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domenica 22 marzo 2020

La Commissione dell'Amore e la fine del capitalismo







La Commissione dell’Amore e la fine del capitalismo

Marino Badiale



I. Premessa
Lo stimolo diretto alla stesura di questo scritto viene dall’istituzione, da parte del Senato della Repubblica Italiana, della “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza” [1], ma le riflessioni che lo compongono hanno radici più lontane. Da molto tempo, infatti, mi sembra di notare nelle nostre società una tendenza alla restrizione della libertà di pensiero e di espressione, e ritengo che questo tema meriti una riflessione specifica. Si tratta di tendenze notate da vari osservatori, per esempio Massimo Fini che, intervenendo a proposito dell’istituzione della Commissione, scrive che non si possono proibire i sentimenti [2]. La mia prima reazione, quando si è cominciato a parlarne, è stata quella di trasformare la dicitura “Commissione contro l’odio” in “Commissione dell’Amore”, e associare una tale Commissione al “Ministero dell’Amore” di orwelliana memoria. Queste sono battute scherzose, naturalmente, ma accennano a un problema serio, ovvero al problema se si stiano lentamente erodendo, nei paesi avanzati, alcuni dei fondamentali principi della civiltà occidentale, e, se questo è vero, quali ne siano le cause. A questi problemi sono dedicate le riflessioni che seguono.


II. Introduzione
Il punto di partenza delle mie considerazioni, lo sfondo generale nel quale devono essere inquadrate, è la convinzione che la civiltà occidentale stia vivendo gli ultimi anni della sua storia. La sua organizzazione economica e sociale, che brevemente indichiamo col termine “capitalismo”, sta ormai distruggendo le basi naturali e sociali della sua stessa riproduzione. Si tratta di una società entrata in una fase “autofagica”[3], che porterà alla sua fine traumatica, probabilmente entro la fine di questo secolo. Ho delineato uno schizzo di queste dinamiche in alcuni interventi pubblicati in questo blog [4], interventi che riprenderò brevemente più avanti. In questo scritto intendo evidenziare un aspetto particolare ma significativo della crisi generale della civiltà occidentale, ormai incipiente. È facile infatti prevedere che la fine della civiltà occidentale coinvolgerà alcuni dei suoi valori fondamentali, se non tutti. In particolare, la crisi ambientale, che al momento si manifesta come mutamento climatico ma assumerà probabilmente forme molteplici, imporrà severe restrizioni sulla libertà delle scelte di vita individuali alle quali la società contemporanea ci ha abituati. La lotta politica del futuro sarà anche una lotta su quali restrizioni accettare e quali rifiutare. Anche in vista di tali lotte politiche future, in questo scritto intendo in primo luogo mostrare come alcuni dei valori fondamentali della civiltà occidentale siano messi in discussione già oggi, anche se in modi non del tutto espliciti. Intendo poi provare ad elaborare una spiegazione di tale fenomeno. Alla fine cercherò di trarre delle conclusioni “politiche” (in senso molto lato) dall’analisi precedente.



III. L’erosione della libertà di parola
I punti critici sui quali mi concentrerò in questo scritto sono due: il progressivo ridursi, nei paesi occidentali, della libertà di pensiero e di espressione del pensiero, e il progressivo ridursi delle garanzie di protezione dell’individuo di sesso maschile nei processi nati dalle accuse di una donna. Si tratta in entrambi i casi di effetti di quello “spirito del tempo” che è abituale denominare “politicamente corretto”. Cercheremo allora in primo di luogo di individuare tali tendenze, e poi di capire in che modo il “politicamente corretto” si collega alla dinamica catastrofica della società contemporanea.

La realtà culturale delle società occidentali alla fine della Seconda Guerra Mondiale era segnata dal ricordo delle dittature contro cui si era combattuto e dalla sfida rappresentata dal “campo socialista”. Questa situazione rese inevitabile il fatto che il mondo occidentale rappresentasse se stesso come il campo delle più ampie libertà per tutti gli individui. Ovviamente in questo c’era una componente di ideologia: non tutte le libertà individuali formalmente ammesse erano in realtà concretamente operanti, e in singole situazioni di crisi il potere statale poteva sempre sospendere alcune libertà. È però innegabile che per qualche decennio la direzione verso la quale si muoveva il mondo occidentale è stata quella di assicurare e ampliare la sfera delle libertà individuali. Verso la fine del secolo, in tempi diversi nei vari paesi, hanno cominciato a sorgere tendenze di tipo opposto.
Se facciamo riferimento a quel diritto fondamentale che è la libertà di pensiero e di parola, ci pare possibile sostenere che la tendenza alla restrizione di tali libertà diventi storicamente significativa quando vengono configurate come reato le opinioni “negazioniste” sul genocidio ebraico, prima in Francia poi in vari paesi dell’Europa continentale. A partire da lì si diffondono via via, in maniera differenziata nei vari paesi, iniziative legislative tese a configurare come reato l’espressione di varie forme di opinioni e ideologie rifiutate dalla grande maggioranza della popolazione, per esempio opinioni razziste, antidemocratiche, omofobe. In paesi come l’Italia c’è un forte spinta a proibire l’espressione di posizioni politiche ispirate al fascismo, nei paesi dell’ex-Europa dell’Est una simmetrica spinta a rendere illegali formazioni politiche e espressioni ideologiche di ispirazione comunista o marxista. Questo tipo di impostazione è stata fatta propria anche dal Parlamento dell’Unione Europea [5]. Ciò che colpisce, e che si collega a quanto dicevamo all’inizio, è il carattere di “normalità” che le iniziative di questo tipo hanno assunto negli ultimi decenni: non nel senso che ogni iniziativa venga approvata, ma nel senso che la repressione legale delle opinioni sembra diventato uno strumento legittimo di governo, e non appare più come una violazione di principi fondamentali della civiltà occidentale. Cerchiamo allora di capire perché si tratti invece proprio di questo. Perché la libertà di pensiero e di parola è un elemento fondamentale della moderna civiltà occidentale? Perché essa è inscindibilmente connessa ai dati più basilari di tale civiltà. Pensiero critico, emancipazione dell’individuo dai legami delle società tradizionali, libertà di parola e di pensiero, democrazia, sono tutte nozioni che definiscono aspetti imprescindibili della moderna civiltà occidentale, e sono fra loro intimamente connesse. Infatti, la moderna civiltà occidentale è quella civiltà che, per realizzare la piena emancipazione di ogni individuo, il suo diritto a costruire la propria vita e la propria personalità, deve emanciparsi dai vincoli delle società tradizionali, nelle quali gli individui, nella stragrande maggioranza, vivono una vita determinata appunto dai vincoli della tradizione e dalla casualità della loro nascita. Ma in questo modo, rifiutando i vincoli della tradizione, viene meno anche la gestione tradizionale del potere, e si pone il problema di come gestire il potere nelle nuove condizioni. Individui emancipati e liberi di scegliere la propria vita si percepiscono come uguali nei diritti, e quindi, in particolare, con gli stessi diritti alla partecipazione al potere, e la democrazia appare allora il logico sviluppo di tale società. Una società che rifiuta i vincoli della gestione tradizionale del potere, e affida le decisioni politiche a cittadini liberi e uguali, non può che far emergere tali decisioni dalla libera discussione razionale dei cittadini. Ma la libera discussione razionale dei cittadini è possibile, per definizione, solo con la totale libertà di pensiero e di espressione del pensiero. La libertà di pensiero e di parola è quindi inscindibile dalla democrazia e dal progetto emancipativo della modernità.
È per questo carattere fondativo della civiltà occidentale moderna che la libertà di pensiero è elencata come uno dei diritti fondamentali nelle Costituzioni e nelle Dichiarazioni dei Diritti: in questo modo se ne vuole fare un diritto non legato alle contingenze politiche, non revocabile al cambiare delle maggioranze.
Quanto si è fin qui detto dovrebbe essere una banalità, e tale era fino a qualche tempo addietro. Come dicevamo all’inizio, la libertà di pensiero e di parola è sempre stata considerata, nei paesi occidentali, un bene prezioso, e uno dei tratti che contraddistinguevano l’Occidente rispetto ai suoi antagonisti storici del Novecento: i regimi reazionari (fascismo e nazismo) e il socialismo sovietico.
I fenomeni che abbiamo sopra elencato sembrano indicare che si sono messi in moto meccanismi che tendono a negare questi principi fondamentali. Ogni volta le misure di restrizione del campo delle opinioni ammissibili vengono giustificate con motivi di particolare insopportabilità delle opinioni proibite, e di particolare pericolosità. Si fanno spesso a questo proposito gli esempi delle vicende storiche del fascismo e del nazismo, ma è proprio in riferimento a tali vicende che mostra la novità delle tendenze attuali. È infatti vero che in particolari momenti di scontro fra movimenti politici con valori opposti si può arrivare alla sospensione dei diritti fondamentali, compreso quello della libertà di parola. Ma si tratta di momenti nei quali si è in presenza di uno confronto aspro che sfocia prima o poi nello scontro violento, se già tale scontro non è in corso. Basti pensare agli scontri fisici fra fascisti e antifascisti nell’Italia del primo dopoguerra, o agli scontri fra nazisti e antinazisti nella Germania degli anni ‘20. In tali casi si è arrivati alla violenza e all’omicidio. Oppure si pensi alla guerra partigiana: è chiaro che i fascisti non permettevano la libera espressione del pensiero agli antifascisti, nei territori da essi controllati, e altrettanto facevano gli antifascisti.
Questi esempi servono a chiarire il punto: la sospensione dei diritti fondamentali, fra i quali la libertà di parola, ha senso solo in presenza di una situazione eccezionale nella quale è in corso uno scontro violento, per esempio fra forze che intendono abbattere uno Stato democratico e instaurare una dittatura e forze che a questo si oppongono (o viceversa). Una tale situazione è però, ovviamente, eccezionale e transitoria.
Le differenze con la situazione attuale sono evidenti: oggi si invoca la proibizione di opinioni sgradite senza che vi sia il minimo elemento che possa far temere rivolgimenti violenti dello status quo, e d’altra parte queste proibizioni non sono pensate come risposte a situazioni di emergenza destinate a essere rapidamente revocate, ma come ingredienti permanenti nel futuro delle nostre società.
Queste misure, concepite appunto come misure permanenti, rappresentano con ogni evidenza una lesione gravissima dei fondamenti delle nostre società. Infatti, dire che la libertà di pensiero e di espressione non è più un diritto fondamentale, ma può essere messa in questione dalle variabili maggioranze politiche, è lo stesso che dire che il potere politico (variabile appunto secondo le diverse maggioranze) ha diritto a stabilire cosa si può pensare e cosa no. E non vale replicare che tali misure si applicano solo a casi estremi, perché in ogni caso si lascia al potere la libertà di decidere quali sono i confini dei “casi estremi”. Basti pensare a cosa succede in Italia con la parola “fascismo”. Nel nostro paese esistono piccoli gruppi di ispirazione fascista, ed esistono realtà virtuali (siti, pagine facebook) che propagandano ideologie di quel tipo. Tutto questo è privo di qualsiasi rilevanza storico-politica: i gruppi politici di ispirazione fascista non hanno nessun seguito effettivo, nessuna capacità di azione politica effettiva, e al più possono rappresentare, in certe situazioni locali, un limitato problema di ordine pubblico; quanto a internet, vi si trova il fascismo come vi si trova qualsiasi altra cosa, dai rettiliani ai terrapiattisti, esattamente con gli stessi risultati pratici (pari a zero). Nonostante questa inesistenza pratica del fascismo, esistono in Italia molte persone che ritengono impellenti la mobilitazione antifascista e il contrasto di un fascismo inesistente nella realtà storica effettuale, e che sono favorevoli a misure che restringano la libertà di propaganda dei fascisti. Il punto è che gli antifascisti italiani proseguono oggi una pessima abitudine della sinistra italiana, quella cioè di usare l’appellativo “fascista” come clava per colpire gli avversari politici. Ciò significa, ed è questo il punto cruciale, che quando gli antifascisti dicono “i fascisti non devono parlare” bisogna sempre avere presente il sottinteso, raramente esplicitato, “chi è fascista lo decido io”. Ciò che gli attuali antifascisti vorrebbero è dunque poter abolire la libertà di parola per i “fascisti”, e poi decidere che “fascista” è, per esempio, la Lega di Salvini, o comunque l’avversario politico del momento.
Purtroppo questo tipo di impostazione non si limita all’accusa di “fascismo”. Il fascismo è una realtà storica e politica ben determinata, quindi il tentativo di usarlo per screditare qualsiasi avversario si scontra contro qualche difficoltà. L’accusa di “fascismo” può sempre essere contestata. Non ci sembra un caso allora che negli ultimi tempi si sia passati ad accuse molto più generiche, e quindi molto più difficili da discutere e contestare. L’esempio standard è l’accusa di “odio”, che è anche il tema da cui siamo partiti. Si tratta di un’accusa del tutto generica e indeterminata. La stessa mozione che istituisce la “Commissione contro l’odio” [6] ripete in più punti che la nozione di “hate speech” non è ben definita. In effetti è proprio così, e questa vaghezza è ovviamente molto pericolosa perché può essere il modo per legittimare ogni arbitrio in tema di restrizione della libertà di pensiero e parola. Infatti, la politica è scontro di forze in contrasto, e quindi al suo centro vi è la polemica e la critica reciproca. Quand’è che una critica è espressione di “odio” e quando invece no? Chi lo stabilisce? Con quali criteri? Pensiamo al marxismo: sarebbe un facile esercizio quello di andare a pescare, all’interno della vasta letteratura marxista, pagine e pagine nelle quali si esalta la violenza rivoluzionaria, l’odio di classe nei confronti dell’avversario politico del momento, la necessità di privare tale avversario di ogni diritto. È chiaro che, in una temperie nella quale si vuole censurare le espressioni di “odio”, ci sarebbero tutte le basi per mettere al bando l’intera letteratura marxista e rendere fuorilegge ogni gruppo politico che ad essa si ispiri.
Per fare un ulteriore esempio, pensiamo al movimento politico cosiddetto delle “sardine”, che a fine 2019-inizio 2020 ha riempito molte piazze in Italia esprimendo forte opposizione alle politiche e alle forme comunicative della destra, in particolare della Lega Nord e del suo leader Salvini, accusate di essere appunto espressione di “odio”. Quando i leader delle “sardine” hanno provato ad esprimere dei punti programmatici, si sono espressi quasi esclusivamente in termini di repressione del pensiero e della parola [7], attirandosi un certo numero di critiche. In particolare ha suscitato sorpresa e inquietudine la pretesa di equiparare violenza verbale e violenza fisica [8], pretesa che è davvero irricevibile in uno Stato che garantisca i fondamentali diritti individuali. In questo esempio si vede molto chiaramente come il “rifiuto dell’odio” sia una espressione del tutto generica, che funziona come grimaldello per rendere accettabili richieste molto preoccupanti dal punto di vista dei principi del diritto liberale.
È probabile che il movimento delle “sardine” si dissolva rapidamente, e che i suoi “sei punti” vengano presto dimenticati. Ciò nonostante, si tratta di un episodio che mi sembra esprimere chiaramente tutti i pericoli impliciti nella attuale deriva “proibizionistica” dei paesi occidentali. Il punto fondamentale, ripetiamolo ancora, nel richiedere che vengano proibiti i “discorsi di odio” sta nel fatto che poi è il potere del momento a stabilire cosa è odio e cosa no. Ed è facile prevedere che il potere cercherà si servirsene per mettere a tacere gli avversari. Porre la libertà di parola come principio al fondamento degli ordinamenti dei paesi occidentali serve appunto ad evitare che il potere politico del momento possa fare questo: censurare e mettere a tacere gli avversari, reali o potenziali. Ammettere deroghe al principio della libertà di parola, specie parlando di concetti vaghi come quello di “odio”, significa lasciare al potere la libertà di censurare ogni opinione sgradita.


IV. La fine dell’uguaglianza
L’altro elemento di crisi dei valori liberali sul quale volevo soffermarmi è quello legato alle dinamiche del femminismo contemporaneo. Mi riferisco alla tendenza, da parte delle sue varie correnti, a richiedere che le accuse di violenza di una donna nei confronti di un uomo debbano essere credute “sulla parola”, e debbano portare in modo automatico alla condanna. “Sorella io ti credo” è lo slogan di tante manifestazioni femministe relative a processi, in vari paesi del mondo, nei quali uomini sono accusati da donne di violenza o molestie (specie di tipo sessuale, ma non solo). Ora, in questo come in qualsiasi altro processo penale, è ovvio che lo schema del diritto liberale prevede che ci sia un accusatore che afferma la colpevolezza dell’imputato, un imputato che quasi sempre proclama la propria innocenza, una istanza giudicante (chiamiamola “giudice”) “terza”, cioè neutrale, che deve stabilire chi ha ragione fra le due parti. Il principio fondamentale, che è una ovvia conseguenza dell’uguaglianza fra tutti i cittadini, è che accusatore e accusato sono uguali, quindi a priori, prima del processo, nessuna delle due parti ha ragione e a nessuna delle due parti il giudice deve accordare più credito che all’altra. L’altro principio fondamentale è la presunzione di innocenza: le accuse devono essere provate, e finché non lo sono l’accusato è innocente; inoltre, è appunto l’accusa che deve provare la colpevolezza dell’imputato, non l’imputato che deve provare la propria innocenza.
Ora, è evidente che la pretesa femminista che l’accusa di una donna nei confronti di un uomo debba sempre essere creduta, scardina tutti questi principi: le due parti (donna accusatrice, uomo accusato), non sono uguali, perché la parola di lei vale più di quella di lui; la presunzione di innocenza viene abolita perché l’accusa di una donna nei confronti di un uomo non ha bisogno di altre prove che non siano appunto la parola della donna.
Questa appare, dicevo, come una tendenza implicita nel modo in cui il mondo del femminismo contemporaneo affronta tali problemi. In almeno un caso, però, tale tendenza è stata resa esplicita. La nota filosofa femminista Germaine Greer ha dichiarato infatti che è necessario abbassare la punizione prevista per lo stupro, affinché venga accettato il fatto che l’accusa di stupro sia automaticamente una prova [9]: “If we do say that our accusation should stand as evidence, then we do have to reduce the tariff for rape”.
Questa idea di Greer può sembrare eccessiva o provocatoria, ma sembra che in qualche modo essa colga una tendenza del nostro mondo. Vediamo infatti come qualcosa di simile emerga in ambienti diversi da quello del femminismo anglosassone. All’inizio del 2020 viene concluso il processo di primo grado nei confronti di Pietro Costa, un ex carabiniere accusato, assieme ad un collega, di stupro nei confronti di due giovani americane a Firenze. Costa viene riconosciuto colpevole e condannato a 5 anni e 6 mesi. In un sito italiano che si occupa di problematiche di questo tipo compare un’intervista all’avvocato Serena Gasperini [10], che aveva difeso l’accusato nel processo [11]. In riferimento al fatto che la pena comminata all’imputato è relativamente lieve, trattandosi di un reato grave, ove provato, l’avvocato Gasperini osserva:

Ci sono molti processi dove la prova non viene raggiunta e in questi casi l’imputato deve essere assolto perché il principio costituzionale è quello che siamo tutti innocenti fino a prova contraria e che la prova della colpevolezza deve essere dimostrata dall’accusa. Se però il reato di cui ci si occupa è un reato “sensibile” allora scatta qualcosa e il principio fondamentale del diritto in dubio pro reo si trasforma in un principio inesistente nel diritto ovvero: “poca prova, poca pena”. È bene ricordare che “poca prova” dovrebbe equivalere ad assoluzione”

L’opinione dell’avvocato Gasperini è cioè che nei tribunali italiani si stia affermando, nei processi di questo tipo, proprio l’impostazione teorizzata da Germaine Greer: si ritengono valide accuse scarsamente provate e come “compensazione” si comminano pene meno severe. La coincidenza mi sembra molto interessante in quanto spia di una tendenza di fondo: non è ragionevole immaginare che la filosofa australiana abbia una grande influenza sul comportamento dei giudici italiani, per cui l’indubbia analogia presente fra la tendenza descritta dall’avvocato Gasperini e le tesi di Greer, mi sembra possa essere il risultato, appunto, di dinamiche profonde della nostra realtà sociale e culturale.
Ammettiamo ora l’ipotesi che quella che abbiamo descritto sia effettivamente una tendenza di fondo del nostro tempo. A cosa porterebbe, se potesse dispiegarsi fino in fondo? Qual è l’esito finale di slogan femministi come “sorella io ti credo”, o di proposte come quelle di Germaine Greer?
In sintesi, mi sembra si possa affermare che l’esito finale sia quello di abolire la libertà individuale della metà maschile dell’umanità, che in tale ipotesi sarebbe sottomessa al potere arbitrario della metà femminile. Se ogni accusa di una donna nei confronti di un uomo deve essere creduta per principio, qualsiasi donna ha il potere, arbitrario e assoluto, di mandare in prigione (o ad altra pena, magari più mite) qualsiasi uomo. Ciò significa che nessun uomo è più un libero individuo, titolare dei fondamentali diritti liberali sopra enunciati (eguaglianza, inviolabilità della persona, presunzione di innocenza), ma è suddito di un potere arbitrario. È facile immaginare quali possano essere le violenze e i ricatti che una simile situazione porterebbe con sé. Si tratta delle violenze e dei ricatti tipici di quella condizione di “minorità” dalla quale, come è noto, il movimento spirituale della modernità voleva far uscire gli esseri umani, uomini e donne. Il fatto che una realtà come il femminismo, così importante nel mondo contemporaneo, presenti le forti tendenze, sopra individuate, verso la messa in mora delle conquiste liberali della modernità (almeno per la metà maschile dell’umanità), è un altro elemento di crisi dei principi fondamentali della nostra civiltà.


V. Livelli di spiegazione: lobby e base sociale
Ci sembra allora di avere individuato nello “spirito del tempo” alcune spinte verso il superamento di principi fondamentali della civiltà occidentale. La cosa più impressionante è che tali tendenze sembrano dispiegarsi in sostanza senza opposizione. Infatti è già successo che forze politiche e sociali nate dalla civiltà occidentale si siano evolute fino a metterne radicalmente in questione i principi fondamentali: fascismo e nazismo hanno messo in mora libertà di opinione e diritti alla difesa, come oggi vogliono fare altri. Ma fascismo e nazismo hanno suscitato enormi forze che ad essi si sono opposte, fino ad una Guerra Mondiale e alla vittoria contro le dittature reazionarie. Oggi, gli attacchi ai principi della civiltà occidentale, del tipo sopra descritto, non generano nessuna reazione, e sono anzi considerati manifestazioni di progresso. Si tratta adesso di capire la ragioni profonde di questa situazione. Cerco di puntualizzare la tesi di fondo: quanto fin qui detto riguarda dinamiche e linee di tendenza che legittimamente possono apparire meno centrali, nella comprensione del mondo contemporaneo, rispetto a fenomeni come i mutamenti geopolitici, la strisciante crisi economica o gli incombenti disastri ecologici. Quello che però mi pare possibile sostenere è che quanto abbiamo sopra delineato indichi un inizio di mutamento profondo delle nostre attuali società. I diritti individuali dei quali abbiamo prospettato l’erosione sono davvero aspetti fondamentali della nostra attuale civiltà. La loro messa in mora, anche solo come tendenza, sembra accennare ad un mutamento storico di vasta portata. Se le cose stanno così, occorre chiedersi quali siano le forze fondamentali che operano questo mutamento. È quanto cercheremo di fare adesso. Nell’indagare questo punto, cercheremo anche la risposta alla domanda posta sopra, relativa al fatto che queste dinamiche sembrano non suscitare opposizioni significative.
Se davvero siamo di fronte a un grande movimento storico delle nostre società, dobbiamo ricordare che fenomeni di questo tipo presentano sempre una pluralità di fattori causali, che occorre comprendere nella loro articolazione. Ogni livello causale fornisce una spiegazione parziale, che deve essere integrata con quelle degli altri livelli per ottenere una visione complessiva.
Ci sono in primo piano gli attori politici (partiti, movimenti, gruppi di pressione, lobby), che sono le realtà più visibili. Ci sono poi le forze sociali che si esprimono tramite quegli attori, e ci sono infine le dinamiche profonde della struttura sociale nelle quali si inscrivono le realtà del primo e secondo tipo e rendono possibile e sensata la loro azione. Occorre quindi esaminare questi tre livelli. Ovviamente in uno scritto come questo potremo fornire solo lo schizzo di un’analisi. Cercheremo comunque di delineare uno schizzo il più possibile adeguato alla realtà.
Il primo livello è quello in realtà meno interessante, e non ci soffermeremo su di esso. Quello che vediamo a questo livello sono varie lobby che lottano, con maggiore o minore efficacia, per ottenere visibilità, soldi e potere, e realizzare i temi delle loro diverse agende: la lobby sionista per prevenire ogni politica contraria agli interessi dello Stato di Israele, la lobby femminista per ottenere sempre e comunque vantaggi per le donne, la lobby LBGTeccecc per ottenere analoghi vantaggi per le persone LBGTeccecc. Il tipo di spiegazione che tale livello di realtà offre è piuttosto povero: le cose succedono per l’azione delle varie lobby, dei vari gruppi politici. Se non vogliamo fermarci a queste banalità, la domanda che dobbiamo porci è perché oggi sia il variegato fronte delle lobby “politicamente corrette” ad ottenere il favore dei media e del potere politico, e non le tante altre lobby presenti nell’agone politico. Ma se vogliamo rispondere a questa domanda, occorre abbandonare il piano dell’apparenza politico-mediatica e indagare la realtà sociale. Occorre individuare dove stia, nella società, la base sociale che dà forza all’azione di queste lobby, e quindi passare al secondo livello di spiegazione.
È mia opinione che questa base sociale sia costituita dalla sinistra. Per essere un po’ più precisi, intendo qui riferirmi ai ceti medi intellettuali che non fanno parte né dei ceti dominanti (ma potrebbero accedervi, in certi casi) né dei ceti popolari impoveriti da neoliberismo e crisi economica. In un testo scritto assieme al compianto Massimo Bontempelli [12], abbiamo parlato di “ceti intellettuali subalterni”. Riprenderò qui, in maniera succinta, le analisi svolte a suo tempo nel testo citato. Una delle caratteristiche fondamentali del capitalismo moderno (che indichiamo con termini come “neoliberismo” e “globalizzazione”) sta nella grande polarizzazione della ricchezza che esso induce, con aumento delle disuguaglianze sociali e impoverimento e scomparsa dei ceti medi. I ceti medi intellettuali di cui stiamo parlando, pur non essendo parte dei vertici dominanti, ne hanno assorbito l’ideologia fondamentale, la cui base è l’idea che non c’è alternativa al capitalismo neoliberista, e che mantenersi all’interno delle sue regole porta ricchezza, benessere e prospettive di arricchimento personale aperte a tutti. Queste regole prevedono principi come competizione universale, crescita economica, sviluppo tecnologico, diminuzione ampia quanto possibile del ruolo dello Stato nell’economia. Il punto è che una simile impalcatura ideologica non regge al confronto con la realtà: impoverimento e distruzione dei ceti medi sono i dati di fatto con i quali questi ceti intellettuali sono costretti a confrontarsi ormai da decenni. Il punto cruciale sta nel fatto che il disagio e la protesta contro queste evoluzioni negative della società non divengono rifiuto del capitalismo e ricerca di una strategia politica ed economica che possa portare al suo superamento. Come abbiamo detto, questi ceti hanno completamente interiorizzato il fatto che “non c’è alternativa” al capitalismo. Il politicamente corretto rappresenta la via di fuga ideologica da questo dilemma. Esso infatti si ricollega ad una tradizione ideologica importante e significativa per la formazione dei ceti intellettuali, la tradizione ideologica della sinistra. Riprendendo succintamente l’analisi svolta ne “La sinistra rivelata”, possiamo caratterizzare la tradizione ideologica e culturale della sinistra come una tradizione volta all’emancipazione attraverso lo sviluppo tecnologico ed economico. La sinistra è stata cioè il settore ideologico, culturale, politico che negli ultimi due secoli ha lottato per l’emancipazione dei gruppi subalterni della società (lavoratori salariati, donne, minoranze etniche e sessuali) considerando lo sviluppo tecnologico ed economico come condizione necessaria di tale emancipazione. All’interno delle società capitalistiche questo ha significato lottare per volgere lo sviluppo a favore dei ceti sopra ricordati. Si tratta di una impostazione che ha avuto significato e ha portato ad effettivi risultati per tutta una fase storica. Il punto decisivo è che il capitalismo, entrato nella sua fase finale, non è più in grado di aprire quegli spazi di emancipazione che si erano presentati in passato, e che la sinistra aveva saputo sfruttare e allargare. Lo sviluppo tecnologico ed economico è oggi diventato compiutamente de-emancipatorio. Lo sviluppo è sviluppo del capitale, distruttivo di natura e società. In queste condizioni, la giunzione di sviluppo ed emancipazione, che era la definizione stessa di sinistra, non è più possibile. Si dissolve quindi ciò che era la sinistra emancipativa del passato, e al suo posto restano le orribili maschere del teatro della politica contemporanea. In questo contesto il ceto intellettuale subalterno non può trovare nella tradizione della sinistra un progetto emancipativo, che in quella forma non è più possibile; non vuole trovare una istanza anticapitalistica, dalla quale anzi rifugge avendo introiettato l’ideologia dei ceti dominanti per i quali non c’è alternativa al capitalismo. Ma allora cosa cerca e trova, nella tradizione intellettuale della sinistra, che lo possa sostenere ideologicamente di fronte alla crisi sociale che sempre più lo coinvolge? Cerca e trova, operando ovviamente una opportuna selezione, una rassicurazione della propria superiorità intellettuale e morale. Il ceto intellettuale di sinistra usa alcuni aspetti selezionati della tradizione culturale della sinistra come compensazione immaginaria della sua impotenza storica, della sua incapacità di contrastare i fenomeni di degradazione sociale ed ecologica indotti dal capitalismo. Questa compensazione immaginaria appare analoga a quella che la religione forniva ai ceti dominati nel passato, e per essa si può quindi riprendere la nota espressione di “oppio del popolo”[13]. Si può a questo proposito suggerire un’altra analogia, più inquietante. Infatti, per essere superiore, c’è bisogno ovviamente di qualcuno che sia inferiore. Il ceto intellettuale di sinistra ha bisogno cioè di costruirsi l’immagine di un Altro sul quale rigettare la negatività, ha bisogno dell’immagine fantasmatica del proprio avversario: l’incolto, il nazionalista, il sovranista, il ceto medio arretrato che non legge libri, che si esprime in modi aggressivi, che è insofferente alla globalizzazione, all’immigrazione, all’Unione Europea, il maschilista, e insomma il fascista o protofascista, secondo l’uso assai disinvolto del termine “fascista” che è tipico della sinistra, e del quale abbiamo già parlato. È abbastanza evidente che questo meccanismo mentale è fondamentalmente analogo a quello del razzismo, dal quale il ceto intellettuale subalterno si crede immune. Tale ceto disprezza di un disprezzo di tipo razzista i ceti popolari che non si adeguano al suo modello di essere umano.
Questa ceto intellettuale è la base sociale dell’ideologia politicamente corretta, nelle svariate forme che essa assume. Convinto della propria superiorità intellettuale e morale, e animato da disprezzo razzista verso i ceti popolari che rifiutano la sua impalcatura ideologica, tale ceto è ampiamente favorevole a misure di limitazione dei diritti individuali, se esse riguardano soprattutto quei ceti popolari che esso disprezza. Tale ceto appare allora, come dicevamo all’inizio, la base sociale per le dinamiche illiberali che abbiamo individuato nella prima parte di questo scritto. A questo punto possiamo allora dire che tali dinamiche sono agite da alcune lobby che esprimono la visione del mondo del ceto intellettuale di sinistra. Adesso dobbiamo spingere la nostra ricerca di spiegazioni più in profondità.


VI. Livelli di spiegazione: crisi di una civiltà
Dopo aver esaminato i primi due livelli di spiegazione (l’azione delle lobby e la natura della loro base sociale), resta da capire il fondamento di tutto questo movimento, ovvero la dinamica strutturale della nostra organizzazione sociale. Abbiamo già accennato qua e là, nelle righe precedenti, al punto fondamentale, cioè al fatto che ci troviamo di fronte ad una fase di degenerazione globale di tale organizzazione, ma adesso dobbiamo esplicare le nostre tesi in maniera più stringente. Sintetizziamo qui gli interventi sopra citati (vedi nota [4]), ai quali rimandiamo per qualche maggiore dettaglio.
La tesi fondamentale è la seguente: l’attuale organizzazione economica e sociale è destinata a finire, in maniera più o meno traumatica, nell’arco di qualche decennio [14]. Tale collasso deriverà dal concorrere di cause diverse, sarà cioè il risultato del confluire di diversi processi di crisi. Stiamo cioè entrando in una fase storica nella quale meccanismi di diverso tipo porteranno a problemi sempre maggiori nella riproduzione dell’attuale ordinamento sociale. Nessuno di tali problemi probabilmente sarebbe in sé tale da causare una crisi irreversibile, ma mi sembra ragionevole pensare che sarà proprio la loro concomitanza a innescare il collasso. Le crisi fondamentali che stanno confluendo assieme possono essere schematizzate sotto tre grandi etichette: crisi economica, crisi egemonica, crisi ecologica. Per quanto riguarda il primo punto, la crisi economica scoppiata nei paesi occidentali nel 2007/08 presenta caratteristiche che hanno spinto alcuni economisti a introdurre (o reintrodurre) il concetto di “stagnazione secolare” [15]. È certo vero che la fase più acuta della crisi è stata superata, e che alcuni paesi hanno ritrovato tassi di crescita economica sostenuti. Ma questo non è vero per la totalità dei paesi avanzati, e, soprattutto, la ripresa, quando è presente, appare indirizzata sugli stessi binari che hanno portato alla crisi, cioè quelli dell’abnorme sviluppo di una economia finanziaria slegata dalla crescita dell’economia materiale. Gli studiosi che discutono la nozione di “stagnazione secolare” hanno in mente appunto una dinamica di questo tipo: cioè quella di una economia reale sostanzialmente stagnante, che viene “ravvivata” solo dallo sviluppo di bolle finanziarie, che inevitabilmente scoppiano producendo crisi economica, superata a sua volta solo dallo sviluppo di una nuova bolla, e così via.
A queste argomentazioni si potrebbe ribattere interpretando la tesi della “stagnazione secolare” non come segnale di una crisi generale dell’attuale organizzazione sociale ma piuttosto come indice di un possibile avvicendamento ai vertici del potere mondiale, quindi come una crisi legata ad un passaggio di egemonia (e veniamo così al secondo punto): l’attuale fase di stagnazione potrebbe cioè essere vista come una crisi di passaggio da una fase storica di predominio dei paesi occidentali ad una nuova centralità dei paesi asiatici e fra questi, ovviamente, in primo luogo la Cina.
Il riferimento principale è qui al testo di Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”[16], e allo schema dei “cicli sistemici di accumulazione”, che in esso viene delineato. Ciascun ciclo è dominato da una nazione egemone che acquista l’egemonia grazie ad una particolare forma di accumulazione economica, superiore a quella delle potenze rivali; con la crisi della forma che il capitalismo ha assunto in tale ciclo, la nazione egemone declina e una nuova nazione egemone sorge distruggendo le strutture del vecchio regime per instaurare le proprie; la nazione egemone guida l’espansione produttiva, caratterizzata dalla crescita di produzione e commercio. Il sistema entra in crisi quando l’investimento produttivo non riesce più a garantire un profitto accettabile, e di conseguenza il capitale, alla ricerca di un alto saggio di profitto, si sposta nella sfera della finanza. Questa “finanziarizzazione” rappresenta però appunto l’apertura di una fase di crisi per quella particolare forma di accumulazione capitalistica, e per la nazione egemone. La fase di crisi viene superata con l’instaurarsi di un nuovo ciclo, di una nuova forma di accumulazione, e di una nuova nazione egemone. Arrighi ritrova questo schema in vari momenti della storia moderna, e applicandolo al mondo contemporaneo si è portati a interpretarne vari aspetti come segnali del fatto che l’egemonia USA sta declinando e sta sorgendo il nuovo Stato egemone, la Cina.
Questa interpretazione farebbe pensare all’approssimarsi di un periodo di grave crisi della nostra organizzazione sociale, ma non ad una sua fine prossima. È a questo punto che interviene la terza dimensione della crisi attuale, quella ecologica. Il punto decisivo è che nelle precedenti fasi cicliche il capitalismo ha sempre potuto contare, per la ripresa da una crisi economica minore o per l’instaurarsi di una nuova fase egemonica, su una ampia base di risorse naturali da sfruttare, e ottenibili a prezzi relativamente bassi. La ricerca di risorse (diverse nelle diverse fasi storiche, naturalmente) è la molla che presiede a secoli e secoli di conquiste coloniali europee. Il punto decisivo mi sembra questo: a meno di scoperte scientifiche o innovazioni tecnologiche di vasta portata, delle quali al momento non si scorge traccia, quello che sembra oggi mancare è proprio un bacino di risorse a basso prezzo da sfruttare. Sembra, al contrario, che si stiano esaurendo tutti i bacini di risorse sfruttati negli ultimi due secoli. È questo che spinge a ipotizzare che la crisi attuale non sia una semplice crisi ciclica ma rappresenti l’inizio della fine per l’organizzazione sociale che ha dominato il mondo negli ultimi due secoli.
Per quanto riguarda il tema della crisi ecologica, mi limito ad accennare qui al problema dei cambiamenti climatici e a quello del possibile esaurirsi delle riserve di risorse a prezzo basso, in primo luogo il petrolio [17]. In particolare il problema del cambiamento climatico si sta imponendo come uno dei massimi elementi di grave crisi dell’attuale organizzazione sociale.
È necessario naturalmente osservare che le tre modalità di crisi che ho fin qui rapidamente delineato non possono essere pensate come evoluzioni fra loro indipendenti. È chiaro che c’è un meccanismo causale dell’intera dinamica, e può essere indicato nella logica intrinseca del capitalismo, che spinge le nostre società all’accumulazione senza fine e senza limiti. È tale logica interna che porta alle crisi economiche e allo scontro degli imperialismi, secondo i meccanismi analizzati da Marx e dai marxisti, e porta altresì alla predazione nei confronti della natura, considerata come riserva infinita di risorse a costo basso o nullo. Una trattazione teorica adeguata a questa realtà dovrebbe dunque riuscire a ricostruire rigorosamente i legami fra la logica di fondo del modo di produzione capitalistico e le dinamiche delle tre crisi sopra delineate. Si tratta di un impegno teorico fondamentale, che ovviamente è al di là degli scopi di un breve scritto come questo [18].
Per tornare al tema della crisi di civiltà, il punto fondamentale, come si diceva sopra, è che la fine dell’attuale organizzazione sociale non deriverà da uno particolare dei fattori di crisi che ho fin qui elencato, ma dalla loro interazione. È probabile che i prossimi decenni siano dominati, dal punto di vista geopolitico, dalla contrapposizione fra USA e Cina, ciascuna delle due potenze, presumibilmente, al centro di un sistema di alleanze. È chiaro che uno scenario simile è il peggiore possibile, dal punto di vista di una politica efficace di contrasto al cambiamento climatico, perché una tale politica richiederebbe collaborazione, e non contrapposizione, fra le grandi potenze. Pensiamo, per fare un esempio, alla collaborazione internazionale che si è creata attorno al problema del “buco dell’ozono”, con la messa al bando delle produzioni industriali responsabili di tale fenomeno. È chiaro che per rispondere alla massa di problemi che si stanno addensando sul nostro futuro occorrerebbe un grado analogo di collaborazione. Ma il problema del cambiamento climatico non riguarda un settore limitato della vita economica, come nel caso del “buco dell’ozono”, ma riguarda l’intero complesso dell’economia e in generale della società. I cambiamenti necessari implicano ovviamente un prezzo da pagare. E in una realtà di scontro fra potenze, ovviamente ciascuno cercherà di far pagare il prezzo maggiore all’altro, e in generale di indirizzare il necessario cambiamento nella direzione di un accrescimento della propria potenza. In sostanza, come ha fatto notare A.Ghosh [19], la discussione sui modi per mitigare il cambiamento climatico e passare ad una economia “post-carbon” è anche una discussione sulla distribuzione del potere globale. A maggior ragione se al tema del cambiamento climatico aggiungiamo tutti gli altri che potranno arrivare al pettine nei prossimi decenni (esaurimento di una o più risorse fondamentali, grandi migrazioni). Uno scenario futuro che possiamo immaginare è allora quello in cui blocchi di paesi contrapposti, sotto la guida di un paese egemone, sono in lotta per l’egemonia mondiale (magari con episodi bellici localizzati), in un contesto generale di stagnazione economica, mentre il cambiamento climatico causa emigrazioni di decine o centinaia di milioni di persone, e l’esaurimento delle risorse rende estremamente difficoltoso sostenere l’attuale sistema di produzione e consumo, d’altra parte necessario per non far crollare l’economia. E si potrebbero aggiungere altri elementi che ho trascurato per brevità (crisi idriche, diffusione di malattie). Probabilmente nessuno di questi problemi, singolarmente preso, sarebbe tale da causare il crollo della nostra attuale civiltà. Mi sembra però ragionevole ritenere che il loro accumularsi possa alla fine provocare una decisiva rottura.


VII. Una proposta di spiegazione complessiva
Cerchiamo adesso di sintetizzare quanto fin qui detto in un discorso unitario. Le attuali società occidentali sono organizzate, da circa tre o quattro decenni, sulla base di una forma di capitalismo globalizzato e iperliberista, che provoca la perdita delle conquiste ottenute dai ceti subalterni nel periodo del capitalismo “socialdemocratico-keynesiano”. Questo significa impoverimento e marginalizzazione dei ceti inferiori, scomparsa del ceto medio (una parte minoritaria del quale riesce però a salire ai piani superiori della gerarchia sociale), distruzione del legame sociale [20]. I ceti dominanti hanno provato a far accettare questa situazione con l’illusione che dopo i necessari sacrifici, il futuro sarebbe stato migliore per tutti, grazie alla dinamica progressiva dell’economia. Ma questo futuro migliore per tutti non è mai arrivato, e anzi oggi siamo posti di fronte alla cupa prospettiva di un crollo drammatico dell’attuale civiltà. In questa situazione, il disagio sociale comincia a tradursi in proteste crescenti da parte dei ceti inferiori, che per il momento vengono convogliate nel voto a varie formazioni che appartengono alla destra politica. I ceti medi, o quel che ne rimane, appaiono invece divisi. In particolare, quella frazione di ceti medi che abbiamo chiamato “ceto intellettuale subalterno”, invece di combattere la degenerazione attuale delle società capitalistiche, cerca una compensazione illusoria alle difficoltà della vita nel capitalismo morente elaborando l’immagine della propria superiorità intellettuale e morale rispetto ai ceti inferiori, disprezzati in quanto “fascisti”. I ceti dominanti condividono con tali ceti intellettuali subalterni alcuni aspetti fondamentali della visione del mondo: progressismo, individualismo assoluto, fede nella tecnologia, assolutizzazione del mercato, politicamente corretto, il tutto con una verniciatura di tipo “umanistico” che ammette la presenza di difficoltà e problemi ma senza porre in questione i fondamenti del sistema. La situazione dunque è la seguente: i ceti dominanti devono gestire una ribellione strisciante da parte dei ceti inferiori, e possono farlo essenzialmente con le categorie elaborate dal ceto intellettuale subalterno di sinistra, dal quale essi in larga parte provengono e col quale in ogni caso condividono la visione del mondo. Queste categorie individuano negli strati inferiori in rivolta contro la globalizzazione e il politicamente corretto una manifestazione di inferiorità morale e intellettuale. Questi esseri inferiori vengono caratterizzati come pericolosi e esterni al cerchio della civiltà contemporanea. In quanto tali, non possono avere gli stessi diritti riconosciuti a chi è interno a tale civiltà. Appare quindi lecita l’operazione di progressiva riduzione della libertà di parola, che colpisce appunto l’espressione di pensieri esterni alla sfera di ciò che può essere ammesso (cioè, il politicamente corretto). Anche la diminuzione di diritti nella sfera processuale, implicita come s’è detto nelle attuali rivendicazioni femministe, appare funzionale al controllo sociale, non tanto nella forma attuale (ancora limitata), ma per le sue prospettive future. Come si vede, si tratta qui di meccanismi che rimettono in auge quel nesso di razzismo e dominio che è tipico dei rapporti dell’Occidente con il mondo colonizzato: il nativo non viene riconosciuto come essere umano allo stesso livello del colonizzatore, e questo permette di non applicare al nativo stesso i diritti umani che pure sono una delle fondamentali conquiste della civiltà occidentale. Lo stesso schema sta cominciando ad essere applicato ai “nativi dell’Occidente”, ai ceti popolari dei paesi occidentali. Questa è la spiegazione che mi sembra possibile proporre per la tendenze di cui ho parlato nella prima parte di questo scritto. Si tratta in sostanza della reazione di uomini e donne di potere di fronte alle difficoltà che incontra la gestione e la riproduzione degli attuali rapporti sociali, difficoltà che diventeranno sempre maggiori, sempre più ingestibili, e che prefigurano il declino della nostra civiltà.
Mi sembra che questa spiegazione abbia anche il pregio di rendere comprensibile il fatto, notato all’inizio, che queste tendenze sembrano non trovare opposizione. Abbiamo fatto notare il contrasto con la lotta contro le dittature nazifasciste, che ha mobilitato enormi energie nella prima metà del secolo scorso. Proprio questo contrasto può aiutarci a capire. Infatti, il processo storico culminato nel secondo conflitto mondiale nasce da una crisi generale del capitalismo (è solo per via di tale crisi, ricordiamolo, che il nazismo arriva al potere), e rappresenta uno scontro fra due modi contrastanti e alternativi di rispondere a tale crisi: da una parte il capitalismo a dominanza USA che si stava organizzando in quella che verrà chiamata la “regolazione fordista” [21] e che porterà ai “trent’anni dorati” del secondo dopoguerra; dall’altra il capitalismo tedesco che col nazismo aveva scelto uno schema di dominazione imperialista, colonialista e razzista applicata all’Europa e al mondo slavo. È evidente la differenza con la situazione attuale: siamo di fronte ad una crisi del capitalismo probabilmente, in prospettiva, più grave di allora, ma non abbiamo due progetti contrastanti di risposta a tale crisi, il cui conflitto porti ad uno scontro. La situazione è che non abbiamo neppure un solo progetto di uscita dalla crisi. I ceti dirigenti a livello globale si stanno dimostrando del tutto incapaci di agire per contrastare le drammatiche linee di tendenza che abbiamo sopra messo in luce. Il lento tramonto della democrazia, da molti denunciato in questi anni, e l’erosione dei diritti che abbiamo cercato di mettere in luce, sono le uniche risposte che i ceti dirigenti sembrano capaci di dare. Non ci sono contrasti su questo perché destra e sinistra condividono la stessa incapacità ad affrontare le crisi che ci sovrastano, ed entrambe tentano di ricorrere alla delegittimazione del dissenso per mettere a tacere le voci critiche. È vero, come ho detto, che il politicamente corretto è una creazione culturale che parte dalla sinistra, ed è vero che la destra tenta di contrastarne, sul piano del dibattito pubblico, alcuni degli esiti più inquietanti. Ma anche la destra, quando è il caso, cede volentieri alla tentazione della repressione del dissenso, per esempio chiedendo di rendere illegale l’antisionismo equiparandolo all’antisemitismo. Destra e sinistra non presentano quindi differenze significative rispetto a tali problemi, perché entrambe sono accomunate dalla mancanza di una prospettiva realistica di fuoriuscita dalle crisi di cui abbiamo parlato.


VIII. Conclusioni
Le dinamiche sociali, culturali e politiche che abbiamo fin qui descritte ci sembrano molto preoccupanti. Esse infatti prefigurano un futuro di gravi conflitti fra una maggioranza della popolazione che subirà in maniera sempre più pesante la disgregazione e l’insostenibilità dell’attuale organizzazione economica e sociale, e i ceti di élite che, incapaci di prefigurare un’alternativa, appaiono disposti a ricorrere alla sospensione dei diritti fondamentali nei confronti dei ceti subalterni, quando questi manifestano la loro insofferenza verso le attuali dinamiche. Uno degli sbocchi possibili di tali dinamiche potrebbe essere una “dittatura politicamente corretta”, a livello probabilmente continentale, che mantenga per quanto possibile le caratteristiche del capitalismo attuale operando una intrusione via via crescente nelle vite private, resa necessaria dall’emergere di problemi sempre più ingestibili a livello ecologico ed economico. Potrebbe essere, una simile “dittatura politicamente corretta”, qualcosa di simile al “Leviatano climatico” di cui si discute in un testo recente [22]. Per esprimerci in una formula, gli attuali ceti dominanti sono disposti a privarci della libertà pur di conservare l’attuale capitalismo. Ma non ci riusciranno: questo “Leviatano politicamente corretto” sarà comunque una realtà instabile, perché l’acuirsi della crisi renderà impossibile mantenere un’organizzazione sociale ed economica di tipo capitalistico. Nel corso della crisi generale del nostro mondo l’umanità, o quel che ne resterà, si inventerà qualche nuova forma di organizzazione sociale ed economica. Non possiamo saperne nulla, ovviamente. Si tratterà sicuramente di un mondo in cui gli esseri umani dovranno accettare serie restrizioni sul piano dei beni materiali, e vivranno quindi una vita molto più frugale di quella cui ci siamo abituati. Non possiamo escludere però che questo mondo sappia conservare alcune delle grandi conquiste dell’attuale civiltà, e riteniamo nostro dovere tentare di trasmetterle al futuro. Fra queste, la libertà di pensiero e di parola, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la presunzione di innocenza, ci sembrano fondamentali. Occorre quindi lottare con fermezza contro le tendenze alla negazione di tali principi che abbiamo individuato in questo scritto. Tutte le leggi che prefigurano reati di opinione, tutte le “Commissioni dell’Amore”, tutte le pretese femministe di colpevolezza automatica di un uomo accusato da una donna, devono essere combattute come gravi violazioni dei principi fondamentali della nostra civiltà, quei principi che oggi vengono lentamente erosi e che dobbiamo invece preservare integri per consegnarli al futuro.




Note
[1] Istituzione approvata dal Senato il 30 ottobre 2019:

[3] Riprendo l’espressione da A.Jappe, La société autophage, Éditions La Découverte, 2017.






Fra le altre tesi dell’autrice, segnalo in particolare quella secondo la quale lo stupro non è necessariamente violenza ma “sex where there is no communication, no tenderness, no mention of love”, e la proposta di imprimere una lettera “r” sulle mani, sulle braccia o sulla guancia dell’accusato (automaticamente colpevole, nella sua impostazione). Non viene specificato il colore della lettera in questione, ma ovviamente ci sentiamo di suggerire lo scarlatto.
Discussioni sulle tesi di Greer si possono trovare al seguente URL:


[11] Con le considerazioni che seguono non intendo entrare nella questione dell’innocenza o colpevolezza di Pietro Costa. Mi limito a commentare alcuni passi dell’intervista all’avvocato Gasperini.

[12] M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari 2007.

[13] Qualche interessante intuizione in questo senso in G.Fofi, L’oppio del popolo, Elèuthera 2019.

[14] Tesi di questo tipo sono argomentate in diversi testi, fra i quali: P.Servigne, R.Stevens, Comment tout peut s’effronder (Seuil 2015); P.Servigne, R.Stevens, G.Chapelle, Une autre fin du monde est possible (Seuil 2018); J.M.Gancille, Ne plus se mentir (Rue de l’échiquier 2019); Y.Cochet, Devant l’effondrement (Les liens qui libèrent 2019); J.M.Greer, La lunga discesa, (LU::CE edizioni 2019).
[15] S.Das, The Age of Stagnation (Prometheus Books 2016); F.Menghini (cura di), La stagnazione secolare. Ipotesi a confronto (goWare 2018).
[16] G.Arrighi, Il lungo XX secolo (Il Saggiatore 2014).
[17] Su questi temi la letteratura è ovviamente vastissima, mi limito qui a citare un testo divulgativo: J.Simonetta, L.Pardi, Picco per capre (LU::CE Edizioni 2018).
[18] Vi sono per fortuna studiosi di grande valore che si occupano di questi temi, uno di essi è J.Bellamy Foster. Si vedano per esempio F.Magdoff, J. Bellamy Foster, What every environmentalist needs to know about capitalism (Monthly Review Press 2011); J.Bellamy Foster, B.Clark, R.York, The ecological rift (Monthly Review Press 2010).
[19] A.Ghosh, La grande cecità (Neri Pozza 2017).
[20] Su questi temi ho trovato recentemente molto efficaci i testi di C.Guilluy: La France périférique (Flammarion 2014); No society (Flammarion 2018) [traduzione italiana: La società non esiste, LUISS University Press, 2019]. La letteratura sul neoliberismo è ovviamente sterminata.
[21] L’espressione indica il capitalismo “socialdemocratico” del primi trent’anni del dopoguerra, e risale alla “scuola della regolazione” francese, per la quale si possono vedere R.Boyer, Fordismo e postfordismo (Università Bocconi Editore 2007); M.Aglietta, G.Lunghini Sul capitalismo contemporaneo (Bollati Boringhieri 2001).
[22] G.Mann, J.Wainwright, Il nuovo Leviatano (Treccani 2019). “Leviatano climatico” traduce il titolo originale del libro: “Climate Leviathan”. Gli autori pensano ad una sorta di governo mondiale creato dalla necessità di gestire l’emergenza climatica. L’eventualità mi sembra lontana, mentre un Leviatano di dimensioni continentali ha qualche chance maggiore, a mio avviso. l’Unione Europea, che fa del politicamente corretto la propria ideologia ufficiale, è un buon candidato al ruolo.

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