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giovedì 5 marzo 2020

Il disastro della nuova scuola (P.Di Remigio, F.Di Biase)


(Riceviamo e volentieri pubblichiamo, M.B.)





Il disastro della nuova scuola e il compito di restaurare l’istruzione pubblica


Paolo Di Remigio, Fausto Di Biase




Le riforme attuate nella scuola italiana ed europea negli ultimi trent’anni contrastano in modo così risoluto con la natura della didattica da poter essere comprese soltanto come effetti del contemporaneo rivolgimento politico. Sconfitto l’«impero del male», l’oligarchia economica occidentale, quella che ispira i documenti degli organismi internazionali e parla attraverso i giornali, ha potuto finalmente rompere l’alleanza più onerosa, quella con le masse; ha dunque indebolito gli Stati e sottratto loro il controllo delle banche centrali per indebitarli e abbattere la spesa sociale, e ha introdotto la mobilità dei capitali, delle merci e delle persone per colpire il lavoro. Il diffondersi della disoccupazione ha falcidiato i salari, precarizzato i contratti dei lavoratori e annientato le loro organizzazioni. Sindacalisti e politici di sinistra hanno però conservato la loro professione – cambiando schieramento: li ha captati l’oligarchia perché la loro influenza sui lavoratori li rendeva utili a sopire le resistenze. Da allora progressisti e rivoluzionari dissimulano con la lotta contro l’eterno fascismo e per i diritti umani la loro complicità in un attacco al lavoro pari soltanto a quello avvenuto durante il vero fascismo[1].


La sicurezza economica dei lavoratori per un lato dipende dall’azione dello Stato per realizzare la piena occupazione, per l’altro è condizione della famiglia. Le oligarchie non potevano realizzare il loro piano generale di precarizzazione[2] senza inserirvi la scuola, che si colloca tra famiglia e Stato. Così l’hanno separata da quest’ultimo per assoggettarla agli organismi internazionali, l’hanno denigrata con la propaganda e demoralizzata con lo stillicidio delle riforme perché gli abbienti si rivolgessero all’istruzione privata; inoltre le è stato prescritto di invadere le competenze della famiglia occidentale votata all’estinzione[3] e di educare ai valori della nuova società multietnica; infine è stata costretta a organizzare il tirocinio per il lavoro precario. Qui come altrove l’esecuzione del piano è stata affidata soprattutto a progressisti e rivoluzionari affinché la loro sempre viva ossessione totalitaria di costruire l’uomo nuovo desse un aroma di sinistra alla svolta verso il severo mondo senza famiglia e senza Stato[4]. È quindi attraverso la sinistra che l’oligarchia ha imposto un’immagine dell’infanzia e della gioventù come se fossero già adulte, separate quindi dal legame essenziale con i genitori: è così che la riproduzione e l’educazione dei bambini diventano un settore di investimento profittevole, si allentano inoltre le esigenze familiari che ostacolano l’impiegabilità incondizionata dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici, infine si costruisce l’ambiente adatto a indottrinare sin dalla culla la nuova generazione ai nuovi valori.
Pensato senza legame familiare il bambino cessa di essere figlio e diventa individuo titolare di diritti personali, cioè un adulto con bisogni specifici ai quali è bene provvedano, più che il dilettantismo di mamma e papà (sospetti di povertà educativa), le ben più scientifiche comunità educanti. La nuova scuola è concepita come una di esse. Per questo motivo una nuova pedagogia sensibile alle esigenze delle élite ha privato i bambini dell’infanzia e i giovani della giovinezza; la credulità, la sventatezza, la pigrizia, la presunzione che accompagnano l’età verde e le rendono indispensabili i genitori (i soli a sentire i loro figli come parte del proprio corpo) sono state rimosse dalla coscienza e all’improvviso si è sostenuto che il fanciullo è non meno ricco di conoscenza e saggezza dell’adulto (Il bambino della ragione si intitolava un testo di pedagogia in giro negli anni ’80, agli inizi della campagna di colonizzazione[5]), che, anzi, nel campo strategico dell’informatica, dalla diffusione dei video-giochi in poi, i figli vivono in un futuro avanzato per sempre precluso ai genitori. Sensibili alle nuove impostazioni pedagogiche, i riformatori della pubblica istruzione hanno rinominato esame di Stato l’esame di maturità e dopo aver trasformato lo studio delle discipline in un’elucubrazione sulla loro epistemologia, le hanno di fatto abolite: se le discipline letterarie, storiche e scientifiche male si adattano alla nuova concezione, conviene eliminarle, così cessano di ferire l’autostima dei frequentatori della nuova scuola. Congedatasi dalla cultura e dalle scienze, la scuola aspirerà a dare i natali a una nuova umanità in continua formazione[6]. In questa aspirazione c’è qualcosa di più dell’ideologia del precariato universale: la promozione del bambino ad adulto è anche la retrocessione dell’adulto in bambino; si vuole cioè rendere l’uomo plasmabile dalla culla alla tomba. Tramite le audaci innovazioni della loro pedagogia le oligarchie occidentali cercano di ricreare l’ancien régime dell’eterna minorità dell’uomo.
La prerogativa dell’adulto è prevedere. Si può prevedere solo dopo che l’esperienza e la scienza hanno scoperto le leggi (aristotelicamente: le forme) entro cui si muove la casualità del mondo. Mentre liquida il soggetto rendendo il bambino adulto e l’adulto bambino, la nuova pedagogia completa il lavoro dalla parte dell’oggetto, ricalcando sul suo il profilo della scienza: anziché conoscenza universale e necessaria della natura, una congerie di saperi in un flusso così rapido come le verità della certezza sensibile hegeliana; se è così (e come dubitarne se i documenti degli organismi internazionali lo ribadiscono senza tentennamenti?), non ha senso impararla, ma semmai tuffarsi in un punto a caso della sua piena confidando nell’inconsistenza di ogni verità. La stessa sinistra, mentre professa l’adorazione della scienza e disprezza il popolo ignorante se le nega il voto, premuta dal desiderio di servire puntualmente i suoi padroni, si inebria della continua innovazione dei saperi e si pone così al di fuori della cultura, che ha sempre spessore storico, e delle scienze autentiche, che si ampliano consolidando criticamente i propri principi; iniziare sempre da capo è invece il difetto per cui Kant negò alla metafisica la dignità di scienza.
Poiché non ci sono né bambino né adulto, né esperienza né scienza, la scuola non ha più il compito di far crescere istruendo, ma è un servizio sociale per indottrinare l’individuo destinato all’eterna minorità, una palestra per renderlo estraneo al suo ambiente e abituarlo alla flessibilità. Che la nuova scuola non insegni nulla non è dunque una conseguenza imprevista o sgradevole, è anzi la pars destruens dello sforzo di plasmare l’individuo senza la conoscenza delle leggi naturali e umane, alienato, incapace di prevedere, dunque limitato a un repertorio di riflessi condizionati. Non è soltanto un effetto dell’interesse commerciale dei produttori di software se nella nuova scuola l’informatica di consumo è diventata un ingrediente obbligato a dispetto dei danni che provoca: premere pulsanti per evadere su percorsi preordinati è tutta l’istruzione concessa all’uomo nuovo. Il mondo classico vi avrebbe riconosciuto il servo; i portavoce delle oligarchie occidentali[7] vi colgono l’allusione alla figura definitiva che la soggettività deve assumere nel mondo della libera circolazione di capitali, merci e lavoro – quella del migrante economico. Al servizio di questo nuovo mondo senza essenze, la nuova scuola lascia cadere ogni cultura, ogni competenza scientifica, e si attiene alla formula delle tre ‘i’: l’impresa, ossia l’interesse degli azionisti come imperativo categorico dell’umanità, l’informatica come complesso di riflessi controllati e condizionati dai gestori delle reti, l’inglese come lingua del nomade.
Congedatasi dal trivio e dal quadrivio la nuova scuola, per quanto alcuni testardi cerchino di insegnare in clandestinità, si occupa di altro. La concezione della scienza come esplosione di saperi superfluidi vi si traduce in un incentivato proliferare di progetti atomistici la cui casualità non è casuale, ma suscitatrice di capacità di improvvisazione. In quanto servizio sociale, la nuova scuola sostituisce poi la famiglia, dunque educa il suo frequentatore con progetti su affettività, sessualità, odio dell’odio, comportamento stradale e finanziario, sicurezza sul luogo di lavoro, ecologia, insomma sui singoli articoli della propaganda oligarchica secondo le diverse urgenze scandite dalle giornate mondiali. I nuovi insegnanti operano come assistenti sociali, impegnati ad assicurare che il ristagno culturale e umano degli alunni si verifichi in una cornice di ovattata indulgenza. L’attività programmata è didattica soltanto per accidens; non è dunque un caso che le scuole elementari trascurino di insegnare come si tenga in mano la penna, la scrittura in corsivo, a fortiori gli elementi delle scienze; e che quelle successive neanche prendano atto della vertiginosa mancanza di basi, e se mai fosse loro consentito di costruire edificherebbero sulla sabbia.
Questi elementi confluiscono nella nozione di inclusività che trasforma ufficialmente la scuola in un centro di accoglienza in cui le conseguenze della mancata istruzione sono trattate come casi clinici. La scuola inclusiva non si limita a tenere segregati l’insegnamento e l’apprendimento, si adopera con energia per sabotarli. Nelle parole di un’esperta dirigente scolastica: «Trent’anni fa il Preside si occupava principalmente di didattica. Oggi il lavoro abbraccia ambiti diversi con conseguente aumento delle responsabilità e degli obblighi amministrativi e burocratici»[8]. Poiché da una parte tratta l’alunno come se fosse già maturo e sapesse quello che gli occorre, dall’altra considera inutili o dannose le conoscenze, la scuola inclusiva bandisce la severità dell’ascolto, dell’esercitazione, della verifica e della valutazione; rigetta i programmi di studio (troppo rigidi: potrebbero ricordare il posto fisso), maledice la lezione frontale e si avventura tra i metodi in uso nella ricerca scientifica o negli staff dirigenziali, cioè quelli utilizzabili soltanto da adulti già istruiti. La legge scritta le impedisce di non promuovere alla classe successiva nelle sue prime fasi, una legge non scritta, ma conosciuta dai dirigenti scolastici, lo impedisce nelle fasi successive. Poiché non si è avuto ancora l’ardire di proibire ufficialmente le insufficienze, per non correre il rischio di non promuovere, la scuola inclusiva cessa di valutare: il mero essere degli alunni, il loro accrescimento fisico e il contesto sociale, il disagio esistenziale e i problemi familiari, i sentimenti umanitari e le donazioni di sangue – tutto, meno l’essenziale, concorre a determinare un quadro soddisfacente. Così negli attuali esami di Stato le commissioni si limitano ad ascoltare i candidati senza correggere gli errori nelle loro libere improvvisazioni. Dovendo limitarsi a promuovere, la scuola inclusiva evita di imporre doveri; da una parte i compiti a casa sono ormai considerati una violenza e se ne auspica la proibizione, dall’altra si introduce il trimestre per abbattere il numero delle verifiche in classe. Se non deve assegnare compiti, l’insegnante non deve neanche spiegare; quelli servono infatti a interiorizzare contenuti e procedimenti estranei; poiché però l’alunno è già saggio e sapiente di suo per quanto è possibile all’essere umano, non c’è bisogno di contenuti e procedimenti ulteriori, non c’è bisogno di spiegarli, ma solo di attuare le potenzialità in un contesto sereno.
Forse non è superfluo osservare che da una parte l’inclusione è già contenuta nel concetto stesso di scuola pubblica, perciò è inutile rilevarla, che dall’altra non può essere il principio incondizionato della didattica, e non perché essa possa discriminare, ma perché deve sviluppare e valorizzare le attitudini, deve quindi orientare; infatti la scuola guida il mondo infantile dall’omogeneità iniziale, attraverso le competenze necessarie a tutti, alla specializzazione in una delle diverse tecniche e discipline; deve quindi indirizzare gli alunni ai percorsi congeniali a ciascuno, il che implica l’esclusione degli altri. Che l’inclusività abbia acquisito un ruolo così centrale indica soprattutto che la macchina delle riforme è in una nuova fase: attuate suscitando l’aspettativa del miglioramento della scuola, prima che diventi impossibile glissare sulla loro responsabilità del disastro attuale, le riforme vengono associate al sentimento universalistico perché criticarle diventi un delitto d’odio.
La distruzione della scuola è stata promossa dalle oligarchie occidentali. Restaurarla è un’operazione in cui possono impegnarsi solo parti politiche che prendono sul serio il principio democratico, responsabili verso il popolo. La restaurazione consiste nel restituire agli insegnanti la dignità della mediazione scientifica, sollevandoli dall’attuale abiezione per cui devono dimenticare la conoscenza disciplinare e porsi come assistenti sociali; consiste nell’eliminare gli innumerevoli ostacoli che impediscono di insegnare, così che tornino a fare come dovere professionale ciò che ora fanno di nascosto: lezione, assegnare i compiti, correggerli, valutarli; consiste nel riconoscere che, a differenza dell’educazione che avviene per lo più per imitazione inconsapevole, l’istruzione implica uno sforzo personale di apprendimento e che all’insegnante, non meno dell’amore per la sua disciplina con cui appassiona gli alunni, sono indispensabili il rigore con cui assegna i compiti e la precisione con cui li corregge e li valuta. Nessuno può apprendere al posto di un altro, ognuno apprende nella misura in cui si impegna e solo ad un elevato livello di istruzione è possibile determinarsi da soli gli esercizi necessari a conseguire la conoscenza.
Il superamento della proibizione di insegnare e imparare non solo farebbe rinascere l’istruzione, ma arricchirebbe la stessa educazione. La scuola deve rispettare la sovranità della famiglia e delle leggi dello Stato, dunque non deve mirare all’educazione – non deve arrogarsi la competenza in valori che non siano quelli propri della teoresi; ma è innegabile che mirando all’istruzione essa completa l’educazione. Saper leggere significa aver imparato l’attenzione silenziosa; sapere scrivere significa aver interiorizzato le regole; saper dimostrare un teorema matematico significa essersi innalzati alla sublimità del ragionamento senza interesse. Sostituire l’istruzione con l’educazione non soltanto è cedere alla barbarie del disprezzo della conoscenza, non soltanto è usurpare le prerogative della famiglia e dello Stato, è anche negare ai giovani le forme superiori di educazione.


[1] «Deficit reduction was achieved primarily through a sharp retrenchment in government expenditure. Social programs were eliminated, and wages were cut with the help of Fascist unions—real wages fell by about 20 percent between 1921 and 1929». Cfr. https://threader.app/thread/1228258313227395072
[2] Cfr. di Padoa Schioppa l’indimenticabile articolo sulla «durezza del vivere» disponibile al seguente indirizzo: http://www.tommasopadoaschioppa.eu/europa/berlino-e-parigi-ritorno-alla-realta.html
[3] Cfr. le prospettive di Attali nell’intervista al seguente indirizzo: https://www.repubblica.it/cultura/2014/08/19/news/attali_e_la_coppia_ai_tempi_del_consumismo_addio_monogamia_benvenuto_poliamore_-94065343/
[4] Si consideri la carriera di Valeria Fedeli che dalla militanza nella CGIL, attraverso il MIUR, è ascesa al CdA della Fondazione Agnelli, protagonista delle riforme della scuola. Cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Valeria_Fedeli
[5] Edito nel 1986 dalla Nuova Italia. Sull’ultima pagina della sua copertina si può leggere: «Ma a queste due condizioni del cambiamento (cioè adeguare i contenuti ai nuovi programmi e costruire una capacità professionale nei docenti) … si affianca la necessità di sostituire un’immagine del bambino radicata nel senso comune… con una interpretazione più impegnativa, perché collegata ad una analisi attenta delle condizioni sociali e culturali che caratterizzano lo sviluppo delle nuove generazioni nel mondo contemporaneo.» Al di là dei contenuti concreti che qui non possono essere discussi, si osservino l’ansia acritica di cambiamento e il piglio intimidatorio nei confronti del senso comune, cioè dei genitori, e dei docenti, la cui esperienza e conoscenza sono ridotte a una vana immagine rispetto all’«interpretazione più impegnativa» – un sintagma alquanto indeterminato, con cui però si insinua che i bambini non siano più gli stessi, cioè bambini, o che se anche lo fossero non dovrebbero essere più considerati tali.
[6] Si tratta della società dell’apprendimento permanente a cui alludono le tre elle di una nota associazione promotrice delle riforme della scuola. Cfr. http://www.treellle.org/associazione-treellle
[7] Cfr. le nitide dichiarazioni di Laura Boldrini al seguente indirizzo: https://www.ilgiornale.it/video/politica/boldrini-stile-vita-dei-migranti-sia-nostro-1164805.html
[8] Il caffè del Delfico, anno 4 – numero 1 – dicembre 2019, p. 5.








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