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lunedì 19 agosto 2019

Per una storia filosofica dell'impunità (Di Biase, Di Remigio)

(Riceviamo e volentieri pubblichiamo. M.B.)




Per una storia filosofica dell'impunità
(Fausto Di Biase, Paolo Di Remigio)


Prima ancora che entrasse in vigore la Costituzione nel 1948, l’indipendenza della Repubblica italiana era stata compromessa dal traumatico trattato di pace dell’anno precedente, con il quale le potenze occidentali vincitrici avevano stabilito un protettorato sull’Italia impedendovi l’avvicendamento dei partiti di sinistra al governo, controllandone gli apparati di sicurezza interni, la politica estera e la politica economica[1]. La politica italiana del dopoguerra è così determinata dall’intersecarsi di due scissioni: quella visibile tra destra e sinistra carica di contenuto classista, quella invisibile tra chi ha accettato la riduzione a provincia dell’Italia e chi non vi si è rassegnato.

Benché distinte, le due scissioni si sono rafforzate a vicenda. Che la NATO non sia stata sciolta dopo la fine dell’Unione Sovietica, ma abbia anzi esteso il suo campo di intervento, dimostra che la guerra fredda tra USA e URSS è nata dall’aspirazione geopolitica statunitense a rimuovere l’ostacolo dell’URSS e a stabilire un impero mondiale, e ha assunto l’aspetto della lotta di classe tra borghesia e proletariato per il solo fatto che l’URSS affermava di seguire un modello economico socialista. Per questo motivo l’anticomunismo non è stato soltanto una scelta di classe, è stato anche un atto di subalternità all’impero statunitense; viceversa, il comunismo è stato non solo una difesa degli interessi dei lavoratori, ma anche un’alleanza con l’Unione Sovietica. Quanto più esasperati i sentimenti della lotta di classe, tanto più condannati a essere semplici coperture del conflitto geopolitico e dunque della dipendenza dello Stato dall’uno o dall’altro impero. Viceversa, il settore del mondo politico italiano meno sensibile all’isteria anticomunista o alle velleità insurrezionali è stato il più leale alla Costituzione democratica e ha tentato sin da principio il recupero di spazi di indipendenza nazionale.


Se gli estremisti dell’uno e dell’altro campo hanno solitamente tacciato i moderati di debolezza o di connivenza con il nemico, oggi il moderatismo interclassista appare non solo la scelta più nobile in quanto era la sola via per emancipare lo Stato italiano dalla condizione di paese sconfitto, ma anche la scelta più eroica, l’unica che sia stata pagata con l’assassinio politico. In questo senso vanno lette la capacità di De Gasperi e di Togliatti di evitare la guerra civile in Italia e l’impresa di Mattei di garantire con un’audace politica energetica le basi dello sviluppo industriale e l’attenuazione del conflitto di classe; anche il tentativo di costruire l’alleanza con i socialisti prima e con i comunisti poi, di cui Moro, Nenni e Berlinguer sono stati protagonisti, ha un significato che sfugge a chi legga la storia del dopoguerra secondo la sola dimensione della lotta di classe e trascuri il compito di pagare il debito storico che la guerra fascista aveva caricato sugli italiani. Che lo sviluppo industriale sia stato caotico, che il centro-sinistra sia stato deludente sotto il profilo delle riforme sociali ed economiche e si sia risolto in un logoramento dei partiti di sinistra, nulla toglie al loro significato più profondo: De Gasperi, Togliatti, Mattei, Nenni, Berlinguer, Moro hanno cercato la pacificazione dell’Italia così da attenuarne la scissione di classe e da riguadagnarle spazi di sovranità nazionale.
Dalla metà degli anni Sessanta la reazione delle potenze occidentali all’emancipazione dell’Italia si è servita però non solo dei conflitti di classe, ma anche di quelli generazionali. Se il Sessantotto fosse stato un semplice conflitto generazionale quale si verifica dalla notte dei tempi, la maschera classista e il velleitarismo politico sarebbero caduti subito ed esso si sarebbe ridotto a una fiammata come il maggio francese. Non è stato così perché la sua spontaneità è stata soltanto un’apparenza, perché è stato uno strumento dello scontro profondo tra Europa e Stati Uniti, e in particolare tra Italia e paesi europei, per mutare le posizioni di forza che tenevano quella assoggettata alla potenza imperiale, questa assoggettata a tutti. Così il movimento studentesco e la nascita del partito armato hanno reso superflua la cosiddetta violenza neofascista per realizzare la strategia della tensione e riportare l’Italia al 1947: subito infiltrato, in seguito protetto e aiutato dai servizi occidentali e dalle loro propaggini italiane, fu il partito armato con l’ampio sostegno del movimento studentesco lo stupido carnefice che alimentò per conto dell’impero la tensione sociale ed eliminò Moro e il suo progetto. La mancata coscienza della natura dello scontro tra estremismo e moderatismo ha effetti ancora devastanti in Italia: gli eredi dell’estremismo non hanno ancora capito la funzione storica dell’estremismo né quale progetto sia stato interrotto con l’uccisione di Aldo Moro; perciò il rifiuto della colpa si accompagna a una pratica di irresponsabile sacrificio degli interessi nazionali e a un’ideologia universalistica di inaudita ipocrisia.

Ha notato Giorgio Bocca: “L’aspetto più misterioso delle vicende dei circoli giovanili che daranno vita a Prima Linea è la loro lunga impunità o comunque la tolleranza che li circonda. A Torino già nel ’75 la polizia conosce benissimo chi sono i giovani che frequentano il Centro Lafargue in via della Consolata dove c’è la redazione di Senza Tregua. Sa che una delle più assidue frequentatrici ha partecipato ad un assalto al Centro Studi Donati perché ci ha trovato un suo paio di guanti, sa che circa ottanta giovani frequentatori del circolo provengono dai servizi d’ordine di Lotta Continua e di Potere Operaio, eppure non fa arresti anche se gli attentati proseguono. Ma anche quando la polizia e i carabinieri li colgono in flagrante e devono ammanettarli, si trova sempre il modo di scarcerarli nel giro di pochi mesi… Baglioni… arrestato nel ’77 perché sorpreso mentre si esercita con le armi sulle Prealpi lombarde, rientra in fabbrica portato in trionfo. Marco Donat Cattin continua indisturbato a fare il bibliotecario all’Istituto Galileo Ferraris, chiedendo ed ottenendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate. Roberto Sandalo, notissimo alla polizia, può frequentare la scuola allievi ufficiali alpini, diventare ufficiale e come tale impadronirsi di armi e trasportarle per l’organizzazione clandestina. Rosso e Libardi, due altri esponenti, saranno liberati addirittura durante il sequestro Moro. Perché…?”[2]
Alla domanda di Bocca si risponde non solo osservando che le file dei contestatori e dei rivoluzionari erano frequentate dai figli degli ottimati; c’è anche una ragione più sgradevole, evidente nelle parole di Giannettini al convegno dell’Istituto Alberto Pollio di una decina d’anni prima: “E... se gli anticomunisti avessero maggiore sensibilità politica, approfitterebbero della situazione per sfruttare in senso anticomunista la naturale tendenza alla ribellione delle nuove generazioni culturali contro il conformismo delle dottrine ufficiali.”[3] La contestazione giovanile e gli anni di piombo sono stati prima provocati e poi tollerati dai poteri contro cui lottavano; per tutti gli anni ’70 al movimento studentesco è stato consentito fare cortei, scontrarsi con la polizia, assaltare i supermercati, spadroneggiare nelle scuole e nelle università, darsi alla tossicodipendenza, assumere come valore la negazione dei valori, perché l’esasperazione della tensione sociale favoriva il consolidamento del regime utile alle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale.
Infine sulle responsabilità nella strategia della tensione, su quelle del movimento studentesco come su tutte le altre, è passato il silenzio che ha coperto l’impunità e agli alimentatori delle velleità rivoluzionarie, come premio per avere svolto un lavoro utile contro il loro popolo, sono state consentite brillanti carriere nel mondo della cultura e nell’amministrazione pubblica. È così entrato in crisi lo stesso senso di giustizia: il disprezzo della legge positiva e l’esaltazione del perdono sono diventati a tal punto costume delle élite, che mentre si ingigantiscono i reati di opinione per limitare la libertà di espressione, mentre diventa imputabile non tanto l’atto quanto l’inconscio, nelle scuole si concepisce la valutazione negativa come un abuso dei docenti e l’atto di indisciplina del discente come sempre tollerabile; l’umanitarismo dei giornali sorvola sul contesto illegale del fenomeno dell’immigrazione; la stessa repressione del crimine appare così illegittima che i rappresentanti del popolo si precipitano a visitare in carcere i rei confessi. Ma l’effetto più ampio della crisi del senso di giustizia è stato la nascita di un intero movimento politico che si esaurisce nell’invocare la punizione dei corrotti e resta senza fiato davanti al compito di emarginare il ceto dirigente che lavora per gli interessi stranieri.
v

Il castigo appare ormai come un prodotto dell’odio, come una seconda violenza della società contro quelli che la prima violenza della sua ingiustizia ha costretto a sbagliare. Viceversa, il perdono da sentimento privato diventa un termine giuridico, addirittura politico. Con la vittoria del sentimentalismo del perdono si perde la capacità di pensare la realtà sociale secondo il concetto di giustizia per diluire ogni cosa nell’atmosfera commossa dell’amore. C’è però differenza tra amore, che è il legame positivo verso qualunque essere, perfino inanimato, e giustizia, che è il legame positivo tra liberi. Il sentimentalismo fa della libertà un caso particolare dei legami positivi; ma la libertà è il concetto supremo; la sua particolarizzazione è anche la sua fine. Di qui la necessità di studiare il concetto di pena nella sua peculiare relazione al concetto della libertà, quale lo fissano i ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ di Hegel[4].
La libertà non è soltanto l’astrazione del potersi distaccare da ogni esistente, è anche capacità di collocarsi nell’esistenza, innanzitutto nel corpo vivente (il mio corpo), poi nelle cose; questo collocarsi nell’esistente è la proprietà. È nota l’avversione che da Rousseau in poi la proprietà provoca, ma è altrettanto nota la deriva totalitaria del suo rifiuto; questa si genera perché il rifiuto della libertà esistente comporta la regressione alla libertà astratta, che sente sé stessa soltanto nella distruzione dell’esistente. In ogni caso, quanto più si colloca nell’esistente, nella proprietà, tanto più la libertà può essere violata. Essendo l’espressione di una volontà che annulla l’espressione di una volontà, la violenza è però il proprio distruggersi; la sua intima nullità si manifesta nel fatto che la violenza è annullata dalla violenza, che la violenza prima è violata da una violenza seconda.
Dal punto di vista sentimentale alla colpa si lega il rimorso, il bisogno di dolore, perché solo il dolore sofferto può cancellare il dolore inflitto e consentire il perdono. Il perdono non può dunque essere affatto inteso come un atto gratuito di amore verso chi ha violato la persona o la sua proprietà; esso è piuttosto l’attesa di serenità perché il dolore dell’offensore ha cancellato il dolore dell’offeso. Viceversa, il perdono a chi non prova rimorso è indifferenza alla giustizia analoga all’indifferenza alla giustizia del criminale.
Che provi o meno rimorso, chi viola la libertà esistente 1. ha negato il diritto universale, quindi anche il proprio diritto; 2. essendo inoltre un essere razionale, con la sua violazione egli ha affermato per sé stesso il suo diritto, alternativo al diritto universale. La violazione della sua violazione, cioè il castigo, avendo come doppia negazione un risultato positivo, da un lato ristabilisce il diritto universale, diritto che è proprio anche di chi lo ha violato; dall’altro, come violenza seconda, applica al delinquente il diritto che lui stesso ha stabilito con la sua violenza. – Chi, per esempio, ruba, rende valida la legge che la proprietà privata non è un diritto, una legge alternativa alla legge universale: la proprietà privata è un diritto. Rubare è però rendere mia proprietà una cosa che è proprietà di un altro. Conformemente alla natura contraddittoria del crimine, la legge affermata (la proprietà privata non è un diritto) è anche negata (non è vero che la proprietà privata non sia un diritto): vale per tutti eccetto che per il ladro. Ma una legge che a parità di condizioni è valida per tutti eccetto che per chi la pone è una legge nulla. La nullità di questa legge consiste nel suo rovesciamento, cioè che essa vale per nessuno eccetto che per lui (tutti hanno diritto alla proprietà eccetto il ladro, che quindi non solo restituisce ciò che ha preso, ma perde ciò che ha), e che valga soltanto per il criminale è appunto il castigo. La violazione della violazione, cioè il castigo contro il delitto, la giustizia come contrappasso, non solo ristabilisce il diritto di tutti, ma onora il criminale come liberamente agente secondo una legge, non lo squalifica come irresponsabile.

La forma elementare del contrappasso è la vendetta. Che la vendetta non sia sentita come male è testimoniato dalla letteratura universale che l’ha tra i suoi temi principali. Essendo però l’atto con cui è l’offeso stesso a ristabilire la sua libertà più che la libertà in generale, essa contiene a sua volta l’offesa; l’unità di annullamento della violazione e violazione, questa combinazione di violenza prima e violenza seconda in un unico atto, scatena l’infinità della faida. A differenza della vendetta, finalizzata a ripristinare soltanto l’infinità dell’offeso, la pena ripristina il valore del diritto, dunque la libertà e la dignità di tutti; il giudice, terzo tra offensore e offeso, essendo dalla parte della giustizia, è dalla parte non solo dell’offeso a cui dà la riparazione, ma anche dell’offensore, a cui dà l’espiazione. A dispetto della letteratura anarchica, punire il delitto è dunque in sé giusto: possono esserci pene sbagliate, ripugnanti, abnormi; questi difetti appartengono però alla realizzazione del concetto e non compromettono il concetto stesso. In altri termini, in un mondo più giusto del nostro ci sarebbero giudici e pene, perché anche ogni mondo è composto di individui che devono fronteggiare il loro lato naturale, la cui volontà può dunque diventare schiava del desiderio, violare l’esistenza della libertà altrui e infrangere la giustizia. Viceversa, un mondo senza pene non sarebbe affatto un mondo giusto, perché sarebbe un mondo in cui gli uomini sarebbero irresponsabili dei loro atti, non sarebbero più liberi.
Che la responsabilità delle proprie azioni sia per l’individuo identica alla sua libertà, che non vi si possa rinunciare senza perdere tutto, è già stato un tema della tragedia greca. L’eroe tragico ha voluto qualcosa senza avere previsto le conseguenze di ciò che ha voluto, dunque senza averle volute; di fronte alla realtà delle conseguenze non volute, egli è nel dilemma se disconoscerle affermando la propria irresponsabilità, cioè il proprio abbandono al destino, o se rivendicare la propria responsabilità, quindi la propria libertà, accettando il contrappasso anche di ciò che non ha voluto. Il suo eroismo è, come notò Hegel, il rivendicare ogni responsabilità, di ciò che ha voluto come di ciò che ne è seguito, preferendo la rovina al dominio del destino; accettandola muto, non recriminando contro le conseguenze non volute delle sue scelte, la sua libertà si estende sulla regione che prima ignorava; così il destino è svuotato e solo allora le Erinni possono trasformarsi in Eumenidi.
Lo sforzo di dimenticare e l’impunità comprata con il silenzio hanno ucciso il senso della giustizia e della libertà degli italiani, ne hanno paralizzato per molto tempo ogni reazione a una servitù sempre più soffocante. Dal delitto Moro in poi il loro ceto dirigente è infatti diventato preda della colpa inespiata: è cessata ogni apparenza di dignità del partito armato che non ha voluto accorgersi di essere stato il sicario dell’impero; è cessata anche la dignità della Democrazia Cristiana che ha prestato il definitivo atto di omaggio alle potenze vincitrici; ed è cessata infine la dignità del Partito Comunista che dal vecchio padrone è passato a ‘padron miglior’[5]. A Moro prigioniero non sfuggì il significato politico della fermezza nei confronti del suo caso; egli scrisse nel memoriale che per il PCI “il rigore, il rifiuto della flessibilità ed umanità è un certificato di ineccepibile condotta”; se “si guardano le cose che stanno accadendo e la durezza senza compromessi (come per scansare il sospetto) della posizione di Berlinguer (oltre che di altri) sull’odierna vicenda delle Brigate rosse, è difficile scacciare il sospetto che tanto rigore serva al nuovo inquilino della sede del potere in Italia per dire che esso ha tutte le carte in regola, che non c’è da temere defezioni, che la linea sarà inflessibile e che l’Italia e i paesi europei nel loro complesso hanno più da guadagnare che da perdere da una presenza comunista al potere.”[6] Infine l’orgia del servilismo, che la prima repubblica dissimulava e che solo l’occhio acuto di Moro poteva scorgere anche dove sembrava assente, è diventata manifesta come seconda repubblica.







[1] Cfr. Giovanni Fasanella, Il puzzle Moro, Chiarelettere, Milano 2018, cfr. il capitolo La frontiera e la sconfitta, soprattutto la parte intitolata L’umiliazione dell’Italia.
[2] G. Bocca, Gli anni del terrorismo, Curdo, Milano, 1988-1989, pp. 174-175.
[3] G. Giannettini, La varietà delle tecniche nella condotta della guerra rivoluzionaria, disponibile al seguente indirizzo: http://www.misteriditalia.it/strategiatensione/nascita/interventi/14.pdf.
[4] Nei §§ 90-103. Cfr. anche i §§ 499-500 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche.
[5] Don Giovanni, Atto II, Scena ultima.
[6] Citato in A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato, Editori Riuniti, Roma 1998, pp. 257-258.

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