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martedì 28 dicembre 2021

Sui limiti dell'uguaglianza 1 (P. Di Remigio)

(Questa è la prima parte di un lungo contributo dell'amico Paolo Di Remigio sulla genealogia culturale della sinistra italiana. Il testo mi sembra meritevole di lettura e riflessione critica, pur non condividendone alcune conclusioni. M.B.)

Qui la seconda parte. Qui la terza parte.




sui limiti dell’uguaglianza. Un contributo alla destalinizzazione della sinistra italiana.

Paolo Di Remigio

 

INTRODUZIONE

Da qualche anno giornalisti e intellettuali progressisti confessano al pubblico le loro preoccupazioni per il risorgere del fascismo in Italia[1]. Sembra quasi che esso non sia stato un regime politico nato da precise circostanze, nuovo per i suoi stessi fautori e di breve durata, ma sia un archetipo eterno, radicato nell’anima italica, sempre pronto a eludere i presidi della civiltà e a portarle un attacco devastante. Così la storia, anziché decorso irreversibile e imprevedibile, si riduce a uno scontro tra le forze eterne del bene e del male: concepire il fascismo come forza significa farne una totalità; concepirlo come male consente di giudicare il contrario del fascismo come bene o almeno come male minore; e poiché il fascismo è non solo il male, ma il male eterno, si impone la conclusione che ci sia un antifascismo eternamente dalla parte della ragione.

Uno sguardo alla storia effettiva svela l’inconsistenza di simili elucubrazioni. Il fascismo è creatura del più autorevole dirigente socialista di inizio secolo, che si è staccato dal suo partito in seguito alla polemica sull’intervento in guerra dell’Italia, e gli è divenuto ostile. Dapprima è un movimento senza seguito elettorale e dal programma equivoco, socialista e antisocialista insieme, per effetto della biografia del suo fondatore, ma dalla prassi univoca: la sua attività consiste nel combattere le agitazioni socialiste durante il «biennio rosso». Poi, combinando la violenza con la complicità degli apparati dello Stato e dei centri di potere tradizionali, Mussolini diventa capo di governo nel 1922, dittatore nel 1925. Vent’anni dopo il suo regime è travolto dalla sconfitta militare.

In generale, ogni vittoria dipende non solo dalla forza del vincitore, ma anche dagli errori dello sconfitto; in questo caso gli errori sono così enormi da costituire un aiuto sistematico all’avversario: il fiuto politico di Mussolini, la sua attitudine alla violenza non lo avrebbero portato da nessuna parte, se la sinistra del tempo non lo avesse favorito con una linea politica folle. Contrariamente a quanto avrebbero desiderato gli attuali progressisti, il partito socialista non vede affatto nel fascismo l’emergenza dell’eterno nemico, né si preoccupa di combatterlo. Ha ben altre cure. Il putsch bolscevico in Russia, quantunque già degenerato in una selvaggia guerra civile, l’ha posto in stato di ebbrezza rivoluzionaria; così, sebbene la maggioranza relativa ottenuta alle elezioni del 1919 lo abbia destinato alla guida politica dell’Italia, il partito socialista rifiuta di stringere alleanze di governo con popolari o liberali; preferisce conservare la propria purezza ideologica, sabotare l’odiato Stato borghese e alimentare nel popolo la volontà di fare come in Russia, senza peraltro organizzarsi per la guerra civile. Per un verso, con le loro velleità eversive i socialisti spingono la società ad apprezzare la reazione fascista; per altro verso, paralizzano il Parlamento e vanificano ogni possibilità di governo antifascista. In questo modo «la sinistra era salva e con ciò la tradizione. Che importava il resto? Che importava se il Partito, mentre si illudeva di andare a sinistra, andava invece a destra e faceva il gioco della reazione come meglio non si saprebbe immaginare?»[2].

Anche di fronte al compito di spiegare il nazismo, si allude alla riforma religiosa di Lutero o all’idealismo filosofico, si scava sul terreno delle tradizioni o della genetica dei tedeschi, e si trascura il dato storico, vale a dire la capacità della paranoia hitleriana di dare una spiegazione falsa ma semplice, dunque convincente, degli avvenimenti che più avevano sconvolto la Germania del tempo: l’estenuante guerra mondiale, la sconfitta, il folle trattato di pace, gli avvenimenti in Russia, la presenza di numerosi ebrei tra i dirigenti bolscevichi[3], il terrore della Čeka, i tentativi del Comintern di esportare la rivoluzione in Germania, la crisi economica... Nella mente di Hitler questa congerie di fatti si combina nel delirio di un complotto ebraico mondiale contro la civiltà germanica, da sventare con una guerra definitiva che ribalti l’esito del primo conflitto mondiale, schiacci il bolscevismo, stermini gli ebrei e conquisti un Lebensraum a danno degli slavi per il nuovo Reich millenario.

Come in politica interna è un fenomeno non originario, ma di risposta a una sollecitazione precedente, così in politica estera il fascismo, tanto nella versione italiana quanto in quella tedesca, non è comprensibile se non a partire da due sforzi reattivi storicamente condizionati e irripetibili: la revanche nei confronti dell’Intesa che aveva «mutilato» la vittoria italiana e sconfitto la Germania, e la guerra civile contro il bolscevismo e il suo piano di rivoluzione mondiale.

Se il fascismo è un regime reattivo e irripetibile, l’antifascismo è molto meno di questo: non l’orientamento di un gruppo politico omogeneo, ma la qualifica di un’alleanza occasionale tra potenze nemiche, una delle quali totalitaria e in lotta per sopravvivere a un’invasione devastante, le altre pluraliste e in lotta per motivi geopolitici, perché non possono consentire che la Germania domini l'Eurasia e raggiunga l’egemonia mondiale. Ne segue che l’enfasi sulla nozione di antifascismo comporta due forzature: quella di assimilare pluralismo occidentale e comunismo e quella di cancellare il ruolo originario di quest’ultimo nella genesi dei totalitarismi novecenteschi[4]. Sul piano logico, essa manca della minima unità interna che la eleverebbe alla dignità del concetto; sul piano storico, sconfitte le potenze fasciste, annientati i loro regimi, rieducati al pluralismo i paesi occupati, per gli anglosassoni il fascismo è estinto, e li preoccupa così poco che usano i suoi residui come manovalanza nella lotta contro il comunismo. I partiti stalinisti hanno invece mistificato il fascismo come eterno nemico e dell’antifascismo hanno fatto un certificato di umanità, per conseguire tre vantaggi propagandistici: anzitutto quello di mascherare la loro violenza deliberata e originaria come risposta a una precedente violenza, poi quello di promuovere una perfetta congruenza tra fascismo e orrore, così da rendere invisibile e impensabile l’orrore comunista e da poter usare il ricordo della crudeltà nazista per minimizzare il poco che è trapelato della loro; infine il vantaggio di mostrare il comunismo come veicolo di un necessario progredire dell’umanità iniziato dall’illuminismo. L’antifascismo è la maschera progressista sull’inferno comunista.

Sebbene l’orrore della realtà comunista sia ammesso da tutti, tutti rispettano l’ideale dell’uguaglianza assoluta che il comunismo ha ereditato dall’illuminismo. Ritornandovi, i comunisti italiani si sono dunque giovati della generale e acritica venerazione dell’uguaglianza per consegnare all’oblio la loro complicità ideale e materiale con l’orrore ed evitare l’espiazione. Così sono passati indenni per la loro catastrofe storica. – L’accettare la conseguenza cattiva in virtù della sua origine da ideali sublimi è solo una variante del principio socialista di minimizzare la colpa dello sterminio con le buone intenzioni, quello che in epoca staliniana fece la fortuna del proverbio: «Лес рубят - щепкилетят», vale a dire «Quando si taglia il bosco, volano le schegge». Nel Vangelo è invece scritto: «Li riconoscerete dai loro frutti»[5], vale a dire la conseguenza cattiva svela la cattiveria che si dissimula nella forma irreale dell’intenzione. Assolvere il comunismo con l’ugualitarismo è, nel contempo, condannare l’ugualitarismo con il comunismo. Poiché in Italia gli ex comunisti hanno raggiunto un grande potere, per quanto di natura soltanto esecutiva, e lo esercitano avendo conservato tutto il loro tradizionale disprezzo della libertà individuale, si pone oggi il compito di una critica dell’ugualitarismo che promuova la destalinizzazione della cultura. Esso non può essere affrontato senza introdurre concetti in grado di mostrare la dialettica di determinazioni, come identità, come uguaglianza, la cui apparente assolutezza intimidisce il pensiero, inducendolo all’accettazione acritica delle teorie che le postulano.

1. LA DIALETTICA DELL’UGUAGLIANZA ASSOLUTA

L’esigenza di uguaglianza assoluta che il comunismo riprende dall’illuminismo nasce dall’ansia messianica: la volontà di scorgere soltanto ingiustizia nella storia e nel presente del mondo, e di credere in una futura società perfetta, in cui tutti saranno uguali. – Il presente e il passato abbondano di privilegi, ingiustizie e crudeltà da eliminare o almeno da attenuare; ma vi sono stati e vi sono anche merito, giustizia e compassione, vi è anche una razionalità già operante. Il messianismo non ha occhio per quest’ultima; esso identifica la disuguaglianza passata e presente con l’inferno, l’uguaglianza futura con il paradiso; la sua essenza non è l’imparzialità della ragione, ma la volontà di un cambiamento totale per cui siano distrutte una volta per tutte le differenze.

L’uguaglianza è un principio di importanza costitutiva per lo spirito umano; ma la sua semplicità è solo un’apparenza. – Si dice che gli uomini siano tutti uguali. La loro corporeità è tuttavia differente. Questa differenza ha un duplice significato: in quanto i loro corpi li rendono differenti, gli uomini sono riferiti gli uni agli altri; ma la differenza non è solo presupposto di comunità; poiché hanno un corpo, gli uomini possono anche essere trattati come oggetti. La differenza induce gli uomini a unirsi, ma può anche umiliarli. – D’altra parte gli uomini sono capaci di lottare e di morire, pur di mostrarsi come io e di non sottostare all’umiliazione, sono capaci di astrarre dal corporeo. Questo potere negativo, sempre a disposizione di ognuno, di rinunciare ad ogni oggettività pur di non essere ridotto ad oggetto, pur di conservare l’assolutezza del , è ciò in cui ognuno è uguale: l’uguaglianza non è un dato fisico, immediato, ma è legata alla capacità di trascendere la natura. – Nel suo desiderare una società di uguali, il messianismo commette dunque un duplice errore: da una parte non vede la natura duplice della differenza, dall’altra non vede che la semplicità dell’uguaglianza non è immediata, ma risulta dall’annullare l’immediatezza naturale, una semplicità riflessa[6].

La riflessione ha un significato anzitutto cognitivo: il caos delle cose immediate, la loro incoerenza, spinge il soggetto conoscente a concepirle come apparenze, cioè a superarle e a giungere a una semplicità stabile, l’essenza. La riflessione non è però un bisogno solo soggettivo, non è solo un procedimento esterno all’immediatezza: l’immediatezza è in sé stessa apparenza, determinatezza-che-non-è; e l’apparenza, come proprio non essere, si trascende nella semplicità ed è essenza. Il moto per cui l’apparenza nega sé stessa ed è l’essenza, è la riflessione in senso immanente.

Poiché la riflessione, come inquietudine del negativo che si trascende nel semplice, non è solo semplicità, ma sintesi di semplicità e negatività, le sue forme particolari sono relazioni tra un semplice e un inquieto, un positivo e un negativo (fondamento/fondato, cosa/proprietà, materia/forma, tutto/parti, sostanza/accidente, interno/esterno...). Tuttavia la riflessione, nel porre l’essenza, la presuppone: l’inquietudine dell’apparenza giunge all’essenza con il proprio annullarsi, dunque non come a un suo risultato, ma come a un originario. Per questa apparente originarietà, l’essenza appare assoluta, cioè irriflessa, identica a sé stessa, e tali appaiono le determinazioni che si sviluppano dall’identità: la differenza, ossia la diversità e l’opposizione, e la contraddizione. Nonostante la loro pluralità che ne svela la differenza e la relatività, queste determinazioni riflessive assumono così la forma di principi assoluti (di identità, degli indiscernibili, del terzo escluso, di contraddizione).

Poiché la sua relatività è eclissata, l’identità indica il persistere di qualcosa nella sua assolutezza, e sembra escludere la differenza, che indica il riferimento di qualcosa a un estraneo, dunque la sua limitatezza, estranea essa stessa all’identità. Identificare è tuttavia superare l’ambiguità inquieta e giungere all’assolutezza immobile. Lo stesso principio di identità, che tratta un ente come assoluto, inizia dal suo intreccio con altro; allo stesso modo, la proposizione identica un albero è un albero concepisce il soggetto come un’immobile assolutezza perché, ripetendolo nel predicato, astrae dalla sua ricchezza implicita. Proprio perché è un astrarre, risulta cioè da un ignorare la complessità inquieta, l’identità contiene il negare nella sua semplicità. In altre parole, l’identità è risultato semplice, ma appunto perché è risultato, è riferita a un percorso, e per questo suo riferimento non è semplice. Poiché è semplice e non è semplice, l’identità è differenza da sé. La sua verità non è la stabilità assoluta con cui si era presentata all’inizio, ma un rovesciarsi nel suo altro. – Lo stesso carattere inquieto è ancora più evidente nella differenza. Come differenza in sé, assoluta, essa è differente anche da sé, dunque è l’identità. Ma se è identica a sé, la differenza è appunto differenza, non identità; ma in questo modo è di nuovo differenza assoluta, quindi differisce da sé, e così via: come l’identità, anche la differenza non è una determinazione stabile, ma in unità con la sua negazione.

Il risultato della precedente dialettica è che identità e differenza non sono assolute e separate, ma ciascuna in unità con l’altra. – Questa loro unità si può indicare con la parola diverso. In questo contesto diverso significherebbe dunque un differente preso come identico a sé, cioè come assoluto, non riferito ad altri diversi. Poiché i diversi sono dei differenti isolati, la loro differenza non è svanita del tutto, ma è una relazione solo esterna, posta da un terzo: l’uguaglianza è l’identità esterna dei diversi; la loro differenza è la disuguaglianza. L’apparenza di assolutezza contenuta nell’identità è ancora più tenue nell’uguaglianza; questa ha infatti la sua base nei diversi, e in ogni diverso è unita alla disuguaglianza. L’intenzione messianica di realizzare l’uguaglianza assoluta si mostra già qui come una rappresentazione vaga e inconsistente, a cui non può corrispondere alcuna realtà, la cui realizzazione è quindi solo una distruzione.

L’unità di uguaglianza e disuguaglianza in un diverso è l’opposizione; l’uguale vi è il positivo, il disuguale il negativo. Il principio di opposizione, il principio del terzo escluso, secondo cui a ogni cosa spetta una determinatezza o la negazione di questa, rappresenta le cose non come separate, come diverse, ma in contrasto. – Il messianismo, che sogna la futura uguaglianza assoluta dei diversi, nel considerare il mondo presente si attiene alla sola opposizione e crede che essa sia una determinazione stabile, identica a sé, non meno dell’uguaglianza, che dunque il negarla implichi un atto esterno, divino, oppure una frattura rivoluzionaria. Ma i momenti dell’opposizione, il positivo e il negativo, sono ognuno il contrario di sé, sono cioè contraddittori: il positivo è infatti assoluto, ma anche non assoluto, perché riferito al negativo; viceversa, il negativo, il soltanto relativo, è anche per sé stesso, cioè assoluto. Con il contraddirsi dei suoi momenti l’opposizione si scioglie. Dapprima l’opposizione è un’unità di recalcitranti; ma in quanto positivi o negativi, i recalcitranti si riferiscono a sé come ad altro, e si riferiscono ad altro come a sé, cioè sono un respingersi da sé e un connettersi ad altro.

La contraddizione è dunque non contrasto, conflitto[7], ma la sua soluzione. Il contraddittorio è in contrasto con sé ed è in unità con la sua negazione; quindi la contraddizione è l’aprirsi di un opposto all’altro e lo svanire dell’estraneità che li rendeva incompatibili. L’opposizione non è soppressa dall’eliminare il negativo, la differenza, come crede il messianismo, perché il positivo, l’identico, è in sé stesso un contrasto con sé e un riferirsi al negativo, dunque rigenera il contrasto; è soppressa dal rilevare che ogni opposto è il superarsi e l’unirsi all’altro opposto. – Questo moto è espresso nella determinazione del fondamento e nel corrispondente principio di ragion sufficiente; ma in questo contesto di filosofia della politica possiamo indicare la reciproca integrazione dei differenti con il termine di complementarità.

Per quanto forse irritanti per la loro sottigliezza, queste considerazioni contengono due importanti conseguenze: la prima è la natura astraente, negativa, dell’identità: l’identità è astrazione assoluta e si realizza solo come negazione del determinato; la seconda conseguenza la sua inquietudine: una contraddizione la agita e la spinge in uno sviluppo i cui momenti confluiscono nella determinazione del fondamento, ossia nella complementarità di uguaglianza e disuguaglianza. L’esito complesso delle determinazioni riflessive non è dunque una preferenza arbitraria, ma il risultato della dialettica loro immanente; è la loro dialettica a travolgere il purismo dell’identità e dell’uguaglianza e a sancire la verità del combinarsi dei complementari.

Nulla può essere conosciuto o vissuto positivamente in termini di sola uguaglianza, ma solo in termini di congiunzione tra uguaglianza e disuguaglianza. L’identico e l’uguale incantano il pensiero ancora ingenuo, perché sono semplici, e la semplicità sembra un carattere della verità. Così non è. La verità, come adaequatio rei et intellectus, non è semplice, ma il corrispondersi di conoscenza e oggetto. Non in quanto sono uguagliate, ma in quanto sono complementari, le determinatezze della persona, cioè le differenze di età, di sesso, di talento e di educazione, cessano di essere limiti e diventano un’esuberanza. L’amore, la collaborazione, lo scambio, la conoscenza critica... sono certamente un’uguaglianza; l’uguaglianza esprime infatti l’identità dei diversi; sono però un’uguaglianza in cui gli uguagliati non si semplificano in unità identiche, ma costituiscono unità più ampie, sono un’uguaglianza che conserva e valorizza la differenza come tale. Lo stesso ordine gerarchico, in quanto è una reciprocità condivisa del comandare e dell’obbedire, contiene il momento dell’uguaglianza delle persone. Tutto ciò che la vita ha di prezioso risulta dal miracolo della complementarità dei differenti; e le istituzioni che le danno durata e solidità inducono il rispetto: la famiglia che santifica l’amore, il sistema economico che articola la divisione del lavoro e lo scambio, la scuola che consolida la tradizione della conoscenza critica, lo Stato che assicura la libera integrazione tra queste diverse sfere.

Viceversa, l’uguaglianza che per amore della purezza e della perfezione rifiuta la differenza, può realizzarsi solo come negazione della complementarità, dunque come «fanatismo del distruggere ogni ordine sociale costituito, eliminazione degli individui sospetti a un ordinamento e annientamento di qualunque organizzazione voglia ricostituirsi. Questa volontà negativa sente di esistere solo nel distruggere qualcosa; benché creda di volere uno stato positivo, per esempio la condizione d’uguaglianza universale, di fatto non ne vuole la realtà positiva, perché questa porta subito a un ordinamento, a una particolarizzazione sia degli istituti sia degli individui; ma a questa libertà negativa la coscienza di sé sorge proprio dall’annientamento del particolarizzarsi e del determinarsi oggettivo. Così ciò che essa crede di volere può essere solo una rappresentazione astratta, e il realizzarla può essere solo la furia del distruggere»[8].

 

2. MESSIANISMO CRISTIANO E MESSIANISMO ILLUMINISTA

Erede del profetismo ebraico, il cristianesimo[9] introduce in Occidente un messianismo ugualitario in una versione non-violenta: la negazione cristiana del mondo rifiuta di esercitare la crudeltà, accetta di subirla; Gesù non è un profeta sterminatore, si conforma anzi al modello del maestro di sofferenza proposto da Isaia[10]; gli eroi dei cristianesimo, i suoi martiri, testimoniano la loro fede soffrendo fino alla morte; l’annientamento dei nemici è il dies irae riservato al Cristo al suo ritorno. Nondimeno, nel Regno di Dio, di cui Gesù annuncia il prossimo avvento sulla terra, saranno abolite tutte le differenze: tra giudeo e greco, tra schiavo e libero, tra maschio e femmina[11], e sarà abolita anche la proprietà privata, a conferma dell’uso delle prime comunità cristiane.

Il tardare del ritorno di Gesù e la diffusione della loro religione inducono i cristiani all’accettazione delle differenze nel mondo profano: a riconoscere la famiglia, la proprietà privata, lo Stato. A conclusione di questo processo, S. Agostino dichiara che il Cristo non ritorna per istituire il Regno di Dio sulla terra, ma per degradare la terra nell’inferno dei reprobi ed elevare gli eletti nel Paradiso celeste. Fino al momento in cui questi saranno divisi da quelli, la Chiesa militante è necessariamente segnata dal peccato e, viceversa, le istituzioni mondane, per quanto istituzioni dell’umanità decaduta, assicurano un ordine che il cristiano rispetta. Così S. Agostino lotta contro la sete di martirio e il purismo dei donatisti, e al loro esclusivismo anche violento risponde, secondo la parabola del buon seme e della zizzania[12], che solo alla fine del mondo i malvagi saranno riconosciuti e puniti.

L’anticlericalismo identifica il cristianesimo con il fanatismo, e a tale proposito ricorda il «compelle intrare»[13] che S. Agostino menziona proprio nella polemica contro il donatismo. Esso ignora che l’intolleranza di S. Agostino è diretta a contrastare l’intolleranza nella pretesa donatista di perfezione. Benché il cristianesimo sia nato da un impulso messianico, benché non abbia chiarito ex professo che il pensiero di perfezione umana è il più pericoloso dei peccati, il rifiuto dell’esercizio della crudeltà, la definitiva spiritualizzazione del Regno di Dio gli hanno permesso di separare il messianico dal mondano e di sancire l’essenziale finitezza sia della Chiesa militante sia del diritto positivo, senza le quali la libertà individuale è annichilita nella società totale.

Il messianismo indomito si manifesta come ribellione eretica alla Chiesa nel medioevo, ispira all’umanesimo rinascimentale l’utopia come genere letterario e si prolunga nelle convulsioni religiose dell’epoca moderna: mentre Lutero si attiene alla spiritualizzazione agostiniana della fede, le confessioni riformate[14] del XVI e XVII secolo nascono dall’esigenza di costruire società perfette.

Nel XVIII secolo il messianismo subisce una svolta tanto decisiva quanto ignorata: l’illuminismo lo separa dalla religione, ne fa un programma politico e si accinge ad attuarlo[15]. L’uguaglianza, che nella religione è prerogativa trascendente delle anime, vi è principio che rende perfetta la natura, che ha già dato forma a perfette società primitive e che occorre al più presto restaurare perché la società attuale si liberi dei suoi mali. La raison illuministica consiste dunque nell’esatto contrario della ragionevolezza; essa è rifiuto del paradiso celeste della religione cristiana e la certezza della facile attuabilità del paradiso terrestre.

Non lasciandosi sviare dalla lotta che l’illuminismo ha ingaggiato contro la Chiesa, Hegel[16] ha mostrato le loro affinità: sia la fede sia l’illuminismo pongono il bene come uguaglianza; per entrambi il mondo presente è l’ambito del male, della differenza assoluta, per cui ogni cosa è sé stessa e la sua negazione. La fede non sminuisce però la differenza come un prodotto artificiale della civiltà, la scorge nel cuore stesso della natura, come tentazione del serpente che l’uomo sente necessariamente e che può volere, così da cadere nel peccato. Il cristianesimo concepisce quindi il peccato come possibilità radicata nel profondo della natura, e concepisce la sua attualità come scelta volontaria, dunque come prima manifestazione della libertà umana, dunque primo suo privilegio. La liturgia pasquale riconosce la vicenda della caduta originaria come necessaria alla libertà dell’uomo e allo stesso manifestarsi della vita divina:

O certe necessarium Adae peccatum,
quod Christi morte deletum est!

O felix culpa,
quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem![17]

Poiché il male non è un inconveniente artificioso della civiltà a cui la raison possa ovviare correggendola secondo la natura, poiché il male è l’inizio della libertà, il completamento della libertà non è l’attenersi all’uguaglianza dell’innocenza naturale, non è il vagabondare nel paradiso terrestre, ma è la fede, come serena certezza che il pentimento, il libero ritorno all’uguaglianza dalla differenza liberamente posta, neghi il peccato e apra l’accesso al paradiso celeste.

L’essenzialità per l’uomo del peccato e del pentimento è infatti un movimento che ha una corrispondenza nella vita divina: l’allontanamento dell’uomo da Dio è limite in Dio che Dio può superare solo con il pentimento dell’uomo. Concedendo la libertà all’uomo, permettendogli il male, Dio stesso perde la sua identità semplice, la sua onnipotenza di creatore: Dio stesso diviene uomo; e può ricongiungersi a sé, può risorgere, solo con la morte dell’uomo che egli è divenuto. Come Dio non può evitare la differenza ma può solo conciliarsi con sé negandola, così l’uomo non può evitare il peccato e può solo tornare in Dio solo in quanto sa che il suo pentimento equivale alla morte del Dio incarnato, è lo stesso moto con cui Dio si concilia con sé stesso. Senza peccato e senza pentimento l’uomo non sarebbe libero, ma animale, Dio sarebbe solo signore, non padre.

Rifiutando il peccato e il pentimento come assurde superstizioni, la raison illuministica si riduce a una tremenda regressione nella semplicità del paradiso terrestre. Come gli illuministi, anche Nietzsche si attiene all’innocenza naturale e odia il cristianesimo in quanto ne avverte senza comprenderla la superiore profondità; tuttavia conserva il realismo sufficiente a non spacciare l’innocenza per innocua: con una coerenza preclusa agli illuministi contesta il soggetto e la sua libertà, con una sincerità addirittura sguaiata difende il piacere della crudeltà. Nel modo più crasso è Rousseau a sostenere l’onnipotenza della compassione sull’uomo di natura: «Ma [nell’uomo] c’è un altro principio..., che... tempera l’ardore che egli nutre per il suo benessere con un’innata ripugnanza a veder soffrire il proprio simile... Parlo della pietà...»[18]. Avendo escluso dall’innocenza il piacere della crudeltà, avendola finta innocua, l’illuminismo non vede che nell’uomo l’innocenza non resta tale, ma diventa tentazione che può condurre al peccato. Così la raison si riduce a concepire l’uomo come una delle specie animali che popolano questo paradiso terrestre, che va per istinto alla sua felicità e, in virtù della perfezione del congegno naturale capace di trasfigurare l’egoismo in generosità, contribuisce alla felicità universale.

Se la natura innocente è perfezione e realizza già la felicità universale, il separarsi dalla natura, il male, è facilmente evitabile, ma, non evitato, non è più emendabile dal pentimento: l’innocenza può essere solo perduta, non recuperata. La conseguenza è catastrofica: l’illuminismo ripete lo scambio d’armi tra Glauco e Diomede, dà via l’oro della libertà per avere il bronzo dell’innocenza. Se la natura non è tentazione, ma perfezione, allora la libertà stessa si riduce a un inopportuno estraniarsi dello spirito dalla natura, all’inutile artificialità. Nel suo intimo la raison sente la libertà soltanto come male. Esso si concentra nella degenerazione degli inutili, che prosperano nelle differenze artificiali della civiltà: il despota, il nobile, il prete; recalcitrando all’illuminismo[19], essi si irrigidiscono nella loro menzogna e la insinuano nel cuore del popolo per ingannarlo, sfruttarlo e opprimerlo. È solo questa sordida volontà di menzogna di alcuni, quest’artificiale disuguaglianza, a rendere il male esistente[20]. Poiché il male si concentra nell’arbitrio dei pochi inutili ed è estraneo alla massa innocente, l’illuminismo ritiene a portata di mano la restaurazione politica della felicità innocente: è sufficiente distruggere gli inutili dell’ordine presente e si è nel paradiso terrestre. La perfetta uguaglianza, per quanto irriconoscibile come la statua di Glauco sommersa nel mare, è la semplicità naturale indistruttibile dall’artificialità dei corrotti, e può dunque essere disincrostata forse già dal semplice diffondersi dei lumi, forse già da un’opportuna educazione – in ogni caso è facilmente realizzabile in questo mondo.

Per quanto abbia voluto l’emancipazione dell’individuo dagli abusi feudali, per quanto sia culminato nella richiesta della democrazia, per il suo culto dell’innocenza ugualitaria l’illuminismo è incompatibile con l’idea di libertà; contiene perciò la premessa dell’edificazione di poteri ben più lesivi dell’individualità di quelli esistenti nel medioevo. Se la si prende come inutile artificialità, la libertà cessa di essere condizione ineludibile dell’umano, deve essere sostituita dalla felicità, dal paradiso terrestre, la cui attuazione trasforma gli individui in una massa animale. Solo il rispetto della differenza, solo dichiarare felix la culpa, può conferire alla sua negazione il carattere di ritorno, e conservare la libertà.

3. LA RIVOLUZIONE FRANCESE

Fedele allo spirito dell’illuminismo per cui la libertà non è il paradiso celeste che si ottiene con il pentimento, ma il paradiso terrestre che restaura l’innocenza purificata dalle scorie dell’artificialità, all’inizio della Rivoluzione francese l’abate Sieyès dichiara l’ordine privilegiato estraneo alla Nazione: «Chi dunque oserebbe dire che il Terzo Stato non abbia in sé tutto il necessario per formare una nazione completa? Esso è l’uomo forte e robusto che ha un braccio ancora incatenato. Se si eliminasse l’ordine privilegiato, la nazione non sarebbe qualcosa di meno, ma qualcosa di più. Di conseguenza, cos’è il terzo stato? Tutto, ma un tutto intralciato e oppresso. Cosa sarebbe senza l’ordine privilegiato? Tutto, ma un tutto libero e fiorente. Senza di esso nulla va, senza gli altri tutto andrebbe infinitamente meglio. Non basta aver mostrato che i privilegiati, lungi dall’essere utili alla nazione, possono solo indebolirla e nuocerle; occorre ancora provare che l’ordine nobile non rientra nell’organizzazione sociale; che può ben essere un peso per la nazione, ma che non saprebbe farne parte»[21].

Sieyés condanna l’ordine nobile perché è inutile alla Nazione. L’utilità qualifica però il mezzo; l’inutilità dei privilegiati è dunque il loro essere per sé, la loro vera colpa è di offrire l’immagine della libertà. Consegnando i privilegiati al linciaggio e all’annientamento, Sieyés ha non solo articolato lo schema del genocidio che il Novecento rivoluzionario si incaricherà di applicare regolarmente, egli ha anche proposto il modello di una società totalitaria, che ammette la libertà solo dopo aver imposto l’uguaglianza, dunque senza il momento della pluralità, senza riconoscere il diritto della particolarità.

La Nazione dei rivoluzionari non è una totalità concreta di differenze, ma è la volonté générale di Rousseau, l’unanimità etica in cui l’individuo è legislatore solo a condizione di dissolvere la sua particolarità e lasciarsi assorbire senza residui nell’universale. Su questa base l’assemblea rivoluzionaria dichiara i diritti dell’uomo[22]. Nulla come questa dichiarazione contribuisce a paralizzare la visione critica della Rivoluzione francese, a trasfigurarne i tratti barbarici in nobile idealismo. Eppure i pericoli dei diritti dell’uomo e del cittadino sono evidenti. Un diritto in generale è un potere che non deriva dalla natura innocente, come la salute, la forza fisica o la bellezza, ma nasce dall’altrui assunzione di un dovere; esso è dunque sempre condizionato, relativo. Dichiarare che un certo diritto è diritto naturale, inalienabile e sacro dell’uomo equivale a renderlo incondizionato, ma anche a rendere altrettanto incondizionato il corrispondente dovere. Ne segue anzitutto che, se come titolare di diritti assoluti l’individuo è esaltato, come vincolato ai corrispondenti doveri l’individuo è annullato: i diritti dell’uomo e del cittadino servono altrettanto bene a garantire la dignità umana e a schiacciarla.

Poiché inoltre non è natura innocente ma libera volontà, il nesso tra diritti e doveri implica il potere pubblico che lo consolidi come seconda natura degli individui. Ne segue che l’incondizionatezza dei diritti dell’uomo e del cittadino implica un potere pubblico altrettanto incondizionato, ben oltre i poteri limitati che la realtà può offrire; essa accende dunque nell’illuminismo l’entusiasmo per la globalizzazione del potere pubblico e della cittadinanza. Il cosmopolitismo può apparire liberatorio solo finché resta negativo, finché è inteso come promessa di sciogliere l’individuo dai doveri verso gli Stati particolari; ma lo scioglimento di questi doveri particolari non è la fine del dovere, è anzi l’inizio dei doveri incondizionati dell’uomo e del cittadino; né l’estinzione degli Stati particolari è la scomparsa del potere pubblico in generale, è anzi il costituirsi di un potere pubblico globale, che per la libertà del cittadino cosmopolita è più oppressivo di quanto lo Stato particolare possa mai esserlo nei confronti dei suoi cittadini. Non è un caso che, sotto il pretesto della liberazione dei popoli, l’afflato cosmopolita della rivoluzione abbia prodotto uno sfacciato imperialismo, che i popoli, dopo gli incauti entusiasmi di alcuni, hanno rigettato[23].

Infine l’ascesa del potere pubblico universale è umiliazione dei legami umani particolari. Per questo con l’illuminismo decadono la famiglia, la comunità religiosa e la spontaneità economica. Prima dell’illuminismo i deboli non erano condannati all’abbandono, ma assistiti dall’amore delle famiglie e dalla carità degli ordini religiosi, che provvedevano all’educazione dei piccoli e alla cura degli anziani; a partire dai diritti dell’uomo, gli ordini religiosi prima e poi la famiglia vanno verso l’estinzione e l’assistenza degli individui diventa un servizio erogato dallo Stato. L’estendersi dei diritti umani è così l’estendersi delle competenze dirette del potere pubblico sul singolo, vale a dire l’estendersi dello Stato in ogni angolo della vita, lo Stato assistenziale. Mentre però la comunità particolare è in grado di valorizzare le particolarità dei singoli combinandole, per sua natura il potere pubblico è garante dell’universalità degli individui, di ciò per cui sono uguali; così, nel rivolgersi direttamente all’individuo, lo universalizza, ne indebolisce la particolarità, lo svuota cioè  come un atomo senza eredità del suo passato, senza esperienza del suo presente – lo uguaglia e ne fa una mera parte di un collettivo.

L’estinzione delle comunità e lo Stato assistenziale sono già nei primi atti della rivoluzione. Gli illuministi avevano odiato l’ancien régime non perché facesse troppo, ma perché faceva troppo poco; giunti al potere, per un verso indeboliscono le comunità particolari: introducono il divorzio, espropriano la Chiesa e le corporazioni, e ridistribuiscono i loro terreni tra i contadini così da rafforzarne la singolarità e l’uguaglianza; per altro verso cercano di assumersi tutte le incombenze: il loro Stato, oltre che legislatore, governante e giudice, abbozza i primi progetti di sanità e di scuola pubblica, e diventa perfino Chiesa di un nuovo culto religioso.

I meriti della sanità e della scuola pubblica sono indiscutibili. Le vicende di questi anni hanno però reso evidenti anche i pericoli legati alla loro genesi illuminista: le competenze sanitarie degli Stati, divenuti esecutori di interessi opachi ma di estensione globale, assumono la forma di doveri incondizionati, che si fanno beffe delle libertà individuali. Quanto alla scuola pubblica, gli effetti mortificanti della sua incorporazione nell’assistenza pubblica sono prefigurati con impressionante precisione già ai suoi primi passi. Sono note le parole con cui Robespierre raccomandò alla Convenzione nazionale il progetto di scuola pubblica di Le Peletier: «Chiedo che decretiate che da 5 anni fino a 12 per i ragazzi, fino a 11 per le ragazze, tutti i bambini senza distinzione e senza eccezione siano alunni in comune a spese della Repubblica, e che tutti, sotto la santa legge dell’Uguaglianza, ricevano gli stessi vestiti, lo stesso nutrimento, la stessa istruzione, le stesse cure»[24]. La santa legge dell’Uguaglianza avrebbe fatto della scuola pubblica anzitutto un’occasione per ridistribuire la ricchezza; così per Le Peletier i ricchi, più che la Repubblica, dovevano finanziare gli istituti scolastici pubblici. Nondimeno questi avrebbero assunto un carattere irrimediabilmente assistenziale: «Ma quello che finisce di caratterizzare questo gruppo di progetti è che la scuola, la casa comune, vi è in effetti sottomessa al regime comunitario, che essa diviene un piccolo falansterio. Vi sono nutriti i vecchi; non vi sono domestici, sono i bambini che servono i vecchi e soddisfano tutti i bisogni interni. Di più, la scuola è alimentata dal lavoro degli alunni, lavoro agricolo, ben inteso, che impiega quasi tutto il loro tempo, e dal reddito personale degli alunni ricchi, che è versato al popolo»[25].

***

A fine Settecento la percezione dell’essenza e dell’importanza della conoscenza vinse lo spirito ugualitario, e del progetto Le Peletier non si fece niente: «Adottando il 27 brumaio anno III il progetto modesto ma pratico di Sieyès, a cui Lakanal aveva prestato il nome, e che doveva essere corretto ancora dalla legge del 3 brumaio anno IV, la Convenzione rinunciò definitivamente a questa utopia che avrebbe fatto della scuola un’istituzione di assistenza infantile, un ospizio di vecchi, una colonia agricola e una società cooperativa di produzione, sovvenzionata dall’imposta progressiva cantonale»[26]. Le Peletier ha avuto la sua rivincita ai nostri giorni: lo spirito ugualitario ha prodotto un nuovo diritto naturale, inalienabile e sacro dell’uomo, il diritto al successo scolastico, e ha infine realizzato il perfetto assistenzialismo proprio nell’istruzione.

Nel perseguire l’égalité, la Rivoluzione francese si è trovata di fronte al problema della proprietà privata e alla spontaneità degli scambi mercantili. Nel loro riferimento alle cose, come proprietarie, le persone sono disuguali; restando però persone, esse conservano anche il lato dell’uguaglianza. Ne segue che la disuguaglianza delle proprietà non è qualitativa, essenziale, ma quantitativa, che l’essere grandi o piccoli proprietari (al limite solo del proprio corpo) non incide sull’essere o non essere persone. L’ugualitarismo ignora però l’inessenzialità della differenza tra le proprietà e la concepisce come qualitativa, equipara cioè la povertà alla schiavitù, alla negazione della persona, al suo diventare cosa di un’altra persona. Così può concepire la personalità come un privilegio di alcuni, di cui desiderare l’abolizione, e lo scambio mercantile come un inconveniente da limitare o eliminare.

Le correnti fisiocratiche della Rivoluzione francese hanno concepita la differenza di proprietà privata come solo quantitativa, inessenziale, tale dunque da non pregiudicare la personalità degli individui, e così l’hanno inserita tra i diritti dell’uomo. Altri, sensibili a Rousseau, ma anche a Mably e a Morelly, hanno invece considerato irrinunciabile anche l’uguaglianza quantitativa, anche a costo della proprietà privata e degli scambi di merci. Negare la proprietà privata e la spontaneità del mercato, il comunismo, è però un passo di enorme conseguenza. Poiché la proprietà privata indica l’ambito entro cui la persona è sovrana, la sua abolizione equivale all’estensione illimitata della sovranità pubblica, ossia allo Stato totalitario. Inoltre la proprietà non è solo un esterno separabile dalla persona, denaro, beni, ma è anzitutto il corpo vivente; abolirla equivale dunque ad abolire l’intangibilità della persona, cioè la persona stessa.

Per il suo stesso concetto, la comunità ugualitaria è dunque composta di individui privi di personalità in senso giuridico, privi di scambi contrattuali reciproci, in riferimento esclusivo all’assistenza del potere centrale; in cambio dell’alienazione integrale dei diritti, lo Stato assume forma democratica e l’individuo partecipa alla sua legiferazione. È vero che la democrazia rappresentativa presuppone la pluralità delle opinioni, offre dunque una garanzia importante alla libertà individuale. La democrazia illuminista è però ispirata all’antichità, è diretta e unanimista; in quanto fa della sfera individuale un affare di Stato, non solo è compatibile con il totalitarismo, ne è anzi la sua prima forma. La deriva totalitaria francese prende avvio quando la suprema assemblea rivoluzionaria diventa preda del protagonismo politico dei sanculotti, e non tollera neanche la differenza nel sentire, esige dall’individuo l’incondizionato sostegno istituendo il certificat de civisme[27]; lo espropria e lo invia alla ghigliottina sulla base del semplice sospetto; ordina alle «colonne infernali» lo sterminio dei ribelli vandeani, delle loro donne e dei loro bambini[28]. L’atto di nascita del mondo moderno, che pure pone ogni enfasi sulla dignità della persona, porta con sé la possibilità di un potere pubblico che elimina la sfera privata e la persona stessa.

Pur mostrando qualche disposizione a prendere la strada del comunismo, la rivoluzione non la percorre e si tiene dentro i limiti fissati da Rousseau. Come questi concede la proprietà privata e poi l’assoggetta all’azione livellatrice del fisco[29], così i rivoluzionari negano la proprietà privata agli estranei alla Nazione, la trasformano in pubblica, ma per ridistribuirla come privata. La redistribuzione è l’ultima loro parola, e il comunismo resta un ideale irrealizzato a cui il Termidoro del 1794 sembra porre una fine definitiva. Ma nei due secoli successivi, insensibile agli eccessi della violenza rivoluzionaria o forse essendone attratto, il messianismo secolarizzato si propone una nuova rivoluzione che, libera dalle timidezze francesi, realizzi una società di individui uguali e completamente assorbiti dalla sfera pubblica[30].






[2] Così scrive uno dei più importanti dirigenti socialisti del Novecento, Pietro Nenni, in Storia di quattro anni 1919-1922. Crisi del dopoguerra e avvento del fascismo al potere, Milano 1976. A p. 96 si legge che il partito socialista, lungi dall’essere il partito rivoluzionario quale si accreditava, non era «che una grande macchina elettorale e non [era] attrezzato che per una lotta condotta con quel metodo democratico che teoricamente rifiutava». Il rifiuto non era però solo teorico, ma era anche pratico; tant’è vero che, a p. 159, Nenni stesso parla del «programma socialista» di «sabotaggio dell’istituto parlamentare», e a p. 192 aggiunge che, ancora nel Consiglio nazionale dell’11 gennaio 1922, «raccoglieva la maggioranza dei voti un odg Corsi, il quale faceva obbligo alla Direzione: “... di disciplinare la condotta del Gruppo parlamentare in modo che sia mantenuto il rispetto più assoluto dei deliberati di Milano, che sono assolutamente contrari ad ogni partecipazione e ad ogni appoggio e voto ad indirizzi di Governo.”».

[3] I bolscevichi non avrebbero mai vinto in Russia se i capi militari tedeschi, nella speranza di avere un nemico in meno, non avessero consentito a Lenin di raggiungere Pietrogrado passando per la Germania, e non lo avessero finanziato con generosità. Questo dà la misura di quanto gratuita fosse l’equazione hitleriana tra bolscevismo ed ebraismo.

[4] La mistificazione contenuta nella nozione di antifascismo avrà avuto una sua parte nel controsenso di fissare il Giorno della Memoria del genocidio degli ebrei nell’anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa; in questo modo si continua a fare di Stalin un liberatore dei popoli, come se il rapporto di Chruščëv al XX Congresso del PCUS fosse ancora segreto, e si offendono le vittime dei genocidi bolscevichi. Qualsiasi altra data sarebbe preferibile.

[5] Mt. 7, 16.

[6] Già per Kant il giudizio riflettente è il procedere da un particolare dato al suo universale. Nella Dottrina dell’essenza contenuta nella Scienza della logica di Hegel, la riflessione è un caso di negazione doppia da cui risulta l’affermazione: è il dissolversi proprio del determinato da cui risulta l’indeterminato, lo svanire immanente al particolare con cui si genera l’universale.

[7] Il settarismo irrigidisce la lingua messianica in gergo. È per questo che il marxismo parla sempre di contraddizione in modo improprio: la contraddizione non è il contrasto, come esso intende, è anzi il risolversi immanente del contrasto.

[8] Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 5. Un errore tanto grave quanto diffuso tra i filosofi è l’attribuzione a Hegel del totalitarismo di Marx. È vero il contrario: mentre Marx è erede fervente della Rivoluzione francese, Hegel e molti suoi contemporanei vi hanno colto e condannato i tratti essenziali di ciò che il Novecento chiamerà totalitarismo. Per Hegel la volontà pura giacobina ha certo valore, ma solo come rifugio inespugnabile della libertà a cui sia precluso il mondo, solo come idea di martirio, di cui Solženicyn scrive: «Che cosa occorre per essere più forte del giudice istruttore e di tutta quella trappola? Devi entrare in prigione senza trepidare per la comoda vita che lasci. Devi dirti sulla soglia: la tua vita è finita, un po’ troppo presto, ma non puoi farci nulla.» In Arcipelago GULag I, Milano 1974, p. 143.

[9] Cristianesimo equivale a messianismo; infatti Cristo, il titolo di Gesù, è dal greco Χριστός che traduce l’ebraico mašíakh (מָשִׁיחַ, «unto»), da cui messia.

[10] Isaia, 53:3.

[11] Cfr. Galati, 3:28.

[12] Matteo, 13:30

[13] Luca, 14:23.

[14] «Riformate» in senso proprio, ossia nel senso delle riforme di Zwingli, Calvino, Müntzer, Hofmann... , in quanto si distinguono dalla riforma «protestante», che certamente è attuata con un sentimento di prossimità della fine del mondo, ma culmina in una esasperazione dell’interiorità del cristianesimo.

[15] Si deve soprattutto a J. L. Talmon la chiara comprensione della natura messianica dell’illuminismo. Cfr. il suo «The origins of totalitarian democracy», disponibile al seguente indirizzo: https://ia601604.us.archive.org/27/items/in.ernet.dli.2015.460216/2015.460216.The-Origins.pdf .

[16] Cfr. nella Fenomenologia dello spirito, il capitolo La lotta dell’illuminismo contro la superstizione.

[17] https://www.gregorianum.org/index.php?title=Exsultet_iam_angelica_turba_caelorum_(Vigilia_Paschae)&mobileaction=toggle_view_desktop «O pur necessario peccato di Adamo/distrutto dalla morte di Cristo!/O colpa felice/ che meritò avere simile Redentore!

[18] Cfr. il Discorso sulla disuguaglianza tra gli uomini, Milano 2009, p. 688.

[19] «Wen solche Lehren nicht erfreun, / Verdienet nicht, ein Mensch zu sein» (Mozart-Schikaneder, Die Zauberflöte, Zweite Aufzug, 15. Aria)

[20] Si veda di D. Diderot l’articolo Preti che ha scritto per l‘Enciclopedia, in Scritti politici, Milano 2008, pp. 703-705.

[21] Emmanuel Joseph Sieyès, Che cos’è il terzo stato? in http://www.leboucher.com/pdf/sieyes/tiers.pdf p.4.

[23] Per non parlare della Spagna, già in Italia la resistenza contadina contro le armate rivoluzionarie liberatrici costò molte più vittime della resistenza contro il nazi-fascismo.

[24] Citato in Alfred Espinas, La philosophie sociale du XVIIIe siècle et la Révolution, Paris, 1989, p. 171. Il libro è consultabile al seguente indirizzo : https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k80081f.pdf .

[25] Ibidem. Nel compilare la loro legge sulla scuola è probabile che Renzi e la Giannini non sapessero che l’idea di scuola-lavoro era già in Le Peletier; si trattava non di un’ispirazione diretta, ma di un’identica deduzione dal medesimo principio della santa Uguaglianza. Del resto, tutte le innovazioni con cui la sinistra ha deformato l’istruzione pubblica tendono ad assimilarla al falansterio.

[26] Alfred Espinas, Op. cit., p. 172.

[28] Non si ebbe scrupolo di ricavare dai corpi delle vittime pantaloni di pelle per gli ufficiali e grasso per gli ospedali della repubblica.

[29] Cfr. in particolare il saggio «Economia politica» (in J. J. Rousseau, Scritti politici, vol. I, Milano 2009): a p. 834 si trova la seguente dichiarazione: «... il fondamento del contratto sociale è la proprietà, e la sua prima condizione che ciascuno sia mantenuto nel godimento pacifico di ciò che gli appartiene»; a p. 841 la seguente: «Con queste imposte che alleviano la povertà e gravano sulla ricchezza bisogna prevenire il continuo aumento della disparità di fortune, l’asservimento ai ricchi di una folla di operai e di servitori inutili, il moltiplicarsi di gente oziosa nelle città, l’abbandono delle campagne». Lo Stato garantisce l’isolamento di ciascuno, ma si riserva mano libera su di lui. L’obiettivo, espresso a p. 842, è avvicinare «insensibilmente tutte le fortune a quella media condizione che fa la vera forza di uno Stato». Forse non è un caso che Pol Pot, resosi celebre per l’inesorabilità con cui ha perseguito l’ugualitarismo agrario, abbia studiato in Francia.

[30] Si attribuiscono a Platone la prima idea di abolizione della proprietà privata e il primo progetto totalitario; ma queste attribuzioni sono esagerate. Nel suo Stato Platone nega la proprietà solo alla classe dirigente in quanto vuole evitarle i conflitti di interesse tra la sua sfera privata e la sfera pubblica. Inoltre il totalitarismo è un fenomeno moderno: lo si ha quando il potere si concepisce come coinvolto in una guerra totale e impone al popolo un’incessante mobilitazione.


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