversare aride nozioni in menti passivizzate, che le conservano fino alla verifica scolastica e subito dopo le lasciano svanire. È invece esperienza comune che le tracce degli argomenti studiati a scuola restano per tutta la vita con un’aura di importanza superiore. Inoltre la vaghezza delle aride nozioni non le rende meno indispensabili per comprendere le comunicazioni quotidiane e per dare inizio a ulteriori conoscenze (Hirsch, 1988, pp. 1-9). Le sublimi abilità cognitive di cui favoleggiano i pedagogisti poggiano sul lessico; leggere e scrivere non sono solo attività meccaniche, ma hanno bisogno del possesso di un ricco vocabolario, di numerose nozioni; il pensiero critico non è compatibile con l’ignoranza ed è annullato dalla mancanza di parole a cui la polemica contro le nozioni ha condotto. Infine, come ha mostrato Hirsch (Hirsch, 1999, pp. 133 sgg.), il ricorso della pedagogia progressiva al costruttivismo per criticare la didattica trasmissiva e per fare degli alunni i protagonisti della loro formazione si risolve in un doppio fallimento.

Il costruttivismo è la versione psicologica della gnoseologia di Kant; esso mostra che nel recepire sensazioni e informazioni non siamo solo passivi, ma diamo loro una forma attingendo dagli schemi formatisi con le conoscenze già accumulate; conferma dunque l’antica osservazione che le facoltà mentali non sono separate, che come non si può conoscere senza avere percepito e memorizzato, così si percepisce e si memorizza solo alla luce di ciò che si conosce. Tuttavia, come ha mostrato Hirsch (Hirsch, 1999, pp. 245-246), il costruttivismo non porge alla pedagogia puerocentrica argomenti contro la didattica trasmissiva e contro il ruolo di guida dell’insegnante. Esso rileva infatti che il soggetto è sempre attivo, e se il soggetto è sempre attivo, è impossibile che la didattica tradizionale riduca gli alunni alla passività. Dal costruttivismo psicologico segue così che l'insegnante tradizionale non potrebbe trattare i suoi alunni come recipienti vuoti da riempire, neanche se lo volesse. La pedagogia accusa falsamente gli insegnanti tradizionali di limitarsi a tenere conferenze in classe, le mitiche lezioni frontali, mentre da sempre, dopo aver tenuto lezioni aperte al dialogo continuo con gli alunni, essi li fanno esercitare, e in ogni caso verificano, correggono faticosamente gli elaborati e li valutano; ma anche qualora si limitassero a una conferenza, essi dovrebbero rivolgersi all’attenzione degli alunni, vale a dire al loro sforzo attivo di astrarre dai rumori esterni e dall’immaginazione interna, per comprendere il senso dei discorsi. Le accuse della pedagogia alla didattica trasmissiva sono false nel concetto e nei fatti.


La didattica trasmissiva è coerente e universale

La differenza tra le due didattiche non è dunque quella tra attività e passività dell’alunno, ma è quella tra attività e passività dell’insegnante. Come ha osservato Vygotskij (Vygotskij, 1990, p. 265.), l’insegnante trasmissivo è attivo: non si limita a seguire lo sviluppo naturale dell’alunno, ma lo anticipa facendo emergere dalla sua zona di sviluppo prossimo potenzialità altrimenti destinate ad atrofizzarsi. Il docente della scuola trasmissiva non attende gli alunni, ma li trascina a padroneggiare consapevolmente il molto che hanno già assorbito senza accorgersene. Può farlo perché conosce e ama una scienza sistematica, che inizia dalle nozioni più semplici e procede verso quelle più complesse, e che gli consente di rispondere al perché delle cose. Inoltre egli può adattarla alla classe, non nel senso deteriore di rimettere la scelta degli argomenti all’umore dei singoli alunni, ma nel senso che sceglie il giusto ritmo per trascinare tutti. Infine, le conoscenze trasmesse dalla didattica tradizionale sono anche comuni a tutti e virtualmente presupposte in ogni comunicazione linguistica. Mentre approfondisce la sua consapevolezza del mondo, l’alunno della scuola trasmissiva amplia anche le dimensioni della comunità con cui può condividere il suo mondo.


La didattica puerocentrica abbandona il bambino a sé stesso

Invece la didattica naturalistica, nell’intento di fare dei singoli alunni i protagonisti della loro formazione, rinuncia ai loro interessi oggettivi, si chiude nel piccolo orizzonte dei loro desideri consapevoli e aspettando passivamente la loro evoluzione naturale sciupa nell’inerzia il prezioso tempo scolastico. Il suo errore di fondo è la rinuncia a valorizzare il sentimento che il bambino ha della sua imperfezione e che genera il desiderio di diventare grande: «La necessità di ricevere l’educazione è nei bambini come interno sentimento di scontentezza di sé per come sono – come spinta ad appartenere al mondo degli adulti da essi presagito come superiore, desiderio di diventare grandi. La pedagogia giocosa prende il puerile per qualcosa che vale in sé stesso, lo propone come tale ai bambini e degrada la serietà e sé stessa in una forma puerile, poco apprezzata dagli stessi bambini. Poiché tende a rappresentarli perfetti nell’imperfezione in cui si sentono e di renderveli soddisfatti, essa disturba e profana il loro vero bisogno migliore, e produce in parte indifferenza e insensibilità ai rapporti sostanziali del mondo spirituale, in parte disprezzo degli uomini, perché questi si sono presentati puerili e spregevoli a loro come bambini, e poi vanità e presunzione compiaciute della propria eccellenza» (Hegel, 1821, § 175n).





Come funziona la scuola americana



Dal momento che sta invadendo le scuole italiane a cominciare dai martoriati istituti professionali, vediamo il funzionamento della didattica puerocentrica nelle scuole elementari degli Stati Uniti, quale lo descrive Hirsch nel suo ultimo libro (Hirsch, 2020, pp. 37 sgg.). Nell’aula, ovviamente, non c’è una cattedra a cui siano rivolti i banchi degli alunni, ma ci sono 4 o 5 tavoli vicino alle pareti, i centri. Attorno a ciascuno di essi siedono i gruppi di 4 o 5 alunni. Sui tavoli l'insegnante ha predisposto dei materiali, non secondo un piano sistematico basato sulle discipline, ma secondo la sua previsione degli interessi di ogni singolo alunno. Dopo che questi hanno finito di esaminare i materiali e hanno svolto le attività che essi consentono, l’insegnante suona una campana, i bambini cambiano centro e cominciano le nuove attività, sconnesse dalle precedenti, in un altro «centro». L'insegnante è di solito vicino a uno dei gruppi o a uno degli alunni, si dedica alle competenze di lettura, scrittura e calcolo, su un materiale ovviamente raccolto a caso, e intanto spera che tra gli alunni degli altri gruppi, che sta trascurando, si instauri un dialogo attinente a temi scolastici e non scoppi il pandemonio. La personalizzazione dell’apprendimento, che i pedagogisti continuano a esaltare in modo acritico, comporta che l’insegnante, nel dedicarsi a uno, trascuri tutti gli altri, così che per gran parte del tempo-scuola gli alunni sono lasciati a sé stessi. Nel corso degli anni la frammentazione dell’esperienza scolastica rende impossibile la coerenza del curricolo e lo sviluppo di un linguaggio comune. Lontano dalla conoscenza sistematica e universale, il costruttivismo pedagogico è dominato dall’inerzia, dalla noia e dall’isolamento tra gli alunni. In una parola, esso consiste nell’abbandonare i bambini a sé stessi.

Non stupisce dunque che la scuola americana sia divenuta pericolosa per chi la frequenta. Essa è infatti faticosa per gli insegnanti, alla ricerca affannosa di materiale per attrarre l’attenzione degli alunni; ma è anche noiosa per gli alunni che restano chiusi nella loro singolarità ed escono dalla scuola ignoranti.


L’ignoranza come mezzo per conseguire le abilità cognitive

La pedagogia naturalistica non se ne preoccupa. Applicato alla complementarità tra conoscenza e abilità cognitiva, il suo culto della falsa antitesi si sublima nel dogma che l’ignoranza sia condizione necessaria per formare alunni creativi e che pensano con le loro teste. È questa la fede alla base della didattica per competenze. Essa crede che si possano acquisire le abilità cognitive (skill) senza memorizzare cognizioni, dunque che si possa pensare criticamente un argomento – senza esserne informati; che si possano usare le tecniche di pensiero degli esperti – senza possedere la loro erudizione; che si possa apprendere per tutta la vita – iniziando ogni volta dal nulla; che si possa imparare ad imparare – senza avere imparato qualcosa. In una parola, la didattica per competenze concepisce le skill come ultimo gradino di una scala da raggiungere avendo saltato i gradini precedenti, liberi dalle conoscenze come se fossero una zavorra; non comprende che le conoscenze non possono essere separate dalle abilità perché la conoscenza, come costruzione logica, è in sé stessa abilità e l’abilità non è altro che il dominio sulle proprie conoscenze. Persino la psicologia ha dimostrato ad abundantiam che l’esperto è tale in virtù delle conoscenze memorizzate, cioè dell’erudizione, oggi così vilipesa nelle scuole; Adriaan de Groot ha mostrato che si è gran maestri nel gioco degli scacchi non per un’astratta abilità scacchistica, ma perché si conoscono e si ricordano circa 50000 partite (Hirsch, 1988, pp. 61 sgg). Lungi dall’essere una zavorra, le conoscenze memorizzate determinano l’evoluzione mentale e persino materiale del cervello.


La diffusione della didattica puerocentrica in Europa sull’onda dell’ugualitarismo

L’esito della pedagogia puerocentrica è la catastrofe, ovunque sia adottata. Nonostante il disastro provocato negli Stati Uniti, essa è stata importata in Europa. Su questo acquisto ha influito certamente l’entusiasmo per il mito americano. Ma il passo decisivo si è compiuto con i rifiuti radicali nel ‘68. Il puerocentrismo europeo non presuppone, come quello americano, un’idea astratta di libertà, ma un’idea astratta di uguaglianza. Per questo nelle nostre scuole si respira l’atmosfera autoritaria della burocrazia sovietica.

Narra Hirsch (Hirsch, 2020, pp. 131-132) come in Francia gli studenti del ’68 abbiano contestato la scuola, fino ad allora una delle più ugualitarie ed efficaci del mondo, sulla base di uno studio di Pierre Bourdieu e di Jean-Claude Passeron, Les héritiers. Costoro sottoposero la scuola francese a un processo da un punto di vista ugualitario. Ripetettero cioè il vecchio errore di Rousseau di credere che l’uguaglianza tra gli uomini sia un dato naturale e che la civiltà la renda impossibile. Non capivano che è la natura a farci disuguali e che solo la nostra civiltà è giunta lentamente, a partire dal cristianesimo, a riconoscere l’uguaglianza della persona in ciascuno. L’uguaglianza è una costruzione giuridica e la scuola pubblica è uno degli strumenti più potenti della sua realizzazione, perché permette a chiunque di accedere alla comunicatività linguistica e, se ha talento e diligenza, di giungere ai livelli più alti della società qualunque sia la sua origine familiare. Ai due sociologi non bastava. Essi non si accontentavano di nulla di meno dell’annullamento della disuguaglianza. Ma la scuola può tentare di annullare le disuguaglianze tra gli alunni solo al suo interno (perché non è padrona della società) e solo se si limita al minimo, ossia solo se diventa il paese dei balocchi e trascina tutti verso l’ignoranza. Di questo tipo furono le riforme ispirate dalla commissione Bourdieu, attuate in Francia nel 1989. Esse ebbero come esito immediato la catastrofe dei livelli di apprendimento.

In Italia il testo che più ha prostrato la scuola è stato la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana. Essa condannava l’istruzione gentiliana perché diretta non a istruire tutti, ma a conservare il privilegio sociale. Per quanto giustificata fosse la sua polemica contro gli intenti selettivi di un tempo, Don Milani restò prigioniero, come Bourdieu, della falsa antitesi tra uguaglianza e qualità. È essenziale che esse siano perseguite insieme. Invece, purché nessun alunno fosse escluso dalla scuola, Don Milani si dispose a rinunciare alla sua qualità, polemizzando contro la grammatica, contro la matematica, contro l’Omero di Monti, contro il latino.

Quattro anni dopo, il movimento studentesco ha favorito l’avvento della pedagogia naturalistica anzitutto diffamando la didattica delle conoscenze, con la stupida polemica contro le nozioni. Poiché le si dà ancora credito, è utile ribadire che ogni parola è una nozione, che dunque rinunciare alle nozioni è rinunciare alle parole, cioè ridursi alla mutezza o al verso animale. Per la tipica deformazione del puerocentrismo che vuole raggiungere i fini ma sdegna i mezzi, l’esigenza sessantottina di una conoscenza critica ed esplicativa commette il controsenso di respingerne le componenti elementari.

Inoltre il ’68 ha abolito l’autorità dell'insegnante, perché vi ha intravisto la figura dell’oppressore, senza capire che l’insegnante fa lavorare gli alunni non, come l’imprenditore, per il suo profitto (che peraltro è una forma di reddito pienamente legittima), ma per il loro vantaggio. Gli alunni non hanno nulla da guadagnare da un insegnante che si rassegni alla loro pigrizia.


La didattica puerocentrica trasforma le differenze di classe in differenze di casta

La fine della scuola trasmissiva per amore dell’uguaglianza non poteva che realizzare il contrario dell’uguaglianza, come tutte le buone intenzioni del puerocentrismo. La conoscenza non è solo la sostanza del pensiero, ma è anche una condizione per svolgere le professioni dirigenti, quelle più ambite. Una scuola che non trasmette conoscenze abbandona gli alunni a sé stessi, e in questo annulla le differenze al suo interno, ma non per questo riduce tutti i ragazzi al triste egualitarismo dell'ignoranza. Infatti la scuola non è il loro unico ambiente di vita. Essi vivono anzitutto in famiglia e le famiglie non sono tutte uguali. Ci sono quelle che educano i loro figli al linguaggio corretto e all’interesse per la cultura e per la scienza, ci sono quelle che non lo fanno. Abbandonando gli alunni a sé stessi, la scuola puerocentrica non dà a quelli svantaggiati ciò che essi non hanno avuto in famiglia. La conseguenza è che l’ugualitarismo dell’ignoranza all’interno alla scuola diventa differenziazione classista all’esterno della scuola: lo status della famiglia di provenienza diventa più decisivo che mai per i risultati scolastici e per il destino degli alunni, le differenze di classe si approfondiscono e la scuola non è più in grado di assicurare la mobilità sociale sulla base del merito, che è l'unica forma di uguaglianza possibile al di fuori dell’utopia. Ne era consapevole Antonio Gramsci, che condannò la didattica attiva come una forma di regressione a una società divisa non in classi, ma in caste.


La pedagogia naturalistica contro gli adulti

La pedagogia naturalistica, con il suo puerocentrismo, con le sue false antitesi, con la sua esaltazione dell’ignoranza, consiste in un insieme di richieste contraddittorie. Essa ne sospetta l’ineseguibilità, ma, anziché sottoporle a critica, le esalta come ideali irraggiungibili a causa non solo della loro sublimità ma anche della spregevolezza degli adulti che dovrebbero soddisfarle. Essa li colpisce con una violenza che può esasperarsi fino alla condanna in blocco dei genitori, come quella pronunciata dalla Montessori (Montessori, 1999, p. IX):

Finalmente, dopo trent’anni di studi, noi consideriamo il fanciullo come un essere umano sfalsato dalla società e, prima ancora, da coloro che gli hanno dato e gli conservano la vita. Che cos’è l’infanzia? Un disturbo costante per l’adulto preoccupato e stancato da occupazioni sempre più assorbenti.

Oppure può spingersi a condannare in blocco la scuola, come fa Raffaele Laporta (Laporta, 1968, p. 158):

Non abbiamo illusioni sulle capacità della scuola. In senso tecnico, la scuola si può considerare uno dei maggiori fallimenti realizzati dall’umanità nei propri confronti... La causa prima di ciò va individuata... nel fatto che non è stato mai possibile, e non è possibile tuttora, far coincidere le procedure di insegnamento con i processi naturali di apprendimento umano e specificamente infantile.

Mentre della Montessori si può osservare che con la sua condanna colpisce soprattutto sé stessa, di Laporta si può dire che è così irretito dal naturalismo da non accorgersi che l’espressione «processo naturale di apprendimento umano» è contraddittoria: ciò che è umano non è semplicemente naturale. Tanto meno si accorge che un processo naturale di apprendimento è spontaneo, dunque non ha bisogno di insegnamento. Non è certo colpa della scuola se non può far coincidere la didattica con una contraddizione e se cerca di rendersi utile insegnando, ma della pedagogia puerocentrica, che nella sua sconsideratezza si rappresenta il contraddittorio come possibile e l’inutile come desiderabile. Il ritorno della scuola a sé stessa è la sua liberazione dalla pedagogia sviata.


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