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domenica 28 giugno 2020

Riflessioni su sinistra radicale e crisi di civiltà


Un secolo di estrema sinistra
(lettere al futuro, 1)
Marino Badiale


I. Introduzione
L’organizzazione sociale capitalistica, che da decenni si è estesa all’intero pianeta, è ormai entrata in un fase di decadenza necrotica. Essa sta distruggendo, sempre più velocemente, i fondamenti stessi dell’esistenza di ogni società umana: il legame sociale fra gli individui e il legame metabolico fra natura ed umanità. Questa spirale autodissolutiva si tradurrà in un devastante crollo di civiltà, molto probabilmente entro la fine di questo secolo [1]. Sono del tutto convinto che non esista nel nostro mondo nessuna forza sociale capace di incidere su questa traiettoria mortifera, e quindi, in sostanza, che non ci sia niente da fare, se lo scopo che ci si propone è quello di prevenire il crollo della nostra civiltà. Ci si possono però porre altri obiettivi, rispetto ai quali in effetti c’è qualcosa da fare. Credo che uno scopo generale possa essere quello di salvare elementi di civiltà dal crollo futuro. Questo significa in primo luogo creare embrioni di comunità che possano attraversare i tempi bui che ci aspettano, comunità che siano informate dal tipo di valori, idee, riferimenti spirituali che pensiamo necessario provare a salvare. Naturalmente tali comunità dovranno per prima cosa sopravvivere, e non possiamo sapere cosa saranno in grado di trasmettere ai loro discendenti. La creazione di simili “comunità di sopravvivenza” è importante soprattutto per i giovani, che probabilmente vivranno buona parte della propria vita in una situazione di crisi sempre più grave, e per le persone dei ceti medi e bassi, che non avranno nessun’altra risorsa da utilizzare se non la solidarietà e l’aiuto reciproco.

In collegamento con questa idea della “trasmissione attraverso il tunnel” del crollo di civiltà, si può delineare un altro compito al quale oggi vale forse la pena dedicarsi. Possiamo cioè provare ad aiutare i terrestri del futuro a capire questo nostro tempo. Coloro che sopravviveranno al crollo dovranno lottare a lungo in condizioni difficilissime, e non avranno molto tempo per riflettere sulla storia. Se vogliamo essere ottimisti, possiamo però sperare che, dopo una fase storica di lunghezza oggi non prevedibile, verranno ricostruite le basi di una civiltà non del tutto ferina, e vi saranno intellettuali e pensatori che si assumeranno il compito di comprendere gli eventi storici ad essi precedenti. Credo che per tali pensatori futuri il nostro tempo rappresenterà un enigma di difficile comprensione. Un’umanità dotata di ricchezza e potere a livelli mai visti nella storia, che si avvia lungo una spirale di autodistruzione chiaramente individuata e prevista, senza in sostanza opporre alcuna resistenza. Come è stato possibile tutto questo? È mia intenzione fornire un aiuto a questi amici del futuro. Proverò a scrivere loro alcune lettere, nelle quali cercherò, per quanto sono in grado di fare, di fornire qualche elemento di comprensione della follia del mondo in cui mi sono trovato a vivere la mia vita di adulto.
In questa prima “lettera al futuro” cercherò di comprendere uno degli aspetti dell’attuale mortifera dinamica storica: si tratta del fatto che le forze politiche e sociali di opposizione al capitalismo non sono minimamente riuscite a incidere su di essa. E questo nonostante l’evidenza sempre crescente del carattere appunto mortifero del capitalismo attuale. In realtà ho già trattato a lungo di questi temi, in particolare nei libri scritti con Massimo Bontempelli [2]. In questi testi abbiano analizzato il meccanismo che ha portato la sinistra ad essere una forza storica del tutto interna alle dinamiche capitalistiche. In essi facciamo riferimento soprattutto a quella che oggi si chiama “sinistra moderata” o “sinistra liberale”, e non riprenderò adesso le argomentazioni a questo proposito svolte nei lavori citati. Può essere invece interessante concludere l’analisi della sinistra esaminando il problema della “sinistra radicale” o “sinistra estrema”, collegandolo appunto al tema della prossima fine dell’attuale civiltà. Questo scritto sarà dunque dedicato al tema della “sinistra radicale” nel Novecento e del suo ruolo nelle società capitalistiche avanzate.

II. Un secolo di estrema sinistra
L’estremismo di sinistra del Novecento nasce con il fallimento della rivoluzione comunista in Occidente. Al seguito della Rivoluzione d’Ottobre si formano in Occidente i partiti comunisti che cercano di realizzare nei paesi avanzati la presa del potere realizzata dai bolscevichi in Russia. Come è noto, questi tentativi falliscono, e in seguito a questo fallimento i partiti comunisti vengono “bolscevizzati”, cioè vengono allineati alle direttive politiche e organizzative provenienti dai comunisti russi, diventando ben presto articolazioni della politica sovietica, in sostanza interessati alla difesa del “primo paese socialista” piuttosto che alla rivoluzione (gli obiettivi rivoluzionari vengono mantenuti come semplice retorica). Le minoranze che al loro interno non condividono tale evoluzione ne escono e iniziano a dare vita a piccoli gruppi comunisti che cercano di mantenere viva la tradizione rivoluzionaria, iniziando così la tradizione dell’estremismo di sinistra del ‘900. Possiamo allora situare la nascita dell’estremismo di sinistra nel periodo immediatamente successivo alla sconfitta della rivoluzione nei paesi occidentali. Ma quando fallisce la rivoluzione in Occidente? Difficile determinare una data precisa, ma possiamo indicare grosso modo il periodo che va dal 1919 (insurrezione spartachista in Germania, con la morte di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht) al 1921 (“azione di marzo”) o forse al 1923 (tentativo insurrezionale ad Amburgo, ultima fiammata rivoluzionaria in Germania). Tutte le date indicate fanno riferimento alla Germania (e non è un caso), comunque il periodo indicato comprende anche il biennio rosso italiano (‘19-’20), la repubblica dei consigli bavarese del ‘18-’19 (ancora la Germania), la repubblica dei consigli ungherese del ‘19.
In sostanza possiamo dire, grosso modo, che l’estremismo di sinistra nasce all’inizio o alla metà degli anni Venti, e ha quindi, ormai, circa un secolo di storia. Si tratta di un periodo storico molto lungo, che dovrebbe permettere di trarre un giudizio complessivo su questa esperienza, almeno per quanto riguarda i paesi occidentali. La cosa più semplice da osservare è la seguente. L’estremismo di sinistra si separa dai partiti comunisti “ufficiali” (cioè filosovietici) in nome della rivoluzione, ma non fa mai nessuna rivoluzione, e la situazione in realtà è molto peggiore: non solo l’estremismo di sinistra non fa nessuna rivoluzione, ma, nei paesi industriali avanzati, non ci si avvicina nemmeno da lontano. Non si avvicina nemmeno da lontano ad avere una forza effettiva in base alla quale poter anche solo progettare un percorso che sensatamente possa portare ad una rivoluzione. L’estremismo di sinistra non esiste, non è mai esistito, sul piano della realtà politica effettiva, dei rapporti di forza reali, nei paesi occidentali. Non crea mai nessun radicamento fra le masse che, quando si interessano alla politica di sinistra, aderiscono in stragrande maggioranza o ai partiti riformisti-socialdemocratici, oppure ai partiti comunisti “ufficiali”. L’estremismo di sinistra si riduce sempre a una miriade di piccoli e piccolissimi gruppi che riuniscono qualche intellettuale radicale e qualche proletario acculturato e politicizzato, e che trascinano la propria storia producendo documenti, libri, analisi teoriche, discutendo all’infinito, litigando, separandosi, riaggregandosi per poi separarsi di nuovo. E tutto questo in decine di paesi diversi, lungo un secolo di storia, in guerra e in pace, durante le crisi economiche e i periodi di prosperità. In tutte le situazioni più diverse, l’estremismo di sinistra è sempre uguale a se stesso nell’infinità delle sue varianti: uguale nella sua assoluta incapacità di incidere sulla realtà.
Non si può evitare un giudizio storico di fallimento. L’esperienza di un secolo di sinistra radicale è l’esperienza di un radicale fallimento. Si intende “fallimento” rispetto ai fini che l’estremismo stesso si era dato, ovvero la rivoluzione comunista o, almeno, la capacità di creare delle forze politiche effettive. È certo che l’estremismo di sinistra ha prodotto molte cose interessanti, sul piano intellettuale: come abbiamo sopra indicato, esso ha prodotto libri, riviste, analisi teoriche ed empiriche. Si tratta di un patrimonio intellettuale di grande interesse. Ma non era questo ciò che si era proposto.
È chiaro che questo fallimento epocale ha qualcosa a che fare col problema da cui siamo partiti, cioè quello della necrosi capitalistica e della disperante mancanza di forze attualmente capaci di combatterla. Se l’estremismo di sinistra fosse riuscito a costituire una forza effettiva di contrasto alle dinamiche capitalistiche, forse queste ultime non avrebbero potuto dispiegarsi in maniera così completa e assoluta come il nostro tempo ci mostra, e forse potremmo oggi avere la speranza di evitare le catastrofi che ci attendono. Si può anche osservare che una parte della sinistra radicale ha sviluppato per tempo una buona percezione del pericolo che lo sviluppo illimitato dell’accumulazione capitalistica rappresenta per il legame metabolico fra uomo e natura, e l’ha nutrita di riflessioni interessanti. Mi ripeto: se questo patrimonio intellettuale si fosse concretizzato in una forza politica effettiva, forse la situazione oggi sarebbe meno disperata. È dunque significativo, per capire il nostro tempo e la sua totale negatività, capire le ragioni del fallimento storico della sinistra radicale.

III. Le ragioni di un fallimento
Le ragioni del fallimento dell’estremismo di sinistra sono, io credo, fondamentalmente semplici: l’estremismo di sinistra si appella alle masse popolari invitandole a fare la rivoluzione, prendere il potere e guidare la società nella direzione del socialismo/comunismo. Ma le masse popolari non amano le rivoluzioni, non vogliono il potere e non sono interessate al socialismo/comunismo, e quindi declinano l’invito, lasciando l’estremismo di sinistra nella solitudine in cui vive, come abbiamo detto, da circa un secolo. Il problema ultimo dell’estremismo di sinistra è cioè il fatto che fondamentalmente non capisce quelle masse popolari che, nelle sue aspirazioni, dovrebbero rappresentare la sua base sociale, il pilastro della sua forza politica. Con questo non si intende dire che l’estremismo di sinistra non abbia mai avuto nessun collegamento con le masse popolari, non sia mai riuscito ad esprimere le loro aspirazioni (ovviamente è riuscito, ogni tanto, a farlo). Si intende dire che non ha mai capito alcuni aspetti fondamentali di ciò che sono gli esseri umani e, in particolare, quelle masse popolari che chiama all’azione.
Cerchiamo di esaminare rapidamente i tre punti che abbiamo elencato: fare la rivoluzione, prendere il potere, costruire il socialismo/comunismo.
Le masse popolari non amano le rivoluzioni perché fare la rivoluzione significa accettare l’idea di uccidere ed essere uccisi. Nessuna persona sana di mente ama la violenza. La grande maggioranza delle persone può acconsentire all’idea che la violenza, in certe circostanze (essenzialmente difensive), risulti necessaria. Ma un tale uso deve avere dei confini precisi, se non vuole prima o poi allontanare quelle masse popolari che la sinistra radicale vorrebbe conquistare alla propria causa. Parlando di “confini della violenza” si intende dire che ci devono essere dei limiti per quanto riguarda gli obbiettivi, l’estensione, la durata della violenza. Gli obbiettivi devono essere chiaramente specificati, la violenza non può estendersi indefinitamente a tutti, e non deve avere una durata indefinita. L’esempio fondamentale di un tipo di violenza che può risultare accettabile, rispetto a quanto appena detto, è quello della Resistenza antifascista: in questo caso la violenza ha uno scopo preciso (sconfiggere il fascismo), e di conseguenza ha estensione e durata ben definiti (si usa violenza contro fascisti e alleati, e solo finché il fascismo è sconfitto). Ovviamente anche in questo caso ci sono stati “sconfinamenti” delle pratiche violente, ma si è trattato di eccessi di breve durata. È facile rendersi conto del fatto che la violenza politica rivoluzionaria nel Novecento non soddisfa a questi requisiti: gli obbiettivi sono generali e quindi non chiaramente definiti (la rivoluzione, il socialismo/comunismo), la violenza si estende potenzialmente all’intero corpo sociale, nessuno sa quando essa finirà (questo ovviamente si collega al carattere non chiaramente definito dei suoi obbiettivi). Basta esaminare la storia della Rivoluzione russa e dell’URSS per rendersi conto di questi punti.
Mi sembra che, di fronte a queste considerazioni, sia giustificata la diffidenza popolare verso i rivoluzionari. Prendendo in esame gli esiti delle rivoluzioni del Novecento, la diffidenza non può che aumentare. Se si guarda la vicenda storica del “socialismo reale” del Novecento, dei suoi sviluppi e dei suoi esiti, se si guarda il costo terribile in termini di vite umane, di sofferenze, di atrocità, se si considera che il risultato finale è stato il ripristino del capitalismo (in una forma o nell’altra), non ci si può sottrarre all’idea che la diffidenza popolare verso i banditori di rivoluzioni sia più che giustificata.
Per quanto riguarda l’invito della sinistra radicale a prendere il potere, il rifiuto popolare si radica su aspetti fondamentali della natura umana. Infatti la caratteristica specifica dell’essere umano, rispetto al resto del vivente, è di non essere legato univocamente ad una determinazione biologica, ma di avere accesso allo spirito che è libertà, per usare il linguaggio dell’idealismo. Questo significa, fra l’altro, che gli esseri umani possono essere infinite “cose” diverse, possono determinare il proprio ruolo nel mondo in infiniti modi diversi, a seconda delle infinite interazioni che ciascun individuo può avere col proprio ambiente nel corso della vita. Questa libertà è ovviamente limitata dalle necessità della sopravvivenza materiale e dalle regole delle diverse organizzazioni sociali. La modernità è il tentativo di diminuire il più possibile il peso di queste costrizioni, e di permettere a ogni individuo di realizzare le proprie potenzialità. È questa appunto la libertà dei moderni, secondo la nota argomentazione di B.Constant [3]. Fra le infinite potenzialità dell’essere umano, quella della gestione del potere è solo una, e ragionevolmente interesserà solo una piccola parte dell’umanità, esattamente come qualsiasi altra specifica attività. Il fatto che solo piccolissime minoranze rispondano all’appello della presa del potere è dunque una conseguenza naturale del fatto che l’essere umano, quando può, sceglie liberamente fra infinite possibilità. Questi dati di fatto implicano esattamente quello che succede in tutta la modernità: le masse sono felicissime di delegare il potere e la sua gestione a un ceto specializzato, purché ovviamente sia garantita a tutti la libertà di perseguire i propri interessi (nel senso più ampio della parola), il che fra l’altro implica un certo grado di liberazione dalle necessità della sopravvivenza materiale. Naturalmente, le masse sono pronte alla contestazione dei ceti dirigenti, fino alla rivolta, nelle situazioni di crisi, quando tali ceti dirigenti non riescono più a garantire la sicurezza, la vita, la libertà dal bisogno. Una volta abbattuti i dirigenti ormai incapaci, e sostituiti con nuovi ceti dirigenti in grado di garantire sicurezza e libertà, ciascuno torna a dedicarsi ai propri interessi. Le fiammate rivoluzionarie che hanno contraddistinto la modernità hanno tratto in inganno i piccoli gruppi di rivoluzionari di estrema sinistra, che hanno scambiato per normale ciò che era eccezionale, e che si sono sempre ritrovati da soli, una volta superata la crisi rivoluzionaria.
Si potrebbe replicare che questo dato di fatto è un “essere” al quale opporre un “dover essere”: cioè un difensore delle istanze dell’estremismo di sinistra potrebbe obiettare che, se le masse popolari non vogliono il potere, ebbene esse si sbagliano, e vanno convinte col lavoro politico e culturale dell’estremismo di sinistra. Dopotutto nel mondo antico la stragrande maggioranza della popolazione trovava del tutto “naturale” il fatto della schiavitù, e infatti istanze di abolizione della schiavitù sono, all’epoca, praticamente inesistenti, e questo dato di fatto non implica naturalmente che sia “sbagliata” l’esigenza di abolizione della schiavitù.
Ma perché, nel caso del potere, le masse avrebbero torto? Perché “bisogna” gestire il potere? La politica ha qualche valore superiore rispetto alle infinite altre possibili attività umane? Nella storia del pensiero umano questa centralità assoluta della politica non sembra trovare particolare supporto. Da Platone e Aristotele fino ad Hegel, la dimensione politica è una dimensione significativa ma subordinata ad altre dimensioni dell’umano (l’arte, la religione, la filosofia). Si può certo sostenere che occuparsi della cosa pubblica è un dovere per tutti gli individui, e sicuramente molti potrebbero essere d’accordo. Ciascun individuo è pronto fare la sua parte per il bene comune, quando è necessario. Di fronte a un incendio, se c’è bisogno dell’impegno di tutti, nessun cittadino si tira indietro. Il punto decisivo è però il seguente: il fatto che tutti siano disposti a dare una mano, se necessario, durante un incendio, non significa che si sia disposti ad aderire ad una proposta politica che ci chiede di lottare ed impegnarci per diventare tutti pompieri vita natural durante. Tutti siamo disposti ad aiutare in caso di necessità, ma appunto questo appartiene alla sfera della necessità e non a quella della libertà. La contraddizione al fondo dell’estremismo di sinistra è che esso propone alle masse una negazione della libertà (l’impegno nella politica, nella gestione del potere, a scapito degli altri interessi) e la presenta come una conquista di libertà. Il militante di estrema sinistra non si accorge di questa contraddizione perché egli appartiene a quella piccola minoranza di persone che si realizzano nella politica, che hanno la politica appunto come sfera di interesse e di realizzazione di sé. Per loro l’impegno in politica è una realizzazione di libertà, e non capiscono che per la stragrande maggioranza delle persone non è così. Di fronte al fatto che le masse popolari continuano a rifiutare cortesemente l’invito a prendere il potere, l’estremismo di sinistra ha elaborato sofisticate strategie argomentative, che in sostanza sono modi per non prendere atto della realtà: il popolo non vuole il potere, perché ha altro da fare.
Per quanto riguarda il comunismo, il fine dell’attività rivoluzionaria dell’estremismo di sinistra, il discorso è molto semplice: nessuno sa cosa vuol dire “comunismo”, almeno come proposta politica. Se chiediamo a intellettuali e filosofi, riceveremo sicuramente infinite risposte diverse, il più delle volte del tutto vaghe e generiche, oppure enunciati generali condivisibili (come il classico “ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”[4]), che non possono essere base di una concreta azione politica. Oppure ci imbattiamo in note affermazioni sul fatto che il comunismo non è un ideale da instaurare ma “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”[5]. Purtroppo, quest’ultima affermazione ha senso solo all’interno di una concezione storica nella quale lo “stato di cose presente” sviluppa al proprio interno gli elementi di una superiore formazione sociale, e si tratta allora solo di aiutare questo sviluppo. Se si rinuncia a questa visione ottimista, questa celebre frase si svuota di senso. Oggi, di fronte alla distruzione di natura e società che è conseguenza dello sviluppo del capitale, l’idea che il comunismo coincida con l’abolizione “dello stato di cose presente” suona come un’ironia piuttosto sinistra. Lo “stato di cose presente” verrà abolito da disastri che non porteranno ad uno stadio superiore di civiltà ma ad una regressione generalizzata.
Al di là di questi enunciati, non troviamo nella sinistra radicale nessuna indicazione concreta su cosa possa essere il “comunismo” nel cui nome essa esiste. Ovviamente il “comunismo reale” dei sistemi sovietici del Novecento è una cosa molto concreta, ma la sinistra radicale non lo può assumere come fondamento (se non in alcune frange minoritarie, piccole minoranze di una piccola minoranza) sia perché esso è screditato sia perché essa, in buona parte, si è costituita come tale proprio criticando il filosovietismo dei partiti comunisti “ufficiali”. La sinistra radicale non ha quindi niente di concreto da dire sul comunismo. D’altra parte, essa chiama le masse popolari a impegnare la propria vita appunto sul comunismo. A che condizioni questo appello potrebbe ricevere ascolto? Occorrerebbe in primo luogo proporre un’idea sensata di cosa possa essere una società comunista: ovviamente non si chiedono i dettagli, ma bensì una qualche idea realistica sul modo di governare la società, sul modo in cui verranno prodotti e distribuiti i beni, sulle principali istituzioni e sul modo in cui funzioneranno. In secondo luogo, occorrerebbe proporre un percorso politico concreto che parta dalle condizioni attuali e, in un tempo ragionevole, possa portare alla società comunista prospettata. È solo a queste condizioni che una persona sensata può impegnare la propria vita per il comunismo. Ma questo è appunto ciò che la sinistra radicale non è mai stata in condizioni di fare. E, di nuovo, la risposta delle masse popolari è sempre stata, da un secolo a questa parte, “no grazie”. La stragrande maggioranza delle persone non è disposta a impegnare il tempo limitato della propria vita su una parola vuota come “comunismo”.
L’argomentazione non cambia molto se alla parola “comunismo” si sostituisce “socialismo”: anche in questo caso abbiamo una parola che assume infiniti significati diversi, anche in questo caso nessuno ha un’idea precisa di cosa possa essere il socialismo e di come ci si possa ragionevolmente arrivare attraverso la politica, anche in questo caso gli unici esempi storici ai quali da più parti si attribuisce l’etichetta “socialismo” (cioè il socialismo reale oppure lo Stato socialdemocratico del welfare) sono rifiutati dall’estremismo di sinistra.
Concludiamo riassumendo questa sezione: il fallimento storico della sinistra radicale deriva dalla sua radicale incomprensione dell’essere umano e di ciò che realmente vogliono le masse a cui essa si appella.

IV. Falsa coscienza
Il fallimento epocale dell’estrema sinistra non ha come conseguenza solo il fatto che è mancata una possibile forza di contrasto alla dinamica mortifera del capitale. Purtroppo l’estrema sinistra ha funzionato spesso (non sempre) da elemento di supporto a tale dinamica. Vediamo perché. Abbiamo detto che i fondamenti della strategia politica dell’estrema sinistra sono essenzialmente sbagliati. Questo implica che essa in sostanza non ha e non ha mai avuto la possibilità di fare effettivamente una politica autonoma e concretamente efficace. Vi sono allora solo due possibilità. La prima è quella di ritirarsi dalla politica effettiva, conservando la propria autonomia: si crea un proprio piccolo gruppo con apparenti obiettivi politici (la lotta contro il capitalismo, il comunismo, il potere della classe operaia) ma che in realtà si dedica solo ad una produzione di tipo intellettuale (libri, interventi, documenti) senza nessuna valenza politica effettiva. Gli esempi di piccoli gruppi di questo tipo sono infiniti. Un tipico caso italiano contemporaneo è “Lotta Comunista”, un piccolo partito a suo modo di grande successo: esiste infatti dalla metà degli anni Sessanta, cioè da più di cinquant’anni, un periodo nel quale sulla scena dell’estremismo si sono succeduti decine o forse centinaia di gruppetti analoghi, anche più noti, che sono presto scomparsi. Invece “Lotta Comunista” è sempre lì, a dimostrazione di una capacità organizzativa invidiabile. Naturalmente l’attività di “Lotta Comunista” non ha nessuna concretezza storica effettiva. Perché esiste “Lotta comunista”? Tutta la sua attività è finalizzata alla propria autoriproduzione, alla propria permanenza nel tempo, attività nella quale, come abbiamo detto, essa si è dimostrata particolarmente efficace. In una formula, una simile organizzazione esiste all’unico scopo di esistere.
La seconda possibilità è quella di rinunciare all’autonomia, alleandosi alla sinistra maggioritaria. Questa è effettivamente l’unica strada lungo la quale la sinistra radicale può sperare di uscire dall’inesistenza politica. Si tratta però di una strada che porta in direzioni perniciose. Infatti la sinistra maggioritaria (sedicente “moderata”, in realtà estremista nel suo servilismo verso i poteri dominanti) è totalmente interna al mondo del capitale, è solo una delle sue articolazioni, e la sua azione politica è totalmente funzionale alle dinamiche del capitale. Accodandosi ad essa, la sinistra radicale si trova nella contraddizione di sostenere politiche totalmente contrarie alla propria ragion d’essere (è questa, nella sostanza, la vicenda dei rapporti fra Rifondazione Comunista e i governi di centrosinistra negli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo millennio). Essa cerca di risolvere questa contraddizione sforzandosi di dare una diversa interpretazione alle dinamiche di cui essa si fa complice, teorizzando che è possibile dare a tali dinamiche una diversa torsione, non del tutto subalterna alla sinistra maggioritaria e al capitale. Ma anche prescindendo dalla questione se questa analisi abbia un fondamento (o non sia piuttosto un wishful thinking), il problema è che, per dare concretezza fattuale a queste eventuali possibilità alternative, occorre una forza politica che la sinistra radicale non ha. Occorre avere una base sociale, una strategia, una direzione percorribile: tutte cose che, come abbiamo detto sopra, la sinistra radicale non ha mai avuto. Nella totale incapacità di dare una qualsiasi concretezza alla sua pretesa di stare “dentro, ma contro” la gestione politica del mondo del capitale, la sinistra radicale si riduce a falsa coscienza: si fa lo stesso che fanno gli altri ma ci si racconta di essere diversi. Le chiacchiere rivoluzionarie spariranno nel nulla, come hanno sempre fatto, mentre resterà l’appoggio, poco o tanto, fornito al capitale. Pensando a Rifondazione, si può dire che tutte le chiacchiere di Bertinotti e compagnia si sono ridotte a nulla, mentre quello che rimane sono gli effetti delle politiche liberiste attivamente perseguite dai governi di centrosinistra sostenuti da Rifondazione. Allo stesso modo, svaniranno nel nulla le chiacchiere di molti settori dell’attuale sinistra radicale sulla possibilità di una “altra Europa”, più bella e più buona dell’attuale, e quello che resterà sarà il contributo che tali settori hanno dato a impedire la costruzione di un polo anticapitalista critico verso l’Unione Europea.
Da questo punto di vista, la sinistra radicale appare uno dei casi più clamorosi di falsa coscienza nella storia del Novecento.

V. Innocenti evasioni
Ma se tutto questo è vero, come mai esiste ancora l’estrema sinistra? Si tratta di una realtà ultraminoritaria, che però esiste e persiste, a dispetto della sua palese inutilità rispetto agli scopi che essa dice di avere: la rivoluzione o il comunismo o quant’altro. Se l’estrema sinistra attira ancora alcune persone quando è del tutto evidente che essa nulla può per quegli ideali che dice di avere, ebbene è ovvio che tali persone aderiscono all’estrema sinistra per motivi che non sono quelli dichiarati. Per capire di cosa si tratta, bisogna pensare a un aspetto che abbiamo tentato di evidenziare: cioè la sorprendente ripetitività del mondo dell’estrema sinistra. Da un secolo a questa parte, in tutto il mondo occidentale, i piccoli gruppi dell’estrema sinistra si formano, discutono, producono documenti, fanno volantinaggio, litigano su questioni teoriche spesso astruse, si scindono, si ricompongono, fanno grandi analisi sociostoricopoliticoculturali, si riscindono, e così via e così via, sempre uguali a se stessi: in tutto il mondo occidentale, da un secolo a questa parte. Le persone al di fuori di questo mondo trovano tutto ciò piuttosto folle, ma in realtà questo non è così strano, perché trova una analogia con fenomeni molto più diffusi: per capire questo mondo, bisogna infatti pensare al ruolo che hanno certe serie televisive nella vita di tante persone. Anche in questo caso infatti, come nell’estrema sinistra, abbiamo una estrema ripetitività di situazioni, storie, attività, anche in questo caso molti partecipano con forti emozioni alle storie raccontate, e anche in questo caso le vicende non hanno la minima rilevanza nel mondo reale, le cui dinamiche procedono indisturbate. Il punto è che il pubblico ama le soap opera e le sitcom esattamente per queste caratteristiche: perché esse rappresentano un momento di evasione e di diversione dalla durezza della realtà, senza nessuna rilevanza per la realtà stessa.
Mi sembra ragionevole ipotizzare che i riti del mondo dell’estrema sinistra abbiano una funzione simile, cioè rappresentino per le piccole minoranze che ne fanno parte una forma di evasione dalla realtà. Naturalmente questa affermazione deve esser precisata. Infatti le persone di estrema sinistra sono convinte del contrario, sono convinte di essere le persone coscienti dei problemi del mondo e che si impegnano per affrontarli, e certo in questo c’è una parte di verità. Il punto decisivo sta in ciò che abbiamo osservato all’inizio di questo scritto, cioè nel fatto che nel mondo dell’estrema sinistra non è mai stato elaborato un percorso sensato, ragionevole, credibile, di fuoriuscita dal capitalismo. Ma se si ha coscienza del carattere distruttivo dell’attuale organizzazione sociale, e non si ha la minima idea di come uscirne, è forte il pericolo di cadere nell’angoscia, nella depressione, nella pazzia. I rituali ripetitivi dell’estrema sinistra hanno allora il compito di impedire questi sviluppi negativi, di schermare lo sguardo rispetto al carattere disperato della nostra attuale situazione, di illudersi che si possa ancora fare qualcosa. L’attivismo insensato dell’estrema sinistra rappresenta una “eterna ripetizione dell’identico” che permette una certa evasione dall’angoscia, come fanno appunto le serie tv.

VI Conclusioni iniziali.
È solo arrivati a questo punto che comincia ad emergere il problema cruciale, che sarà, io credo, molto discusso dagli storici del futuro. Infatti, l’incapacità del mondo dell’estrema sinistra di pensare un’alternativa al mondo del capitale è solo un caso particolare, e nemmeno il più importante, del dato storico fondamentale del nostro tempo: il fatto cioè che il capitale si è posto ed è vissuto come l’unico mondo possibile per gli esseri umani, come una realtà intrascendibile, una assolutezza non questionabile. Per citare la nota frase attribuita a F.Jameson, è davvero più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo. È una simile intrascendibilità, che in questo scritto abbiamo esaminato in rapporto al mondo dell’estrema sinistra, che bisognerà esaminare e tentare di comprendere, nelle prossime “lettere al futuro”.



Note

[1] La coscienza di una fine prossima della nostra “insostenibile” civiltà si sta ormai facendo strada negli ambienti culturali più diversi. Per avere un’idea di questo tipo di discussioni si possono leggere, ad esempio, i seguenti testi: P.Servigne, R.Stevens, Comment tout peut s’effronder (Seuil 2015); J.M.Gancille, Ne plus se mentir (Rue de l’échiquier 2019); J.Simonetta, L.Pardi, Picco per capre (LU::CE Edizioni 2018); Y.Cochet, Devant l’effondrement (Les liens qui libèrent 2019); J.M.Greer La lunga discesa (LU::CE Edizioni 2019); D.Wallace-West La terra inabitabile, (Mondadori 2020).

[2] M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata (Massari 2007); Id., Civiltà occidentale (Il Canneto 2009); Id., Marx e la decrescita (Asterios 2010); Id., La sfida politica della decrescita (Aracne 2014).

[3] Su Constant si veda S.DeLuca, Constant (Laterza 1993), e M.Bontempelli, La conoscenza del bene e del male (Editrice C.R.T. 1998), pagg.83-96.

[4] K.Marx, Critica al programma di Gotha (Editori Riuniti 1990), pag.18.

[5] K.Marx, F.Engels, L’ideologia tedesca (Editori Riuniti 1975), p.25.





2 commenti:

  1. Paolo Di Remigio mi ha inviato il seguente commento, che non è riuscito pubblicare per problemi tecnici. Lo pubblico io, diviso in due parti (M.B.)

    Paolo Di Remigio, Commento (prima parte)


    «… egli appartiene a quella piccola minoranza di persone che si realizzano nella politica, che hanno la politica appunto come sfera d’interesse e di realizzazione di sé.»
    L’essenza della politica non è, come scrive Schmitt, l’alternativa amico-nemico, ma la fluidità di quest'alternativa, l’incombere della possibilità che l’amico diventi nemico e viceversa. La capacità politica, come giustamente ha scritto Hobbes, è quindi innanzitutto la capacità di tessere alleanze, l’arte del compromesso tra potenzialmente ostili. Essa coincide con la disposizione all’elasticità, alla spregiudicatezza, al cinismo, perfino al tradimento. Pensiamo a grandi capi (qui “grande” non ha alcuna accezione etica, ma soltanto pragmatica, nel senso dell’imperativo ipotetico) come Cavour che si accorda segretamente all’opposizione di Rattazzi per liquidare il governo di D’Azeglio mentre ne è ministro, che si allea a Napoleone III secondandone le mire imperiali verso l’Italia, sperando che l’Inghilterra le vanifichi. Oppure a Giolitti, pronto a ogni alleanza, perfino con la mafia. Gli stessi rivoluzionari diventano attori storici nella misura in cui diventano politici nel senso definito sopra. Lenin si accorda con la Germania imperiale per tornare a Pietrogrado, si allea con i contadini, che pur espropria delle eccedenze, per vincere la guerra civile, e concede loro la proprietà privata della terra per consolidare il governo bolscevico, arretrando coscientemente dall’ideale comunista; non solo, il futuro della rivoluzione russa è del pragmatico Stalin, che aderisce a qualunque orientamento in funzione delle alleanze per isolare i suoi rivali e getta alle ortiche l’ideale della rivoluzione mondiale. – Lo stesso ‘Manifesto del partito comunista’, se presenta tutti gli ingredienti dell’estremismo con la sua volontà di semplificare la storia riducendola all’antagonismo tra oppressori e oppressi, deve la sua forza anche alla volontà di riconoscere altri partiti, con i quali stringere alleanze.

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  2. Paolo Di Remigio, Commento (seconda parte):


    Tutt’altra natura la ‘politica’ perseguita dagli estremisti; nulla essi disprezzano più della disposizione al compromesso, cioè della quintessenza dell’arte politica; il valore supremo riconosciuto è la purezza, l’inflessibilità. Proprio il perseguimento di questo valore li rende impolitici, li condanna all’impotenza settaria di cui l’articolo parla, anzi eventualmente ne fa uno strumento di mene politiche di centri di potere costituiti.
    A illuminare la natura dell’estremismo un contributo può venire dalla considerazione dialettica della nozione di volontà. Essa non è un’entità semplice, ma il ricomporsi da un contrasto: da una parte vuole soltanto sé stessa, è cioè astratta, assoluta; dall’altra vuole contenuti particolari, questi beni, questa donna, questa posizione sociale ecc.; nella sua concretezza la volontà vuole non solo il contenuto particolare, ma in questo suo particolarizzarsi vuole anche conservare l’assolutezza – è questa la libertà che sostanzia il mondo etico. L’estremismo è la volontà nella sua forma astratta, assoluta, che esiste solo come negazione dell’altro da sé. A proposito della volontà nella sua astrazione e pensando all’estremismo giacobino e al terrore rivoluzionario di trent’anni prima, scrive Hegel nella nota al § 5 dei «Lineamenti di filosofia del diritto»: «Se la facoltà di rappresentazione irrigidisce per sé come libertà questo solo lato… della volontà, se la volontà si determina alla possibilità assoluta di poter astrarre da ogni determinazione…, alla fuga da ogni contenuto come se questo fosse una barriera – allora questa è la libertà negativa, o libertà dell’intelletto. – Elevata a forma reale e a passione, la libertà del vuoto, se resta soltanto teoretica, nella religione diventa il fanatismo della pura concezione indiana, ma se si volge alla realtà, nella politica come nella religione diventa il fanatismo che distrugge ogni ordine sociale sussistente, elimina gli individui sospetti a un ordinamento e annienta ogni organizzazione che voglia riemergere. Solo distruggendo qualcosa questa volontà negativa ha il sentimento di esistere; crede di volere un qualche stato positivo, per es. lo stato di uguaglianza universale o di religiosità universale, ma di fatto non ne vuole la realtà positiva, perché questa riporta subito un qualche ordine, una particolarizzazione sia di istituzioni che di individui; ma è dall’annientamento della particolarizzazione e della determinazione oggettiva che a questa libertà negativa sorge l’autocoscienza. Così ciò che essa crede di volere può essere di per sé soltanto una rappresentazione astratta, e la sua realizzazione può essere soltanto la furia del distruggere».

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