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giovedì 30 dicembre 2021

Sui limiti dell'uguaglianza 2 (P. Di Remigio)

(Seconda parte del saggio di Paolo Di Remigio. Qui la prima parte. Qui la terza parte.  M.B.)



4. LA DISTORSIONE MESSIANICA DELLA FILOSOFIA DIALETTICO-SPECULATIVA

Tramite Babeuf l’eredità giacobina si trasmette al socialismo ottocentesco. A metà Ottocento, Marx ed Engels dichiarano di avergli dato forma scientifica: applicando una versione della dialettica hegeliana capovolta in senso materialista, essi hanno scoperto leggi che non solo regolano l’evoluzione storica, ma anche la conducono al comunismo. L’interpretazione filosofica del mondo è ormai un’impresa oziosa, se non conservatrice; ora bisogna cambiarlo sulla base delle certezze ricavabili dalle conoscenze ottenute.

Legge è un rapporto fisso tra variabili. Poiché ha assoggettato le variabili alla costanza, essa consente di determinare tutti i loro valori, dunque di prevedere quelli futuri. D’altra parte, poiché ha solo racchiuso entro limiti la variabilità, la legge la prende come già data, come un fatto empirico, ma non la conosce. La conoscenza della variabilità in quanto tale implica la contraddizione; infatti ciò che varia è sé stesso e non è sé stesso. A differenza della legge, la contraddizione non consente previsioni, se non la tautologia che tutti gli enti finiti finiranno e muteranno in altro. La filosofia applica la contraddizione non per fare previsioni che la scienza non può fare, ma perché esse sono contenute nelle differenze, e se non ci si vuole fermare alla morta diversità tra le conoscenze scientifiche, o peggio alla loro opposizione, occorre conoscerle nella loro contraddittorietà per rintracciare la sintesi superiore a cui accennano. La filosofia si preoccupa del senso complessivo del mondo, non di come andranno le cose. Così, di fronte alle conoscenze storiche, la filosofia non si perde a indovinare il futuro, ha il compito già enorme di determinare il senso del presente come sintesi degli estremi opposti toccati dal passato.

Non solo dal capovolgimento della dialettica Marx si è ripromesso leggi e previsioni che nessuna dialettica potrà e vorrà mai dare; egli non è mai venuto in chiaro con il significato sistematico della contraddizione. Si è già visto che la contraddizione scioglie l’opposizione e avvia la sintesi del fondamento. Invece ciò che Marx chiama «dialettica» non dà alla contraddizione il significato risolutivo che le è stato riconosciuto da Hegel, ma quello ordinario di opposizione, conflitto. Per Marx e per tutti i suoi seguaci contraddizione non è, come ha visto Hegel, il superamento del conflitto in quanto l’opposto si differenzia da sé stesso e si unisce all’opposto, ma significa conflitto, lotta tra due[31]. Né Marx ammette l’ovvia possibilità che la lotta si componga con il compromesso e la pace tra i due; nella nota Introduzione a Zur Kritik der politischen Ökonomie egli presuppone l’annientamento del vinto nella seguente espressione: «Eine Gesellschaftsformation geht nie unter, bevor alle Produktivkräfte entwickelt sind, für die sie weit genug ist...»[32] «Una formazione sociale non scompare mai prima che siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali è abbastanza larga... ».

Avendola ridotta a opposizione, Marx diventa incapace di dominare la contraddizione. Il materialismo storico è dominato da un’incoerenza di principio. Ciò che esso chiama struttura, cioè il modo di produrre la vita materiale, determina la sovrastruttura, cioè la forma della proprietà e la coscienza; ma al tempo stesso non determina la sovrastruttura; infatti la struttura cambia, ma, indifferente a questo cambiamento, la sovrastruttura resta inerte e con la sua inerzia ostacola la struttura. Nasce così un conflitto tra la nuova struttura dominata da una nuova classe sociale e la vecchia sovrastruttura dominata dalla vecchia classe sociale – l’epoca di rivoluzione sociale. In quest’epoca la struttura di nuovo determina la sovrastruttura; infatti, spalleggiata da questa determinazione, la nuova classe sociale, che già domina la nuova struttura, vince necessariamente la vecchia classe dominante e annienta la vecchia sovrastruttura, ne forma una nuova che essa domina come già domina la nuova struttura. La tradizione marxista ha discusso a lungo se il materialismo storico fosse o non fosse determinista, perché ne presupponeva la coerenza; ma questa coerenza non c’è: il materialismo storico è determinista e non lo è, come gli viene comodo per il cambiamento del mondo.

Come Marx banalizza la contraddizione, così banalizza la differenza sociale. Hegel l’aveva indagata come  rapporto servo-signore. Come si è visto, Marx lo riduce alla lotta con cui il servo, avendo dalla sua parte la nuova struttura, alla fine ucciderà il signore, che ignaro del materialismo storico si fa illusioni sulla forza della vecchia sovrastruttura; così il servo diventa il nuovo signore. Invece per Hegel il rapporto servo-signore, proprio come la contraddizione, ha un significato tutt’altro che conflittuale e un esito pienamente positivo.

Anzitutto questo rapporto risolve la contraddizione insita nella lotta per il riconoscimento, una lotta che non è affatto un litigio infantile per capire chi sia il più forte e debba comandare, ma la forma elementare, solo distruttiva, della libertà individuale: l’esporsi al pericolo mortale per manifestare la superiorità del sulla paura di morire. Esponendo ed esponendosi al pericolo, i guerrieri si testimoniano il loro disprezzo per la semplice vitalità, e così si riconoscono come e si onorano.

Ma il disprezzo della vita è volontà di morte, e con la morte cessano il e l’onorarsi reciproco. La contraddizione della lotta mortale è dunque questa: nel mostrare il sé dei lottatori, nel dimostrare il loro disprezzo della vita, essa rivela anche la dipendenza del sé dalla vita, cioè l’essenzialità della vita. Il servo è colui che accetta questa rivelazione e rifiuta il disprezzo signorile per la vita: preferisce vivere anziché esporsi al pericolo estremo della lotta; dunque rinnega l’essenzialità del sé e accetta l’umiliazione del servizio[33]. – Preso dalla compassione o dall’animosità, il marxismo confonde il rapporto servo-signore con la lotta per il riconoscimento e trascura che il servo vuole la sua condizione e ammira il coraggio del signore, che è il suo sottrarsi alla lotta mortale a rendere possibile la disuguaglianza.

Il superamento hegeliano della disuguaglianza ha tutt’altra forma che quella brutale dell’uccisione del signore. Di fatto, nel rapporto servo-signore si combinano due contraddizioni: quella del servo che, scegliendo la vita umiliata, è la contraddizione di un sé che si nega, di un sé che è non-sé; ma anche quella del signore che, scegliendo l’assolutezza del sé, è la contraddizione di vivere e rifiutare la vita, di vivere solo per morire. – A sua volta l’incomprensione del marxismo consiste in un doppio equivoco: immagina la condizione servile, anziché come vita quieta e sicura nell’umile dipendenza, come lotta per conseguire la condizione signorile, e immagina la condizione signorile nello stile dei rivoluzionari francesi, anziché come l’audacia della lotta mortale, come quiete e sicurezza.

Raccomandando al servo la prassi rivoluzionaria per eliminare il signore, Marx si riduce dunque a rendere generale la condizione di lotta mortale. Gli sfugge del tutto il ruolo dell’obbedienza servile nella libertà positiva, nel riconoscimento tra le personalità. Eppure in ogni atto di saluto, quando ognuno riconosce l’altro inchinandosi e dichiarandosi suo servo, l’essenzialità dell’obbedienza è evidente: riconoscere la persona significa accettarla come signore di un ambito oggettivo. Quest’accettazione implica un limitarsi, un trattenersi che può svilupparsi solo dalla condizione servile: solo il servo non può quello che vuole, solo lui impara a inibire il desiderio, ossia a negare la vita. Anche il signore nega la vita, ma, ristretto alla lotta mortale, la nega completamente: la morte che infligge o che gli è inflitta non ne conserva alcun residuo. Invece il servo è sia un sé sia un non-sé; per la sua debolezza, poiché è incapace di negare completamente la vita, come fa il signore, il servo nega la vita e la conserva, cioè le dà forma con il lavoro. Ma nel lavoro a cui, pure, è costretto dalla sua debolezza, il servo trova la sua forza: nel dare forma si dà forma, padroneggia l’impulso vitale, diventa signore di sé stesso. Divenuto signore di sé, si è elevato al di sopra della distruttività elementare del signore, è divenuto il saggio stoico che neanche il tiranno può più piegare[34]. Viceversa, il signore si conserva come tale solo se fa suo il nuovo principio, solo se diventa così signore di sé da essere capace non solo di vincere il pericolo, ma di convincere, se attraverso di lui parla una ragione comune. – La libertà che non sia distruttività elementare o stoico ritrarsi nel sé, la libertà concreta, è infine identità tra la signoria di sé e la signoria esterna che domina sé stessa, corrispondenza tra legge interna e legge esterna. Il principio della libertà come sovranità della legge ha dunque le sue radici nel concetto di servitù.

Marx non può comprende l’origine e l’esito del rapporto tra servo e signore. Nella sua mente la genialità della rappresentazione hegeliana che scopre la forza della debolezza, che concepisce la sottomissione come dettata dall’amore della vita e come momento necessario alla libertà concreta, è distorta e banalizzata nello schema messianico di un presente di dolorosa disuguaglianza che si scioglie in un radioso futuro di uguaglianza pacificata.

Marx poggia la scientificità del materialismo storico, ossia il suo potere previsionale, sul fatto che il cambiamento delle condizioni economiche della produzione «può essere constatato con la precisione delle scienze naturali»[35]. Ma non solo l’assunto che la sovrastruttura, ossia la forma della proprietà e la coscienza in generale, sia più inerte della struttura è del tutto gratuito; lo è anche l’assunto che ci sia una scienza naturale delle condizioni economiche. Infatti il modo di produrre la vita materiale non è affatto materiale, ma è spirituale nel senso più alto del termine: dipende dalla scoperta scientifica, cioè dalla libera teoresi e dall’inventiva umana; dunque, anziché assoggettato a leggi necessarie, è del tutto imprevedibile. Il tentativo del materialismo storico di conoscere la storia cercandone le cause nei cambiamenti dei modi di produrre doveva dunque fallire, non perché il modo di produrre non abbia un potere causale sulla storia, ma perché né la storia, come forma esterna della libertà, meno che mai il modo di produrre, determinato dall’imponderabile della scoperta, sono conoscibili con la sola determinazione causale, che è forma della necessità.

Se nella storiografia l’incoerenza e la controfattualità dello schema di Marx non hanno impedito di stimolare maggiore attenzione sui condizionamenti economici delle vicende storiche, dunque sono state nascoste da importanti guadagni scientifici, le sue previsioni si sono mostrate subito errate. Eppure il suo schema non è stato abbandonato al pari della teoria dell’impetus o di quella del flogisto. Il nerbo della teoria di Marx non è infatti la scienza, ma l’aver paludato di panni scientifici la ribellione messianica[36]: come il messia religioso viene a interrompere le sofferenze e le ingiustizie della storia e istituisce il paradiso dell’uguaglianza, così il materialismo storico squalifica la storia in preistoria, e nel proletariato individua il messia che aprirà le fontane dell’abbondanza e darà inizio alla vera storia del genere umano. Se la preistoria dell’uomo è segnata dal ricorrente antagonismo tra forze produttive e proprietà, l’antagonismo attuale tra proletariato e borghesia ha per Marx un carattere così speciale da permettere di spezzare l’eterna catena: la borghesia ha scoperto l’onnipotenza del lavoro, solo che poi la soffoca con la proprietà privata dei mezzi di produzione, tanto che il suo sistema economico è afflitto da crisi sempre più gravi che lo porteranno al tracollo.

Poiché l’unico problema del capitalismo consiste nella proprietà privata dei mezzi di produzione, il compito del proletariato è quanto di più facile si possa immaginare: non deve fare altro che generalizzare il proprio stato di espropriazione. È questa facilità del compito che gli conferisce il carattere messianico: il proletariato interrompe la preistoria e dà inizio alla storia umana perché l’abolizione della proprietà privata gli impedisce di diventare a sua volta signore, di ricreare la divisione di classe.

Che l’abolizione proletaria della proprietà privata rappresenti l’irruzione messianica della storia nella preistoria è una constatazione facile come una tautologia. Invece l’idea che la fine della proprietà privata consenta al lavoro di raggiungere una produttività inaudita, vale a dire l’idea che la proprietà privata in forma di profitto dell’imprenditore sia in definitiva una catena per lo sviluppo produttivo, è basata su una contraddizione fatale per la teoria economica di Marx: sulla teoria del plusvalore, per cui i capitalisti, anziché attori del capitalismo, sono meri parassiti del proletariato – come l’aristocrazia e il clero lo erano del terzo stato nel velenoso pamphlet di Sieyès. Quantunque compri la forza-lavoro, le materie da trasformare, le macchine, poi le usi e infine venda la merce prodotta, il capitalista non svolge lavoro produttivo, non produce valore. Poiché il suo tempo di lavoro, la sua competenza o il rischio dell’investimento è improduttivo, il profitto compensa la mera proprietà privata dei mezzi di produzione, dunque è solo sfruttamento, appropriazione di tempo in cui gli operai hanno lavorato ma per il quale non sono stati pagati. Pur di negare il ruolo economico del profitto, il «Capitale» accetta la contraddizione di considerare di fatto i capitalisti come attori dell’attività economica e insieme di disprezzarli come oziosi estrattori di lavoro altrui, di considerare di fatto l’unskilled labour l’elemento passivo della produzione e insieme di farne l’unica base del valore. Ne segue che la negazione del ruolo economico del profitto e della proprietà privata è del tutto infondata, che l’affidare la produzione al lavoro non qualificato significa riportarla a fasi pre-capitaliste, oppure ricreare l’aspettativa di profitto sotto altra forma.

Poiché «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza»[37], la rivoluzione non è determinata dalla libera volontà proletaria; il proletariato rivoluzionario è piuttosto il braccio delle forze produttive che lo sviluppo raggiunto spinge contro la proprietà privata. La dialettica divenuta materialista è essa stessa manifestazione del meccanismo impersonale che tutto spiega, quello per cui il progresso produttivo, che gli uomini lo sappiano o no, spezza ogni volta la catena delle forme di sfruttamento. Ne segue che, spogliato delle civetterie hegeliane, il materialismo storico è un naturalismo evoluzionista, uno dei tentativi di conoscere la storia ignorandone la libertà e riducendola ai rapporti di forza. Il generale apprezzamento acritico dell’illuminismo di Marx e la simpatia per le sue apparenti buone intenzioni non vedono che la sua teoria non conosce scrupoli morali – anzi li disprezza come retaggi idealisti. La brutalità nel nucleo del materialismo storico viene trasferita sull’incolpevole Hegel; ma solo il fanatismo può impedire di vedere che il contenuto effettivo dell’XI tesi su Feuerbach è l’inutilità della ragione e il potere della violenza.

Non solo la rivoluzione del proletariato è forza bruta che elimina i parassiti, lo è anche il suo Stato. Marx ha respinto la proprietà perché causata dall’arretratezza dello sviluppo delle forze produttive e a sua volta causa della miseria dei lavoratori entro il capitalismo. Quale che sia la sua origine e il suo effetto, la proprietà è però l’intangibilità della sfera di cose in cui la persona ha la sua esistenza; senza di essa la persona è invasa dal potere pubblico e contratta nell’interiorità del saggio stoico. Nel differenziarsi dei poteri pubblici Marx ha visto non la garanzia del limitarsi dello Stato per far posto all’indipendenza della persona, ma solo lo strumento con cui la minoranza dei proprietari dei mezzi di produzione elude la volontà della maggioranza, solo un’ipocrisia che cela la violenza dittatoriale sotto forme democratiche. La concezione dell’architettonica dello Stato borghese come velo ipocrita steso sulla sua essenza di dittatura della minoranza contiene un sinistro presentimento sullo Stato proletario: esso sarà una dittatura senza ipocrisia della maggioranza. In modo analogo agli illuministi, Marx ha così dato via le armi d’oro per avere le armi di bronzo: il suo paradiso dell’abbondanza materiale non ospita persone. Il proletariato abbatterà la dittatura della borghesia, istituirà la sua dittatura rivoluzionaria per scatenare l’economia e avviare l’estinzione finale del potere politico; i dittatori del proletariato risponderanno al proletariato; ma nessun diritto personale tutelerà l’individuo dal proletariato.

5. LA REALTÀ DEL MESSIANISMO COMUNISTA.

La disposizione alla violenza di Marx non ha fortuna nel movimento operaio durante gli anni tra Ottocento e Novecento; la Seconda internazionale fa della rivoluzione una figura retorica e procede verso una revisione riformista della dottrina. È Lenin a tornare all’ortodossia e a dare un chiarimento definitivo sulla natura del movimento comunista; durante la Prima guerra mondiale scrive: «... riconosciamo pienamente la legittimità, il carattere progressivo e la necessità delle guerre civili, cioè delle guerre della classe oppressa contro quella che opprime...»[38]. D’ora in poi la rivoluzione comunista è messianismo che organizza guerre civili per prendere il potere.

Che la rivoluzione sia guerra civile è propriamente una tautologia, ma tutt’altro che banale. Per il suo etimo di moto rotatorio, per il suo uso dapprima astronomico, la parola rivoluzione ha una connotazione indolore, che si conserva nella sua applicazione agli oggetti sociali, così da impedire alla fantasia di associarle le immagini corrispondenti – che sono quelle della violenza estrema. Mentre la violenza della guerra tra Stati che si riconoscono è limitata dal diritto e dalla mancanza di odio personale tra i singoli combattenti, la guerra civile è tra privati, che, quanto più sono animati da ideali sublimi, tanto più sentono indegni gli avversari, tanto più sono indotti alla violenza senza limiti.

Già in occasione della rivoluzione del 1905 Lenin ha incitato a superare ogni inibizione: «Di lavoro ce n’è un mucchio, ed è inoltre un lavoro nel quale chiunque, anche se assolutamente inidoneo alla lotta di strada, può essere di immenso aiuto, lo possono anche le persone estremamente deboli, le donne, gli adolescenti, i vecchi, ecc.»[39]. Poiché intende vincere la rivoluzione in stile giacobino, con il terrore, già alla fine del 1917 Lenin crea l’onnipotente Čeka e la invita a fucilare e impiccare in modo esemplare. Vinta la guerra civile e tramontata la fase delle esecuzioni sommarie, egli dà istruzione al Commissario del popolo per la giustizia affinché elabori un nuovo Codice penale che consenta la continuazione del terrore: «Il tribunale non deve sopprimere il terrore, dirlo equivarrebbe a mentire a sé stessi o a mentire, ma dargli un fondamento, legalizzarlo in base a dei principi, con chiarezza, senza barare o nascondere la verità. La formulazione deve essere il più aperta possibile, perché solo la coscienza legale rivoluzionaria e la coscienza rivoluzionaria creano le condizioni per applicarlo nei fatti»[40]. Vale a dire, la dittatura del proletariato non è affatto finalizzata a combinare i diversi interessi sociali, ma è esercitata in favore del solo proletariato e diretta alla scomparsa delle altre classi – così dichiara la Costituzione russa del 1918, che ignora la categoria di persona e quella di cittadino, riconosce solo quella di lavoratore e prevede un’esplicita discriminazione dei diritti: «Mossa dagli interessi della classe operaia nel suo complesso, la RSFSR priva alcune persone e alcuni gruppi dei diritti che vengono da loro utilizzati a danno degli interessi della rivoluzione socialista»[41]. Essendo però sorta dal crollo di uno Stato, la dittatura del proletariato ne è erede, e poiché lo Stato in generale obbliga attraverso leggi, essa deve almeno fingersi Stato e promulgare leggi. Le leggi per loro natura pongono limiti all’arbitrio individuale, anche a quello dei capi e dei carnefici; dunque, aprono ambiti di libertà e di sicurezza a tutti gli individui. Poiché legalizzare il terrore significa limitarlo, dunque sopprimerlo, e nella dittatura del proletariato il terrore non può essere soppresso, occorre legalizzarlo senza legalizzarlo, lasciando cioè che l’esecutore conservi piena libertà nell’applicarla. Ne segue che le leggi devono essere espresse in formule così generiche da lasciare ai capi e alla loro Čeka pieno potere sui singoli.

Ben ispirato dalla giurisprudenza leninista, Krylenko[42], il grande accusatore nei processi politici degli anni Venti, scrive che «il CEC [Comitato esecutivo centrale, vale a dire il governo] [concede grazie] e commina pene capitali illimitatamente a proprio arbitrio», il che «distingue favorevolmente il nostro sistema dalla falsa teoria della divisione dei poteri»; aggiunge poi che «le finezze giuridiche non occorrono, perché non occorre chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente: il concetto di colpevolezza, vecchio concetto borghese, è stato adesso sradicato»; invece di valutare la colpevolezza, il giudice rivoluzionario applica la valutazione «dal punto di vista della convenienza di classe»[43]. Se nel fascismo italiano accanto al potere legale che fa capo al re, in cui sopravvive l’eredità dello Stato, c’è quello arbitrario del partito e dei suoi militanti, nel comunismo di Lenin il partito è sopra lo Stato, dunque l’arbitrio dei dittatori è legge: essi determinano cosa sia conveniente al proletariato ed eliminano chi non sembri loro tale, che si senta controrivoluzionario o rivoluzionario. Krylenko esalta questa dittatura che nell’esercizio del potere non si lascia frenare da leggi né da consuetudini, perché essa si affretta verso il nuovo, verso il comunismo. Ma in Russia la via per raggiungere la meta presenta un ostacolo particolare.

Secondo il materialismo storico la borghesia ai suoi tempi d’oro ha creato un potere tecnico in grado di dominare la natura; ma, divenuta poi putrescente, si rifiuta di usarlo a pieno regime per invidia: per conservarsi l’esclusiva dell’abbondanza e tenere il proletariato alla fame e al freddo. Così si scava però la fossa da sola; essa ha già fatto l’essenziale del lavoro difficile, lo sviluppo della tecnica; il dominio sulla natura è già stabilito; al proletariato resta il lavoro facile: espropriare la borghesia così da istituire l’uguaglianza, mettere a pieno regime la tecnica già esistente per diffondere a tutti l’abbondanza. Il proletariato non è dunque portatore di un superiore sapere che confuti il sapere borghese; già la borghesia ha riportato sulla terra lo sguardo dell’uomo vagante nelle regioni celesti; il proletariato è solo la volontà uguagliatrice che vince la volontà esclusivista.

Poiché Marx ha sempre ritenuto che con il suo materialismo storico il compito del sapere fosse essenzialmente concluso e che ora occorreva l’azione, non è esatto dire che Lenin introduca un volontarismo estraneo al suo maestro; piuttosto, egli coglie l’occasione storica che a Marx è mancata: mentre la Comune di Parigi è stata subito isolata e sconfitta da una borghesia all’apice della sua potenza, la Seconda guerra mondiale sconvolge la Russia e mette in ginocchio l’Europa. Forte dell’aiuto di una Germania disperata, pronta a giocare la carta della destabilizzazione del nemico, Lenin si insinua con grande abilità nel caos della Russia del 1917. La sua rivoluzione è in realtà un colpo di Stato contro i rivoluzionari di febbraio, ed egli la intende come innesco di una rivoluzione comunista nella stessa Germania che lo ha appoggiato. Lenin scommette sulla rivoluzione tedesca. La Russia è infatti un paese contadino; non vi è abbastanza industria che occorra solo espropriare e liberare dai malvagi limiti della borghesia putrescente; qui il proletariato non può limitarsi a togliere il freno, com’era nella teoria; dovrebbe creare l’industria che la borghesia russa ha appena abbozzato. Ma il proletariato sa solo espropriare. Di qui l’esigenza che il proletariato tedesco prenda il potere, espropri gli industriali e metta a disposizione del proletariato russo l’enorme macchina tedesca. Nonostante le macchinazioni del Comintern, Lenin perde la sua scommessa. Così, preso il potere in Russia, espropriate le terre, le case e le donne degli aristocratici e dei borghesi, invece di poter aprire le sorgenti dell’abbondanza a tutti, Lenin deve espropriare anche il grano dei contadini per scongiurare l’inedia nelle città, e poiché le espropriazioni, vale a dire il comunismo di guerra, inducono una carestia spaventosa, deve rassegnarsi a lasciare loro la proprietà privata della terra perché tornino a produrre.

L’apologetica comunista si balocca ancora con l’idea di Chruščëv che Stalin abbia rotto la «legalità socialista» di Lenin. Ma «legalità socialista» è un ossimoro. Stalin è il continuatore di Lenin. Lenin aveva sospeso con rammarico la costruzione del socialismo e adottato la NEP perché non sarebbe stato in grado di vincere la guerra civile scontrandosi anche con i contadini. Stalin si risolve a comprare dai capitalisti tedeschi la base industriale che nelle vane speranze del suo maestro gli operai tedeschi avrebbero regalato al proletariato russo. Alla prima occasione rompe la tregua con i contadini, li vince con il terrore illimitato che Lenin aveva già inaugurato, li espropria delle terre e li chiude nell’inferno dei kolchoz, in modo da accumulare le risorse necessarie a importare dalla Germania le macchine; infine, poiché la base industriale acquistata è appena sufficiente alla costruzione dell’industria pesante e militare, compensa la mancanza della base tecnica assoggettando il nudo lavoro umano alla sua volontà pura[44]. Così, mentre i tecnici, che per il loro sapere non sono nudo lavoro né nuda volontà, vengono sterminati, le masse sono ridotte in schiavitù.

Lo schiavo è un uomo che, in quanto proprietà privata di un altro uomo, è ridotto a cosa. Sembrerebbe che nella Russia bolscevica, in cui tutto è socializzato e non c’è proprietà privata, la schiavitù sia impossibile. L’abolizione della sfera privata non è però senza conseguenze sul carattere del potere pubblico: come scrive Krylenko, la Russia bolscevica ha superato la vecchia architettura istituzionale che garantisce i diritti della persona; il potere concentrato in un capo onnipotente non ha un carattere pubblico, ma privato: non sottomesso ad alcuna legge né umana né divina, Stalin è padre e padrone. Né le differenze di condizione tra gli individui contrastano con la loro schiavitù; non c’è infatti barriera tra le differenti condizioni: i «liberi» sono assoggettati a un disciplina militare del lavoro; un apparato capillare di delatori, che si insinua anche nell’intimità della vita familiare, controlla l’ortodossia di ogni loro espressione; gli «organi» possono deportarli, internarli, fucilarli per qualsiasi motivo o anche solo per il bisogno di manodopera schiavile nei luoghi più inospitali. In definitiva la perdita della libertà non è il passaggio in un’altra condizione ma solo un aumento della miseria e un rafforzamento degli obblighi e della sorveglianza.

Nonostante sia la restaurazione dello schiavismo – e per questo odia il cristianesimo –, il socialismo, che non eccelle nel sapere, che si risolve nella volontà pura, si concepisce come fase superiore della civiltà umana e deve accreditarsi come tale. Certo, non può vantare la libertà individuale, profondamente regredita perfino rispetto ai tempi dello zarismo; dunque ne ostenta il disprezzo come di un’ipocrisia borghese. Resta la felicità. Per convincere gli schiavi di essere gli uomini più felici sulla terra, impedito loro ogni contatto con l’estero, il regime staliniano inventa ancor più spaventose condizioni dei lavoratori dei paesi capitalisti. Superato lo scoglio di dimostrare l’eccellenza relativa della felicità socialista, occorre dimostrare la sua eccellenza assoluta. La felicità socialista si identifica però con la sazietà, che è tutt’altro che garantita nella Russia bolscevica. I capi provvedono a occultare il fallimento della loro economia diffondendo nel paese il clima di guerra. Imputano al capitalismo la loro aggressività: il comunismo, che come la Rivoluzione francese pensa di imporsi su tutto il globo, afferma di volere la pace, ma di essere aggredito dalle malvagie potenze capitaliste. La scarsità dei beni e la loro qualità scadente trovano così spiegazione nella necessità delle spese per la difesa, nei sabotaggi del nemico esterno e delle sue quinte colonne interne. E l’accusa di sabotaggio, di spionaggio in favore del nemico fornisce a sua volta una giustificazione per deportare, internare o fucilare.

Poiché vantano che in Russia si stia meglio che altrove, e che con il crollo del capitalismo putrescente si starà ancora meglio, poiché sentono di avere ottime intenzioni, i comunisti sono indulgenti con sé stessi almeno quanto sono severi con i nemici. Bertold Brecht in una poesia pubblicata nel 1939, «An die Nachgeborenen», imputa loro due sole colpe: il viso stravolto dall’odio contro la bassezza e la voce arrochita dallo sdegno per l’ingiustizia; è soltanto per la loro mancanza di gentilezza che sente di dover chiedere indulgenza alla posterità[45]. Forse la richiesta di Brecht allude all’ubiquo volto di Lenin, simbolo della necessità di sconfiggere i controrivoluzionari. Già la maschera di Stalin con la sua giovialità paterna, simbolo dell’edificazione della nuova società fatta di lavoro e abbondanza, esprime solo la buona intenzione di provvedere alla felicità presente che il futuro intensificherà. Stalin stesso, pur reduce dagli stermini dei contadini e vicino a scatenare gli stermini del «grande terrore», non tralascia di dichiarare che «la vita è diventata più bella, la vita è diventata più allegra»[46]. Non si tratta di normale menzogna, ma dell’essenza del messianismo secolarizzato, che avvicina talmente la rinuncia attuale e la felicità sperata da pretendere che la rinuncia in quanto tale sia già felice. Ne risulta la stupefacente costruzione di una grandiosa apparenza, un’unità ferrea di realtà indicibile e discorso irreale, che è l’unico vero successo del comunismo: ancora oggi la simpatia per il nazismo giustamente squalifica chi la nutre, la simpatia per il bolscevismo non conosce vergogna e pentimento e si chiede cosa non abbia funzionato.

Il successo della sua atroce follia fa di Stalin la più grave obiezione alla fede nella provvidenza: benché teorico del socialismo in un solo paese, restituisce al comunismo la forza espansiva che gli era mancata negli anni Venti; compromessosi a fondo con Hitler[47], l’«operazione Barbarossa» gli restituisce la patente dell’antifascismo; la vittoria ottenuta con l’appello al nazionalismo russo rilancia la marcia del comunismo; l’averla ottenuta contro un invasore barbarico giustifica la sequenza di orrori a cui lui stesso si è abbandonato. Nel dopoguerra, proprio quando, incurante di provocare la probabile estinzione dell’umanità, accarezza il piano della guerra nucleare per annientare, dopo il nazismo, il capitalismo e per creare il comunismo mondiale[48], appare padre e liberatore dei popoli, uomo di pace e creatore della società futura.

6. IL COMUNISMO IN ITALIA

Per l’assioma marxiano che la coscienza dipende dall’essere, nuove situazioni dettano nuovi valori. Il cinico avventurismo di capi comunisti ha creato sempre nuove situazioni; di conseguenza non c’è valore che i comunisti non abbiano affermato e negato: gli eroi della rivoluzione sono divenuti agenti della controrivoluzione; l’ugualitarismo è divenuto privilegio della burocrazia dirigente; abbracciato il femminismo, Lenin consente il divorzio e l’aborto, poi l’abbandono delle donne e dei bambini e il crollo demografico spingono Stalin a frenare il divorzio e a proibire l’aborto; fino agli anni ’20 il partito condanna ogni altro partito, negli anni ’30 si allea con i democratici contro il fascismo, poi, dall’agosto del ’39 al giugno del ’41, si allea col nazismo contro i democratici, poi di nuovo con i democratici contro il nazismo, infine le democrazie tornano a essere capitalismo putrefatto da abbattere con la rivoluzione mondiale; fino al ’56 Stalin è padre dei popoli, da quell’anno diventa unico responsabile di crimini inauditi; i dirigenti russi che hanno appena condannato la violenza di Stalin non esitano a usarla contro l’Ungheria. Questi convulsi capovolgimenti per cui una verità caccia via l’altra non scuotono la fede comunista nel nuovo; deprimono però la disposizione alla conoscenza negli adepti; la fede nel futuro si separa da ogni contenuto, diventa idolatria dei capi del partito. Così, essere comunisti significa anzitutto odiare il presente, la borghesia e i suoi profitti; quanto al contenuto positivo, significa soltanto appartenenza al partito di cui la storia ha decretato la vittoria, qualunque cosa i suoi capi dicano o facciano. Quest’unità di odio e dogmatismo ha effetti profondi in Italia[49].

Mentre il vecchio socialismo italiano in quanto riformista rinunciò alla rivoluzione e in quanto massimalista si limitò a desiderarla, il partito comunista nacque dalla rivelazione di Lenin che la rivoluzione non è retorica del desiderio, scioperi e manifestazioni, ma guerra civile da vincere con qualunque violenza. Fu Lenin che promosse ovunque la scissione dei suoi simpatizzanti dai loro partiti, la formazione dei partiti comunisti e la loro confluenza nella Terza Internazionale. Per esserne accettati sottoscrissero 21 punti[50] , che li resero sezioni locali del partito bolscevico russo, impegnate come questo in una guerra civile globale con l’obiettivo di instaurare ovunque la dittatura rivoluzionaria del proletariato, in parte legali in parte clandestine (punto 3), rigidamente accentrate (secondo il centralismo democratico del punto 12), sottoposte a periodiche epurazioni per sbarazzarsi degli infiltrati piccolo-borghesi (punto 13), «incondizionatamente» subordinate agli interessi «sovietici» (punto 14). Il partito comunista d’Italia, a dispetto del nome, non fu dunque italiano, ma internazionalista, di fatto russo: operava in Italia, ma dipendeva dalla dirigenza bolscevica[51].

Le sue vicende ne accentuarono i tratti internazionalisti. Dapprima, a causa della persecuzione del regime fascista, molti dirigenti e militanti del piccolo partito furono costretti alla diaspora verso l’URSS, che così diventò la loro patria effettiva; in seguito, sottoposti alle terribili epurazioni staliniane, sopravvisse di loro solo chi si era identificato senza riserve al tiranno.

Il più autorevole dei superstiti, Togliatti, tornato dall’URSS, diede vita al PCI, il «partito nuovo» che ostentava di non essere più un gruppo di rivoluzionari di professione che prepara la guerra civile in vista del comunismo mondiale, ma un partito di massa che vincendo le elezioni conquista il potere e mediante «cambiamenti strutturali» instaura la «democrazia progressiva», vale a dire il comunismo. Ma è improprio parlare di una svolta: come recita il terzo dei 21 punti[52], fin dall’origine i partiti comunisti hanno combinato l’organizzazione pubblica che, quando è possibile, agisce nella legalità, con l’organizzazione sovversiva che agisce nella clandestinità. Il partito comunista italiano restò sempre il partito della guerra civile a favore dell’Unione Sovietica, che era dall’origine, anzitutto perché la linea politica, a partire dalla «svolta di Salerno», gli era dettata dalla dirigenza russa che dopo la vittoria sulla Germania mirava più che mai alla diffusione globale del comunismo; poi, perché il fine del comunismo, abolire la proprietà privata, ha un carattere violento anche qualora sia voluto dalla maggioranza; infine perché il paradiso che i comunisti sognavano di impiantare in Italia equivaleva in quel momento a trasformarla in una miserabile democrazia popolare satellite dell’URSS. In definitiva Togliatti costituì un presidio straniero in Italia, che fece pesare sulla Repubblica la minaccia della guerra civile per farne una «democrazia popolare».

La fondazione della RSI fece del fascismo italiano il partito responsabile della guerra civile; il PCI, che era partito rivoluzionario, dunque per sé stesso sostenitore della legittimità, della progressività e della necessità delle guerre civili, si giovò di questa responsabilità fascista per occultare la sua natura originariamente violenta sotto la maschera di una reazione legittima alla violenza altrui. Così poté conservare la sua aspirazione alla guerra civile e insieme legittimarsi come partito entro la cornice del pluralismo.

L’esigenza comunista di far sembrare reazione occasionale la violenza che era nella sua natura incontrò un’acquiescenza comprensibile negli altri partiti, che non vollero trovarsi subito in una nuova guerra civile, ma turbò l’universalismo della Costituzione repubblicana. I Costituenti si trovarono infatti nella contraddizione di voler fondare una democrazia non protetta, aperta a ogni partito, e di volerne tuttavia escludere il partito fascista. Occorreva un criterio generale per farlo; ma la sinistra sapeva benissimo che il terreno su cui era attecchita la mala pianta del fascismo era lo stesso messianismo su cui essa stessa era radicata e temeva che ogni criterio che discriminasse i fascisti la discriminasse. Dunque «...già durante l’esame in prima Sottocommissione, l’Assemblea costituente non accolse... la proposta di Giorgio La Pira di introdurre, quale ulteriore limite alla libertà associativa, il rispetto delle altre libertà garantite dalla Costituzione, anche per il timore, manifestato da socialisti e comunisti, di un suo possibile uso contro le future minoranze»[53]. Il 19 novembre 1946, Basso, avvicinatosi alla posizione di La Pira, propose di «prevedere un generale requisito di democraticità dei partiti»[54]. «Evidentemente preoccupato di una possibile esclusione ex lege dalla vita politica dei comunisti» Togliatti obiettò “che un partito antidemocratico, quale ad esempio un partito anarchico, dovrebbe essere combattuto sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee, ma non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi”[55]. Qui il principio è che a un partito nemico della democrazia non si deve negare il diritto di esistere e di svilupparsi. «Nel medesimo intervento, tuttavia, l’allora segretario del PCI propose “che si dica che è proibita, in qualsiasi forma, la riorganizzazione di un partito fascista, perché si deve escludere dalla democrazia chi ha manifestato di essere suo nemico”»[56]. Qui il principio è che a un partito nemico della democrazia si deve negare il diritto di esistere e di svilupparsi.

Intossicato dalle atmosfere internazionaliste, Togliatti ragionava in contrasto con l’idea stessa di diritto, nei termini della Costituzione russa del 1918 o in quelli di Krylenko, per cui il diritto dipende non dalla persona, ma dalla convenienza di classe. Nondimeno, la proposta di Togliatti, «con piccole varianti, fu approvata all’unanimità al termine della seduta»[57]. La formula definitiva: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista»[58] doveva essere inserita come ultimo comma nell’art. 49 della Costituzione[59], ma forse un senso di imbarazzo per la contraddizione stridente lo spinse, contro la sua natura che transitoria non è, tra le Disposizioni transitorie e finali.

In questo modo Togliatti ottenne che la Costituzione fosse antifascista senza che fosse antitotalitaria, che distinguesse tra un totalitarismo, il fascismo, che è cattivo perché razzista, e un totalitarismo, il comunismo, che è buono benché classista. Che i costituenti abbiano accettato una simile forzatura si spiega per un verso con le pressioni delle potenze vincitrici affinché l’Italia desse un segnale esplicito della sua rottura con il passato fascista, per altro verso con il momento storico, il meno opportuno per accendere uno scontro tra i partiti emersi dalla guerra civile, in un contesto internazionale in cui il presidente Truman non aveva ancora esposto la sua «dottrina» e l’alleanza tra la Russia di Stalin e le potenze anglosassoni non era ancora rotta ufficialmente.

La natura antifascista e non antitotalitaria della Costituzione continuò a tenere in vita un’apparenza di fascismo di cui la mentalità messianica, eternamente in guerra civile, si giovò per dare apparenza difensiva alla sua originaria vocazione alla violenza. Fu facile insinuare l’accusa di fascismo nell’anticomunismo democratico o liberale; altrettanto facile appellarsi all’idea di progresso, per cui il successivo è migliore del precedente, e sostenere che il comunismo, essendo il futuro, è la forma progredita della presente liberal-democrazia, e il totalitarismo, che esso promette, è superiore al pluralismo che questa assicura. Si formò dunque una serie progressiva di cui il fascismo era il minimo, il comunismo il massimo e la liberal-democrazia in posizione intermedia, con la possibilità di degradarsi verso la reazione così da provocare la giusta sollevazione comunista o di elevarsi verso il progresso così da trasfigurarsi per sé stesso in comunismo.

La completa infondatezza della serie era occultata dalla sua semplicità e non temeva nessuna smentita empirica. Quando Chruščëv denunciò la natura criminale del potere bolscevico, Togliatti, a differenza del socialista Nenni, non seppe rinunciare alla sua fede e al suo ruolo di dirigente di punta dell’internazionalismo, e non pensò a tentare una via autonoma dal comunismo russo. Così quando l’Ungheria cercò di liberarsi dalla condizione di satellite, egli incitò i dirigenti russi alla repressione per salvare il sistema stalinista messo in pericolo dalle loro rivalità[60]. La scelta di Togliatti di tenersi fermo al mito della Rivoluzione d’ottobre fu un successo politico: benché Chruščëv avesse confermato la verità di accuse sconvolgenti, che fino al ’56 i comunisti liquidavano come menzogne dei controrivoluzionari, il PCI mantenne il suo consenso elettorale; i suoi simpatizzanti accettarono la complicità dei loro dirigenti con i dirigenti russi.

Pochi intellettuali comunisti ebbero il coraggio di allontanarsi dal partito, non si aprì una discussione sull’idea stessa di rivoluzione in quanto guerra civile, né sulla compatibilità dell’uguaglianza assoluta con la libertà, dunque con la vita umana, né sulla natura violenta dei regimi comunisti per cui si abbandonavano ad eccessi non inferiori a quelli nazisti. Solo la Chiesa cattolica, ben informata sulle crudeli persecuzioni subite dai cristiani nel mondo comunista, fu nitida nel suo giudizio. La sua condanna del comunismo muoveva però dalla fede che, razionale nel contenuto, non ha forma logica universale[61], può dunque essere sottovalutata come superstizione. D’altra parte molta cultura laica, non avendo mai chiarito criticamente il suo rapporto con il messianismo illuminista, non poteva non sentirsi affine al PCI, dunque lo legittimò come partito progressista sulla base di una comune eredità, in vista dell’emarginazione del cattolicesimo dalla società italiana. La conseguenza fu che l’equivoco sulla natura del comunismo, dopo aver attecchito nella Costituzione, si radicò nella società italiana.

Il crollo del potere bolscevico in Russia ha dunque avuto un effetto paradossale in Italia: non ha indotto i dirigenti e i militanti comunisti a ritirarsi dalla vita politica per pentirsi dei loro errori, né gli intellettuali a rivelare le verità taciute del Novecento, li ha invece sciolti da una zavorra che non avevano avuto mai il coraggio di deporre e li ha emancipati dall’inutilità politica a cui si erano condannati – ma non dalle loro abitudini. Ancora più dei fascisti di Salò, non si sono vergognati del loro passato; nella vicenda russa hanno sentito solo una sconfitta casuale delle proprie speranze, non il manifestarsi della contraddittorietà di attuare il paradiso attuando l’inferno; della rivoluzione comunista hanno dunque dismesso il comunismo, ma non la rivoluzione, non l’odio del presente né la pretesa di spezzare il continuum storico per entrare in un mondo nuovo. Il crollo del bolscevismo si è tradotto nel ritorno al giacobinismo: con un’ultima svolta, a cui proprio la loro storia li aveva ben esercitati, hanno ammainato lo stendardo della società senza proprietà privata, ma essendo tornati all’illuminismo, sono restati al di qua del pluralismo e hanno conservato la loro concezione della politica come guerra civile e della società monolitica.

Avendo servito per lunghi anni sotto la falsa sigla dell’internazionalismo la potenza straniera, alla sua scomparsa i vecchi comunisti italiani si sono trasformati in una compagnia di ventura per offrirsi al reclutamento dei gruppi di potere che, riesumato il dirigismo illuminista, vogliono ridurre l’indipendenza degli Stati e la sostanza della libertà individuale[62]. Il sogno del PCI di fare dell’Italia una democrazia popolare satellite di Mosca si è infine realizzato nell’averla umiliata in colonia dell’Unione Europea; l’abitudine della guerra contro il popolo è divenuta infine inibizione a risolvere i problemi particolari e coazione ad esacerbarli in emergenze che cancellano gli ordinamenti costituzionali e militarizzano la società in vista di sempre nuove grandi mete; la vecchia prassi della persecuzione del controrivoluzionario è divenuta infine diffamazione ed emarginazione del dissenziente. Né manca, se c’è bisogno di propaganda, l’ideale ugualitario: è così che le politiche che smantellano l’economia si giustificano con la ridistribuzione della ricchezza e quelle che smantellano la scuola con l’inclusività.

7. LA CULTURA DEL NOVECENTO DEFORMATA DAL MESSIANISMO

Giustamente impressionato dalla parola «razzismo», il senso comune attuale non prova un uguale brivido d’orrore all’udire la parola «classismo»; si risparmia la sua critica e così si priva di un importante strumento per comprendere l’attuale crisi di civiltà. Classe sembra essere una nozione economica; in realtà è una determinazione messianica. – Il lavoro sociale non è la somma di identici lavori individuali, ma è diviso in settori che si integrano collaborando e scambiando. La divisione del lavoro consente una produttività più elevata e crea lo spazio al virtuosismo dell’astrazione scientifica necessaria al progresso generale della tecnica. D’altra parte, la nascita e l’educazione, il talento e la preferenza, differenzia l’abilità e la capacità di lavoro degli individui; inoltre circostanze per loro casuali fanno sì che le loro prestazioni siano più o meno richieste. Ne segue che i redditi sono molto diversi. La diversità può generare la percezione che la sopravvivenza di alcuni sia un’arbitraria concessione di altri. Ciò suscita il profondo senso di ribellione da cui germoglia la nozione di classe. Essa trascura il merito individuale, il preferire soggettivo, il caso, e spiega la diversità dei redditi con l’ipotesi di una violenza originaria che ha posto fine all’uguaglianza universale; inoltre trascura che la diversità del reddito è quantitativa, suscettibile di infinite sfumature, e la considera una determinazione qualitativa, che genera un contrasto.

Ci sono dunque solo due classi: i poveri condannati alla fatica, alla miseria e all’umiliazione dai ricchi che nuotano tra gli ozi e i piaceri. Il classismo spiega la miseria del povero con la durezza del ricco che gli toglie il pane di bocca per circondarsi del superfluo; e gli sembra sufficiente togliere al ricco la proprietà e ridistribuirla secondo uguaglianza, perché tutti abbiano di che vivere con dignità. Certo, potrebbe anche darsi il caso che la miseria sia l’effetto della scarsa produttività, non della disuguaglianza; in tal caso la ridistribuzione delle ricchezze, semplificando l’economia alla sussistenza, potrebbe anche deprimere la produttività e peggiorare la miseria. Rousseau vi si rassegna. Marx respinge la soluzione ridistributiva; ma conserva la nozione di classe, anzi la radicalizza attribuendo al sistema capitalista, accanto alla tendenza a sviluppare la produttività, la tendenza contraria ad estendere e intensificare la miseria. Così, mentre i rivoluzionari francesi hanno odiato i nobili e il clero per il loro parassitismo, Marx odia ancora di più la classe capitalista per la malignità con cui conserva la miseria che lo sviluppo produttivo ha già superato, e la condanna all’annientamento.

Carica di quest’odio mortale, la nozione di «classe» non ha valore conoscitivo; è solo uno strumento per esasperare le differenze umane in contrasti insanabili e per lanciare un appello alla rivoluzione con cui eliminare una volta per tutte non solo lo sfruttamento, ma ciò che Marx considera la sua origine, la divisione del lavoro. Considerare classe un gruppo sociale significa dunque concepirlo come sfruttato o sfruttatore e, se è quello sfruttato, invitarlo a recuperare l’uguaglianza scatenando la guerra civile mondiale per sterminare gli sfruttatori[63].

La cultura del Novecento è stata profondamente corrosa dal fiume sotterraneo del classismo. La nozione di «classe» ha metastatizzato in ogni campo dell’umanità[64] e ogni complementarità è stata diffamata come mistificazione ideologica dello sfruttamento. Poiché inoltre le complementarità tra gli individui e quelle tra gruppi differenti sono consacrate da istituzioni, il classismo si dà alla vecchia pratica illuminista del sacrilegio. Così la cultura è dissacrata come propaganda con cui la classe dominante consolida la sua egemonia; le conoscenze scolastiche sono disprezzate come nozioni inutili con cui la classe degli insegnanti umilia i figli degli sfruttati; la famiglia è diffamata come strumento con cui la classe degli uomini opprime quella delle donne; lo Stato come strumento dell’egoismo; da ultimo, con un ritorno rousseauiano, lo stesso spirito umano è dissacrato come offesa alla natura. Poiché la costruzione delle complementarità implica le difficoltà della conoscenza teorica e il tatto, poiché d’altra parte la dissacrazione ha il facile sapore piacevole della lotta dell’illuminismo contro la superstizione, l’atteggiamento rozzo, il gesto vandalico si diffondono ormai da un secolo in tutta la società e fondano un culto dell’elementarità che deturpa la cultura.

Prima di esercitare la sua distruttività nella storia, il messianismo classista novecentesco è penetrato nell’arte. Con l’avvio della produzione industriale dei beni di consumo si estingue il lavoro artigianale. Mentre l’artigiano teneva uniti progetto ed esecuzione e innovava solo per prevenire la noia dei clienti, l’industria separa progetto ed esecuzione, affidando il primo al creativo e all’ingegnere, la seconda alla macchina e all’operaio, ed è sostenuta dall’investimento che la innova. Anche l’artista, che finora era stato un artigiano, soltanto più sensibile all’originalità, si vede minacciato dalla concorrenza dell’industria; inoltre il carattere di articolo di lusso delle sue opere entra in contrasto con la sua condizione economica precarizzata dalla fine dell’aristocrazia feudale, laica e soprattutto ecclesiastica, e delle sue committenze. Questa doppia polemica, da una parte contro la produzione industriale, dall’altra contro la precarietà economica, lo rende sensibile alla polemica classista contro il capitalismo e all’esigenza di uguaglianza.

L’arte moderna inizia nell’arte figurativa: la pittura in particolare è minacciata dalla fotografia, che in pochi anni rende inutile l’imitazione, per secoli il metro più elementare dell’abilità dell’artista. Poiché le prime (e bellissime) foto hanno bisogno di lunghi tempi di esposizione e sono prive di colore, la pittura reagisce alla concorrenza diventando impressionista, proponendo cioè immagini opposte a quelle delle prime fotografie: fissa lo scintillio momentaneo della visione facendo del colore sulla tela una traccia del fuggevole colpo di pennello, elimina il chiaroscuro facendo dell’ombra stessa un colore. Così apre un nuovo campo al talento. La pittura era sempre stata imitazione della luce riflessa; scelta una delle infinite luci, i pittori dipingevano i colori della scena imitata come sue variazioni. Separatosi dalla mimesi, non dovendo dipingere più scene, il pittore moderno dipinge non solo colori che riflettono una luce, ma anche colori che sono essi stessi luce, colori direttamente luminosi: questa loro vitalità indipendente è il fascino inestinguibile delle opere della pittura moderna.

La fine della mimesi pittorica della scena implica però la fine della mimesi delle cose, degli animali e delle persone che la componevano, sostituiti nei casi estremi da punti, linee e superfici. Questa frattura turba il pubblico, dapprima incapace di cogliere i guadagni permessi dalle rinunce. Il turbamento del pubblico irrigidisce l’artista ed esaspera le sue tendenze alla ribellione e alla sopravvalutazione della novità estetica[65]. È così che la rinuncia alla mimesi delle cose assume il significato messianico di mimesi della disintegrazione delle cose e delle gerarchie a cui esse alludono.

La pittura moderna trova ora modi affini solo nelle rappresentazioni medievali o, ancora più indietro, nelle immagini primitive. Mentre però l’arte sacra del medioevo rinunciava alla profondità perché le figure diventassero allegorie del trascendente, mentre l’arte primitiva è connessa con gli spiriti della magia, negli oggetti che la pittura moderna disintegra, irrompe il messianico secolarizzato, per il quale il presente merita solo di essere distrutto e solo questa distruzione merita di essere rappresentata. La carica distruttiva dell’arte moderna si fa valere in particolare nell’opera di un pittore eccelso come Picasso, che passa dalle rappresentazioni populiste alle tracce delle cose sulla carta che le ha avvolte, da quadri che scombinano immagini tagliate al delirio dei ritratti di donne crudelmente deformate – nei quali la violenza sulle cose e sugli ordini è l’unico contenuto rappresentato. I residui di questa distruzione messianica sono l’orizzonte delle avanguardie: in una gara di vandalismo liquidatorio, Marinetti celebra la distruzione, Tzara l’insulso, Breton lo spudorato; negli epigoni la loro ostentata miseria creativa diventa truffa.

A meno che i pittori non si siano lasciati traviare dal messianismo delle avanguardie, la rinuncia alle cose non ha leso la qualità delle loro opere, perché l’imitazione è sempre stata secondaria rispetto ai problemi posti dalla composizione delle linee e dei colori. La lesione si è verificata quando il rifiuto messianico del presente ha indotto rinunce non compensabili da guadagni di sensibilità. È il caso della musica. – In un colloquio radiofonico Adorno, l’ideologo della musica moderna, ha contestato l’uso delle triadi armoniche perché false. Questo può solo significare che l’armonia, come per i logici la proposizione contraddittoria, non corrisponde mai alla realtà perché la realtà è brutale. Ma l’inizio del Novecento, quando Schoenberg rinuncia alla tonalità, è la belle époque: della Prima guerra mondiale non c’è neanche il sentore e il mondo non è più brutale di quanto lo sia sempre stato[66]. Non solo il rigetto delle triadi armoniche porta con sé il disprezzo della complementarità tra voci femminili e voci maschili, tra giovani (soprani e tenori) e vecchi (contralti e bassi); l’apologia della scelta di Schoenberg in termini di falsità dell’armonia comporta la falsità di tutta la musica occidentale.

Lo stupore che Adorno ostenta per l’ostilità del pubblico alla musica moderna sembra non vedere come la novità musicale di Schoenberg consista non tanto nell’essersi emancipato dal sistema tonale, quanto nell’avergli fatto violenza, prima preferendo in modo sistematico gli intervalli e le armonie che esso proibiva, poi normalizzando la violenza nella composizione con le serie fisse di note[67]. Con la sua scelta Schoenberg ha composto opere eccelse estorcendone la forma ai miracoli del timbro e della dinamica, ma ha anche ridotto la melodia alla declamazione e l’armonia all’indifferenziato. Anziché cercare di attribuire a melodia e armonia in musica il ruolo secondario che l’imitazione ha sempre avuto nelle arti figurative, si sarebbe dovuto pensare che le scelte di Schoenberg fossero una sua idiosincrasia, senza cercare di accreditarle come un’evoluzione fatale[68], vincolante per l’intero mondo musicale. Forse si sarebbe potuto evitare che Schoenberg, mediato dal riduzionismo di Webern, inducesse nella musica successiva il primitivismo selvaggio.

Se le ragioni estetiche della rivoluzione musicale non sono così cogenti e universali come si è preteso, la rivoluzione letteraria, cioè l’abolizione della rima e del verso, dell’ipotassi, della sintassi e perfino della grammatica, ha origine soltanto dal degrado della ribellione in comodo conformismo; la sua diffusione testimonia solo l’ansia di aderire a una tendenza facile senza averla compresa, e scade nella sfacciataggine di presentare il vandalico come intuizione superiore.

[31] Cfr. Zur Kritik der politischen Ökonomie al seguente indirizzo: http://www.mlwerke.de/me/me13/me13_007.htm . Nella sua Introduzione l’uso di contraddizione come sinonimo di conflitto tra due è norma: «Auf einer gewissen Stufe ihrer Entwicklung geraten die materiellen Produktivkräfte der Gesellschaft in Widerspruch mit den vorhandenen Produktionsverhältnissen oder, was nur ein juristischer Ausdruck dafür ist, mit den Eigentumsverhältnissen, innerhalb deren sie sich bisher bewegt hatten.» «A un certo grado del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società cadono in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, ossia, detto con un’espressione giuridica, con i rapporti di proprietà entro i quali si erano fin lì mosse». Ancora più evidente più sotto: «..., sondern muß [man] vielmehr dies Bewußtsein aus den Widersprüchen des materiellen Lebens, aus dem vorhandenen Konflikt zwischen gesellschaftlichen Produktivkräften und Produktionsverhältnissen erklären.» «... anzi, questa coscienza va spiegata con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra forze produttive e rapporti produttivi sociali». I corsivi sono nostri.

[32] Ibidem.

[33] La natura del rapporto servo-signore è stata esposta da Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Gli intellettuali marxisti hanno potuto apprezzare la sua esposizione nella misura in cui non l’hanno compresa; essi accettano per inerzia la valutazione dei rivoluzionari francesi che hanno diffamato la nobiltà come oziosa e parassitaria e ignorato che la sua essenza è la lotta.

[34] «Di notte noi andammo a mangiare, lui no. Non riceveva pacchi dono, era solo, mai sazio, ma non si alzò. L’idea della scodella fumante non poté offuscare per lui l’incorporea Libertà. Se tutti fossimo stati fieri e fermi come lui, quale tiranno avrebbe resistito?» Solzenicyn, Arcipelago GULag III, Milano 1978, p. 309.

[35] Cfr. l’Introduzione a Per la critica dell’economia politica, in Opere di Marx ed Engels XXX, Roma 1986, p. 298. p. 299.

[36] Walter Benjamin lo ha espresso nella prima delle sue celebri Tesi sulla filosofia della storia, ma ne ha tratto una conclusione stupefacente: la debolezza del materialismo storico consisterebbe nel suo voler essere scienza, non nella sua essenza messianica. Cfr. Angelus Novus, Torino 1962, p. 72.

[37] Per la critica dell’economia politica, in Opere di Marx ed Engels XXX, cit., p. 298.

[38] Cfr. Lenin, Il socialismo e la guerra, Roma 1976, p. 13. Analoghe affermazioni a pp. 30, 31, 33, 34, 71, 73, 77.

[39] Lenin, I compiti dei distaccamenti dell’esercito rivoluzionario (1905), in Opere complete, Roma 1960, vol. 9. p. 400.

[40] Lenin, Polnoe sobranie sočinenij, Moskva, 1958-1966, Vol. LIV, p.198; citato in Il libro nero del comunismo, p. 119. Traduzione leggermente corretta.

[41] Si tratta del comma 23 dell’art. 5. Lo cita Emilia Magnanini a p. 2 del suo bel lavoro I diritti civili nell’URSS, 1917-1936, consultabile al seguente indirizzo: https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n5-6/19_Magnanini-a.pdf .

[43] Citato in A. Solženicyn, Arcipelago GULag I, Milano 1974, pp. 312-313.

[44] Propriamente in questo consiste la pianificazione. È quanto accadrà trent’anni dopo anche nella Cina di Mao.

[45] Cfr. https://www.roma1.infn.it/~anzel/brecht.html . La richiesta di Brecht è stata soddisfatta con generosità; la sua poesia, per quanto bella, una delle più sfrontate della letteratura mondiale, è stata musicata su commissione da Gottfried von Einem per il trentesimo anniversario della fondazione dell’ONU ed eseguita il 24 ottobre 1975 sotto la direzione del maestro Giulini. La cantata in questione è disponibile al seguente indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=s7Yzp8CF9iI ; la poesia di Brecht inizia dal minuto 20:20.

[46] Alla Conferenza nazionale degli stachanovisti il 17 novembre 1935. Citato in A. Solženicyn, Arcipelago GULag III, cit. p. 113.

[47] Interessante la ricostruzione dei rapporti tra URSS e Germania hitleriana contenuta in Aga Rossi-Zaslavsky, Togliatti e Stalin, Bologna 1997, pp. 42-52. Ignorando il piano di conquista dell’Oriente che Hitler ha esposto nel Mein Kampf, Stalin ne favorisce l’avvento in Germania impedendo alla KPD di allearsi alla SPD contro il nemico comune, per favorire l’ostilità tra gli Stati occidentali. Una volta compreso il pericolo della Germania nazista, inaugura l’antifascismo nel Comintern, ma continua a mirare a una guerra tra tedeschi e anglo-francesi in modo da essere tertius gaudens. Di qui gli approcci di Stalin verso Hitler che hanno successo nel 1937 e giungono il 23. VIII. 1939 a un patto che ufficialmente è soltanto di non-aggressione, ma per i suoi protocolli segreti è di spartizione dell’Europa orientale: col permesso di Hitler, Stalin può occupare la Polonia orientale, le repubblica baltiche, la Finlandia, la Bessarabia e la Bucovina. Finisce così la fase dei fronti nazionali antifascisti e inizia l’alleanza di fatto con la Germania nazista. Ricevute tramite Comintern le nuove direttive di Stalin, i comunisti dei paesi occidentali si precipitano all’autocritica: deplorano di essersi attardati nella politica dei fronti popolari e dell’appoggio agli anglo-francesi, e si schierano contro i loro governi, contro la guerra antifascista, contro il «tradimento della socialdemocrazia». La smentita dell’antifascismo provoca la confusione totale. I comunisti francesi, dopo l’invasione del maggio 1940 del loro paese, non sanno come restare fedeli a Stalin e insieme partecipare alla resistenza antitedesca. Stalin li ignora; è preoccupato per il crollo della Francia che lo sloggia dalla posizione di tertius gaudens e lo espone di nuovo all’aggressività tedesca. Tuttavia, constatata l’incrollabilità degli inglesi, in novembre Hitler propone a Molotov che l’URSS entri ufficialmente nell’alleanza tra Germania, Italia e Giappone, una Quadruplice che compatterebbe l’Eurasia contro l’Inghilterra e la condannerebbe alla sconfitta. Stalin persegue però il fine del comunismo mondiale attraverso successive espansioni; pone perciò condizioni: vuole la Finlandia, che aveva resistito alla sua aggressione del 1940, la Bulgaria, gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli per affacciarsi sul Mediterraneo, la Turchia e l’Iran per affacciarsi sull’Oceano Indiano. Per Hitler è troppo; le trattative si fermano. Per riavviarle il 25 novembre Molotov annuncia all’ambasciatore tedesco che è pronto a sottoscrivere l’accordo. Ma i tedeschi non lo vogliono più: le purghe con cui Stalin ha falcidiato i vertici dell’Armata Rossa l’hanno così disorganizzata, lo si è visto nella disastrosa campagna finlandese, che Hitler è sicuro di poter abbattere l’URSS con un Blitzkrieg. Il 18 dicembre l’aggressione dell’URSS per la primavera successiva è già decisa. Il «meraviglioso georgiano» (come lo chiamava Lenin) si disorienta: di fronte al deteriorarsi dei rapporti con i tedeschi segue la linea contraddittoria di disponibilità all’alleanza e di conflitto armato, senza ottenere l’una e senza preparare l’altro; intanto ai partiti comunisti dei paesi occupati dai nazi-fascisti continua a indicare come nemico principale il loro governo. Impaniata da questo intreccio di cinismo e cialtroneria la Russia si avvia indifesa alla catastrofe del 1941.

[48] In un’intervista rilasciata quando non disponeva ancora della bomba atomica, menzionata in Aga Rossi – Zaslavsky, Op. cit, p. 256, Stalin afferma: «Io non credo che la bomba atomica sia un forza così seria come pensano alcuni leader politici. Le bombe atomiche servono a intimidire chi ha i nervi deboli ma non possono decidere il destino di una guerra».

[49] Sulla centralità dell’appartenenza al partito nel comunismo italiano, cfr. le illuminanti pp. 97-99 in M. Badiale – M. Bontempelli, Il mistero della sinistra, Genova 2005.

[51] Non dagli interessi dello Stato sovietico, perché la sedicente Unione Sovietica non è uno Stato, ma una guerra civile ingaggiata dal partito comunista contro la società. I burocrati dei partiti comunisti non russi sono parte del ceto privilegiato russo che vive a spese di una popolazione sempre sull’orlo dell’inedia.

[52] Cfr. l’indirizzo alla nota 38: «Praticamente in tutti i paesi d'Europa e d'America la lotta di classe sta entrando nella fase della guerra civile. In questa situazione i comunisti non possono assolutamente contare sulla legalità borghese. Essi sono costretti a creare ovunque un'organizzazione clandestina parallela che nel momento decisivo aiuterà il partito a fare il suo dovere per la rivoluzione. In tutti i paesi in cui i comunisti non sono in grado di operare legalmente, a causa dello stato d'assedio o di leggi d'emergenza, è assolutamente indispensabile affiancare al lavoro legale quello clandestino.»

[53] G. E. Vigevani, Origine e attualità del dibattito sulla XII disposizione finale della Costituzione: i limiti della tutela della democrazia, consultabile al seguente indirizzo: http://www.astrid-online.it/static/upload/pape/paper1_vigevani.pdf  pp. 8-9. L’articolo si segnala per una certa sua smania di proteggere la democrazia italiana dalla minaccia fascista.

[54] Ibidem, p. 11.

[55] Ibidem, p. 11. Togliatti, che aveva combattuto nella guerra civile spagnola, sapeva bene quali fossero gli argomenti per convincere gli anarchici della falsità delle loro idee.

[56] Ibidem, p. 11.

[57] G. E. Vigevani, op. cit., p. 11.

[59] «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

[60] Per l’atteggiamento di Togliatti si veda Aga Rossi-Zaslavsky, cit., pp. 290-291. Il testo cita da «L’Unità» del 6 novembre 1956 la seguente frase di Togliatti: «Una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa [...] non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uovo». Togliatti usa fascismo nel significato molto esteso di cui la parola non riesce ancora a disfarsi.

[61] Riferendosi ai cattolici e ai comunisti, Croce parla di due Chiese, dimenticando però che la Chiesa autentica ha saputo dominare il suo messianismo nel segno della carità – almeno fino all’attuale papa.

[62] Cfr. il tono stucchevole del messianismo illuminista nella presentazione del «Great Reset» in  https://www.weforum.org/great-reset/ : «The contest. The Covid-19 crisis, and the political, economic and social disruptions it has caused, is fundamentally changing the traditional context for decision-making. The inconsistencies, inadequacies and contradictions of multiple systems –from health and financial to energy and education – are more exposed than ever amidst a global context of concern for lives, livelihoods and the planet. Leaders find themselves at a historic crossroads, managing short-term pressures against medium- and long-term uncertainties. The opportunity. As we enter a unique window of opportunity to shape the recovery, this initiative will offer insights to help inform all those determining the future state of global relations, the direction of national economies, the priorities of societies, the nature of business models and the management of a global commons. Drawing from the vision and vast expertise of the leaders engaged across the Forum’s communities, the Great Reset initiative has a set of dimensions to build a new social contract that honours the dignity of every human being.» Secondo gli autori del testo, l’emergenza della pandemia, opportunamente esasperata così da aumentare le paure, non è un avvenimento banale, ma è un punto di svolta messianico: l’occasione per ridurre o eliminare la differenza e la pluralità – dopo averle diffamate come origine delle incoerenze, delle inadeguatezze e delle contraddizioni che mettono in pericolo l’umanità. I dirigenti degli Stati non devono limitarsi a gestire i problemi particolari, devono assoggettarsi alle idee di palingenetiche. E per nascondere lo spirito totalitario dell’iniziativa, i signori del Great Reset non trovano di meglio che rivolgersi alle élite nel linguaggio del totalitario Rousseau – tale è la forza del pregiudizio che la democrazia unanimistica sia sinonimo di libertà.

[63] I toni che il classista Lenin usa nell’agosto del 1818 risuonano dello stesso odio implacabile di quelli usati dal razzista Hitler quando parla degli ebrei: «Nessun dubbio è possibile. Il kulak è un feroce nemico del potere sovietico. O i kulak sgozzeranno un gran numero di operai, o gli operai schiacceranno implacabilmente le rivolte dei kulak, dei rapinatori, che sono una minoranza, contro il potere dei lavoratori. Non ci possono essere vie di mezzo. La pace è impossibile: si può riconciliare, e persino facilmente, il kulak con il grande proprietario fondiario, con lo zar e con il prete [tutti già votati da Lenin allo sterminio], anche se prima erano venuti a lite tra loro, ma non lo si può mai riconciliare con la classe operaia». In Opere complete, vol. XXVIII, Roma 1967, p. 53. Disponibile al seguente indirizzo: https://www.marxists.org/italiano/lenin/lenin-opere/lenin_opere_28.pdf . Fu Stalin a eliminare i kulaki come classe, ma non si può dire che non sia stato fedele al suo maestro.

[64] Persino nella psicanalisi il rapporto tra Es, Io e Super-Io risente dello schema classista: l’Es è il desiderio che l’io, inibito dal Super-Io, non può soddisfare.

[65] Nel linguaggio dei critici d’arte la novità sembra essere diventata l’unico parametro estetico; eppure J. S. Bach suonava antiquato ai suoi contemporanei.

[66] La Prima guerra mondiale segna il passaggio di Schoenberg dalla composizione atonale alla composizione seriale.

[67] Com’è noto, ogni pezzo dodecafonico è composto sulla base di una serie delle dodici note fissata in modo che nessuna assuma maggiore importanza delle altre.

[68] Su questo punto Adorno incorre in una contraddizione appena attenuata dalla retorica: «I mezzi della musica moderna... sono risultati dal movimento immanente dell’antica, da cui essa si distingue contemporaneamente per un distacco qualitativo» (Filosofia della musica moderna, Torino 1959, p.17. La traduzione, riprovevole, è di G. Manzoni). La musica moderna è in continuità con l’antica e insieme se ne distacca, ossia non lo è. A parte l’inopportunità di usare le categorie della misura nell’ambito dello spirito – una cattiva abitudine appresa da Marx –, Adorno non si sofferma su questa contraddizione, così fa passare un distacco nato da una scelta individuale per il risultato di un moto oggettivo.



 

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