Pagine

giovedì 17 ottobre 2019

Educazione e istruzione (P.Di Remigio)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo (M.B.)




Educazione e istruzione

Paolo Di Remigio

Educazione e istruzione, da sempre necessarie per lo sviluppo della libera personalità, sembrano essere diventate opposte e incompatibili da quando i pedagogisti pretendono che l’insegnante non debba istruire gli allievi tenendo lezioni e verificandone lo studio, ma debba educarli senza nulla aggiungere a quanto già sanno, limitandosi a stimolarne gli interessi e la creatività, così che la scuola, finora un carcere per la ‘trasmissione’ di inutili e comunque evanescenti conoscenze teoriche, si trasfiguri in un giardino gioioso in cui fioriscono flessibilità mentale e competenze pratiche. Non è la prima volta che la pedagogia polemizza con l’istruzione; già Rousseau, che nel suo «Emilio» proclamò di odiare i libri, progettava un’educazione che eludesse le astrattezze della teoria e condizionasse il fanciullo con la segreta manipolazione del suo ambiente; già in lui il rigetto della civiltà diventò divieto di istruire e l’educazione assunse accenti totalitari[1]. In ogni caso è un segno di estrema decadenza che, entro la civiltà ai cui inizi è sbocciata la libera filosofia, si diffami la conoscenza teorica come fonte di corruzione dei giovani. Un simile rovesciamento di valori suggerisce l’opportunità di qualche considerazione altrimenti scontata sul senso dei due concetti.


Educazione si riferisce in genere all’ambito morale, all’acquisire le abitudini che consentono alle persone una convivenza senza troppi attriti. La prima convivenza degli individui è la famiglia. Diretta ai bambini dalla loro nascita, l’educazione familiare procede per lo più muta, per lo più grazie all’imitazione; e quando prende la parola è per lo più proibitiva. Poiché il suo lato positivo consiste nell’imitazione e il suo lato negativo nella proibizione, essa non è più spontanea e creativa dell’istruzione; al contrario, essa limita in silenzio l’ambito dell’esperienza possibile e la spontaneità per proteggerle dalle conseguenze lesive. Essendo inoltre dirette a prevenire i pericoli, le proibizioni educative valgono prima di essere motivate: esplicitare i motivi di una proibizione ne rafforza l’efficacia, rispetta la dignità e suscita l’autonomia del bambino; ma non è saggio aspettare che questi sia in grado di capire e abbia sufficiente autocontrollo da comportarsi secondo ciò che ha capito, per impedirgli comportamenti sconvenienti o pericolosi. In una parola, l’educazione è un rapporto essenzialmente familiare e, pur non essendo incompatibile con la spiegazione, dapprima è dogmatica: i principi dei comportamenti trasmessi silenziosamente e delle proibizioni pronunciate, per quanto siano corretti ed efficaci, valgono già prima di essere espliciti, già prima di essere dimostrati, sulla base naturale della fiducia dei figli e dell’autorità dei genitori.

Fiducia e autorità non si interrompono con l’uscita dalla famiglia, anzi entrano in ogni tipo di comunità umana. E come la precedente obbedienza ai genitori non esclude nel figlio la successiva acquisizione della libertà personale, così la fiducia dell’adulto nell’autorità è suscettibile di essere confermata dalla conoscenza razionale. Il dogma oggetto di fede ha una forma e un contenuto; soltanto la forma, per la sua immediatezza, non il contenuto, è in sé incompatibile con la ragione filosofica. Con la conoscenza critica del contenuto del dogma l’immediatezza della sua forma è dissolta e la ragione non si percepisce più come assoggettata a una necessità a lei estranea perché in ciò che le era estraneo ora riconosce sé stessa. Conoscere non è dunque collezionare curiosità, ma ha il significato profondo della liberazione; e poiché non si può conoscere senza istruzione, il passaggio dall’educazione all’istruzione è per ciascuno l’inizio della libertà.

È tuttavia possibile che il dogma sia fissato nella sua forma opaca e affermato come un aldilà della ragione – proprio come si può fare dell’educazione la forma ultima del rapporto tra le generazioni. Il dogma posto come insondabile dalla ragione, come pure l’educazione senza istruzione e il paternalismo come principio politico, definiscono la religione teocratica. Benché la teologia rifletta sulla rivelazione che la fonda per esplicitarne i principi, i principi esplicitati, utili a spiegare ciò che ne segue, sono concepiti come misteri rispetto ai quali il bisogno di spiegazione razionale deve restare insoddisfatto e cedere il posto alla fede.

La polemica contro il potere religioso, l’illuminismo, ha colto nel suo massimo esponente, Immanuel Kant, il nesso tra illibertà, religione ed educazione familiare: «L’illuminismo – dice Kant – è l’uscita dell’uomo dalla minorità di cui ha colpa lui stesso»[2]. L’illuminismo è l’uomo che si libera convocando davanti al tribunale della critica i dogmi che esigono da lui obbedienza, per vagliarne la razionalità; solo riconoscendo sé stessa nelle leggi la ragione è infatti adulta e veramente libera.

Attaccata dall’illuminismo e dalla sua esigenza di sostituire la fede con la conoscenza, la religione si è difesa sostenendo che la ragione umana è finita e la libertà della ragione finita, anziché esserne la perfezione, è appunto il male; chi poi voglia giustificati davanti alla ragione i principi del dovere sta solo camuffando l’intima sua ribellione; dunque l’indagine razionale sui principi, lungi dal confermarli, ne dissolve la sublimità e ha il suo esito necessario non in una società libera e armonica in quanto fondata su principi condivisi e trasparenti a ciascuno, ma nel terrore rivoluzionario scatenato dal settarismo della ragione finita o nell’inferno libertario del marchese De Sade.

La difesa dell’insondabilità del dogma sulla base della finità della ragione, alleatasi all’accidia filosofica, ha avuto una così grande efficacia storica da favorire il degradarsi dell’illuminismo nel positivismo e da garantire la sopravvivenza della religione teocratica. Come la religione, il positivismo concepisce la ragione come constatazione di meri fatti, dunque finita, l’uomo e la società come basati su leggi subite e la politica come ingegneria sociale per indurre l’obbedienza. La scienza può anche respingere la religione; ma se sotto la spinta del positivismo essa considera la conoscenza razionale dei suoi principi impossibile o superflua, se si considera cioè indifferente alla filosofia, al suo rifiuto della religione resta aderente un carattere religioso: come i monoteisti esaltavano il loro Dio denunciando l’impotenza degli dei pagani, gli scienziati positivisti esaltano la loro scienza denunciando l’impotenza della religione. – La rinuncia alla conoscenza filosofica dei principi riduce i principi a dogmi, che si impongono per l’evidenza procurata loro dall’abitudine, ma trascendono la ragione di cui si dà per scontata la finità: sono questi i tratti condivisi da religione e positivismo.

Si potrebbe credere che i principi della scienza, a differenza di quelli teologici, siano semplici, evidenti, che dunque non abbiano nulla di misterioso, di infido. Una conseguenza di questa fiducia sarebbe fondare la scienza sul dogmatismo dell’evidenza, con grave danno per la sua natura critica. Ma è una fiducia mal riposta: l’evidenza non è mai abbastanza tale da non essere travagliata da un’intima oscurità. Hegel, che ha iniziato la sua «Scienza della logica» dalla categoria più evidente, quella dell’essere puro, ha mostrato come perfino nella sua estrema semplicità ci sia più della semplicità. Nel concepire i principi come misteriosi, la teologia si mostra quindi più saggia di quella fiducia. Di fatto, una scienza senza indagine critica dei principi, una scienza senza filosofia, rischia di essere indistinguibile dalla religione.

Un tentativo di eludere questa conseguenza è la sopravvalutazione positivista del procedimento induttivo: la scienza differirebbe dalla religione o dalla metafisica in quanto, anziché perdersi tra le entità trascendenti, conosce i fatti positivi, dipende dai dati sensibili. La cosiddetta epistemologia ha mostrato come questo tentativo fosse fragile; la verità della scienza, la sua corrispondenza ai fatti, non si dà infatti nell’osservazione dei singoli dati sensibili, ma nella previsione, dunque nella visione dei nessi da cui essi dipendono, nella scoperta delle leggi universali a cui sono sottomessi; dunque non le leggi universali dipendono dai singoli dati sensibili, ma i singoli dati sono determinati dalle leggi e dalla visione generale implicita in queste. Nel criticare la fiducia dell’induttivismo nell’osservazione, l’epistemologia non ha però recuperato l’esigenza illuminista della critica dei principi, ha anzi lasciato campo libero all’accidia filosofica.

Se non si indagano i principi della scienza, se li si accetta come la teologia accetta i suoi dogmi, c’è ancora un mezzo per tenerle distinte: rovesciare le identità tradizionali tra scienza e definitività e tra opinione e precarietà, così da poter respingere nel non scientifico ogni discorso che si pretende definitivo e fare della precarietà l’essenza della scienza. Ne segue che, a dispetto di ogni progresso delle conoscenze, la ragione è identificata con lo scetticismo. Certo, che la scienza rinunci a ogni verità definitiva può apparire un virtuoso atto di umiltà e il trionfo dello spirito critico. Da una parte, però, la rinuncia alla verità non è mai umile; nella verità infatti non solo il soggetto si esalta rivelando la legge delle cose, ma anche si umilia inchinandovisi; d’altra parte lo spirito critico non trionfa affatto nel rifiuto sprezzante dell’oggetto criticato, ma nel pervenire a un risultato positivo in cui l’oggetto criticato non sia solo perduto, ma anche conservato. Solo così la scienza forma un’unica tradizione progressiva.

Il disfattismo che affida allo scetticismo la demarcazione tra fede e scienza ha poi una grave conseguenza pratica: come negazione prima del dogmatismo, lo scetticismo lo conserva attenuato, così da restare sottomesso alle leggi nel momento stesso in cui le rifiuta; perciò lo scettico si regola secondo leggi naturali di cui dubita e obbedisce a norme in cui non crede. La scienza scettica è anche dogmatica: da una parte, a causa del suo scetticismo, rinuncia a considerare definitiva ogni differenza rilevata; d’altra parte, nonostante il suo scetticismo, tiene ferma la sua superiorità sulla non scienza, dunque taccia di oscurantismo le eventuali differenze che questa pone, e nel qui e ora fa valere come decisiva la propria valutazione, così da risultare dogmatica. In particolare, mentre la religione fissava un ordine complessivo di differenze nella realtà, per cui lo spirituale domina sul vitale e il vitale sul meccanico, le scienze, che il compito di dominare tecnicamente la natura inclina verso il riduzionismo materialista, sulla base del loro scetticismo non riconoscono alcun ordine definitivo, sulla base del loro dogmatismo assolutizzano di volta in volta il precario. Le scienze reclamano allora sull’uomo la stessa onnipotenza propria della religione, non in nome dello spirito ma della materia; e può accadere che l’ecologo, il medico e lo psicologo svolgano oggi per la dinamica borghesia capitalista lo stesso ruolo che il teologo, il confessore e l’inquisitore svolgevano ieri per la statica aristocrazia feudale.

Cancellato ogni limite assoluto dalle scienze in preda allo scetticismo, le categorie applicate con successo alla natura così da renderne possibile il dominio sono applicate all’uomo stesso così da farne una natura da dominare. L’indagine riduzionista sull’uomo delle scienze umane ne opprime l’essenza, che consiste nella libertà; al pari della scienza della natura, esse vorrebbero considerarla un fastidioso residuo di casualità che riduce le leggi determinanti a leggi soltanto probabili. Per quanto la casualità, cioè l’arbitrio del preferire questo o quello, abbia la sua importanza nella vita di ognuno e alimenti un fenomeno imponente come la moda, la libertà umana è però un oggetto ben più consistente e ha generato una precisa scienza, ben profonda delle scienze umane, cioè il diritto, che nasce con l’uomo stesso. Nel diritto l’uomo non è solo arbitrio casuale e assoggettato a leggi rivelate o naturali, ma è soggetto a leggi di cui lui stesso è legislatore, e conoscersi come legislatore è la determinazione superiore, giuridica, della libertà.

Con l’imporsi delle scienze umane, trascurata l’esigenza illuminista di raggiungere la libertà tramite la conoscenza, diventano forma esclusiva del rapporto tra le generazioni il condizionamento educativo, anziché l’istruzione, e il paternalismo, anziché la critica. La scuola ridotta a comunità educante da una parte invade il campo della famiglia, dall’altra ne estende il modello all’intera esistenza dell’individuo, lo assoggetta cioè a un potere che non conosce limiti nell’imporre il suo dogma. È la pedagogia a rendersi responsabile di questo degrado da quando si è riconosciuta come scienza umana e ne ha condiviso il progetto. Il disprezzo pedagogico della conoscenza non solo alimenta la barbarie culturale, ma suscita una minaccia per la libertà in senso politico. Le leggi non possono essere concepite come derivanti dal potere legislativo della ragione se non sono conosciute criticamente: una delle prime rivendicazioni della libertà fu che le leggi fossero scritte, leggibili da tutti; inconoscibili, esse regrediscono nella cieca necessità. Poiché la libertà non è sottrarsi al dovere, ma conoscere il diritto nel dovere, la sovranità nella sudditanza, la conoscenza non è un vezzo d’altri tempi, ma il dono più grande che una generazione possa fare all’altra. Educazione e istruzione non sono dunque opposte; meno che mai è pensabile che l’istruzione possa essere sostituita con l’educazione senza che vada perduta la libertà politica; esse differiscono come religione e filosofia, non nel contenuto ma nella forma: come la filosofia mostra ciò che c’è di razionale nel sacro, l’istruzione non solo , ma spiega la regola, e il docente, a differenza dei genitori, è tale se ne conosce il perché, se spiega i procedimenti e se li pretende solo in quanto li ha spiegati. Nello spiegare egli istruisce e indirettamente educa alla libertà dando soddisfazione all’esigenza critica dei discenti.

Non occorre temere, infine, che i principi dell’argomentare siano insondabili, che la fede sia l’ultima parola rispetto alla scienza e che questa debba ridursi allo scetticismo per demarcare la sua natura: la filosofia è da sempre liberazione della conoscenza attraverso l’indagine dei principi e la stessa esigenza illuminista ha trovato soddisfazione nel metodo hegeliano, che non si arrende al dogmatismo, ma ne conosce la dialettica e in questa dialettica trova il principio superiore, così che la ragione può appagarsi nel libero movimento del cerchio dei principi.

Se il sapere argomentato, la conoscenza della cosa nella sua ragione è l’essenza dell’istruzione e ha il significato etico di rendere l’uomo libero, la fine dell’istruzione rivela che non solo la scuola, ma la stessa società ha cessato di essere libera. Un ceto politico che ha consegnato a forze estranee il suo Paese non può tollerare la conoscenza e la libertà e così bandisce l’istruzione dalla scuola. Forse non occorre ricorrere ai mutamenti tecnologici per capire l’attuale degrado della scuola pubblica in Italia e nel mondo occidentale[3]: la scomparsa del senso della politica per il prevalere delle oligarchie del denaro sul finire degli anni Settanta spiega a sufficienza la degenerazione dell’intero ambito pubblico e della scuola che ne è un elemento vitale, e spiega perché suo primo responsabile non poteva che essere la sinistra, indotta dal suo antico disprezzo per lo Stato a passare dal rivoluzionario Marx al neoliberale von Hayek. La scuola cessa di istruire e come ‘comunità educante’ si riduce a condizionare le menti perché è assoggettata, come la società di cui è parte, allo spirito del mercato: gli istituti, prostituiti al marketing per attrarre ingenui clienti ed essi stessi trasformati in ingenui clienti di paccottiglia didattica, devono diventare infine così disfunzionali da indurre i genitori a pagare ai loro figli la scuola privata, perché vi acquistino non più conoscenza, ma competenze vendibili sul mercato del lavoro. E come il degrado della scuola non è un fenomeno legato allo sviluppo dei mezzi di produzione, così la sua rinascita presuppone, più che una nuova epoca tecnologica, la rinascita della politica dalla nausea per la servitù.


[1] «Prendete una via opposta con il vostro allievo; che creda sempre di essere il padrone, e invece siatelo sempre voi. Non vi è assoggettamento più perfetto di quello che conserva l’apparenza della libertà; si rende così prigioniera la volontà stessa. Il povero bambino che non sa niente, non può niente, non conosce niente, non è forse alla vostra mercé? Non disponete forse, in rapporto a lui, di tutto ciò che lo circonda? Non siete forse padrone di influenzarlo come vi piace? I suoi lavori, i suoi giochi, i suoi piaceri, le sue pene, tutto, non è forse nelle vostre mani senza che egli lo sappia? Senza dubbio egli non deve fare se non ciò che vuole, ma non deve volere altro all’infuori di ciò che voi volete che faccia; egli non deve fare un passo che voi non abbiate previsto; non deve aprir bocca senza che voi sappiate ciò che sta per dire.» J. J. Rousseau Natura educazione società. Un’antologia di scritti a cura di Pietro Rossi, Loescher, Torino 1971, pp. 101-102.
[3] Come sembra fare Lucio Russo recensendo il notevole libro di Galli della Loggia. La recensione è disponibile al seguente indirizzo: https://anticitera.org/2019/09/01/recensione-a-laula-vuota-di-ernesto-galli-della-loggia/.

Nessun commento:

Posta un commento