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domenica 7 luglio 2019

Le scienze umane a Bibbiano (P. Di Remigio)


(Pubblichiamo volentieri questa riflessione dell'amico Paolo Di Remigio, che parte dai fatti di Bibbiano per discutere su ciò che sono oggi le scienze umane. M.B.)



Le scienze umane a Bibbiano

Paolo Di Remigio

1.
A Bibbiano, ma in precedenza al ‘Forteto’ vicino Firenze e poi in provincia di Modena, i bambini sono stati strappati ai loro genitori tramite accuse infamanti in particolare nei confronti dei padri e, dopo un lavaggio del cervello perché si rassegnassero al trauma, ma anche senza che si rassegnassero, affidati a nuovi nuclei familiari o a istituti prezzolati. Psicologi, assistenti sociali, giudici hanno calunniato adulti e rubato bambini, per realizzarne le peggiori angosce, per sacrificare le vite di tutti sull'altare del denaro e degli appetiti perversi. L’ampiezza delle reti di complicità, di reticenza e di disattenzione che permette queste spaventose vicende e vi stende il velo dell’omertà dimostra l’esistenza di potenti forze destabilizzanti, animate da un’ideologia che razionalizza l’odio nei confronti dell’istituzione familiare e il cui terreno di coltura è in certi settori delle ‘scienze umane’ – le scienze delle intenzioni: psicologia, sociologia, antropologia.





Poiché rappresentano un costo sociale, le scienze devono giustificare la loro esistenza. Esse dimostrano di meritare i finanziamenti allargando il campo della conoscenza con scoperte utili. Mentre le scienze della natura fanno scoperte utili e non meno utili si mostrano gli strumenti che le hanno consentite, le scienze dell’uomo sono in una situazione molto più difficile. All'uomo l’uomo è molto più trasparente della natura ed è molto difficile aggiungere qualcosa di nuovo e insieme intelligente dopo l’etica di Platone e Aristotele. La ricerca del nuovo si è diretta innanzitutto verso popoli sconosciuti; ma questo campo è essenzialmente esaurito già nel rinascimento; in seguito saranno disponibili soltanto società sempre più piccole, sempre più semplici, e ormai non ce ne sono più da scoprire[1]. La possibilità di scoperta resta invece intatta nell'ambito dell’eccezione, dell’anormalità, della malattia; qui si apre un campo effettivamente sconfinato per la ricerca, perché nel campo dell’umano si danno infinite eccezioni. Le scienze umane più gravide di conseguenze hanno uno stretto legame con le terapie.

Ne deriva una situazione ambigua. La scienza è conoscenza universale: concerne, secondo la determinazione di Aristotele, ciò che accade sempre o per lo più. L’esigenza di universalità a cui neanche le scienze dell’eccezione possono sfuggire le spinge fatalmente ad accreditarsi come scienze di una realtà più profonda della realtà normale e a screditare la realtà normale come realtà superficiale. Una spinta simile si è impossessata fin dall'antichità del platonismo, deformandolo. Di fatto si finisce nell'abolizione del concetto di normalità; esso è diffamato come stereotipo, come sciocco pregiudizio (mentre è evidente che la normalità è essere in salute e non avere bisogno del medico); il normale sarebbe così un modo tra i tanti e neanche il migliore. Se il normale è una forma di anormalità, svanita la differenza tra legge ed eccezione, l’universo intero diventa il regno delle eccezioni, il caos irrazionale che annulla l’idea stessa di scienza. La tendenza a universalizzare l’eccezione può fare delle scienze umane uno strumento di destabilizzazione a disposizione non solo di chi ha interesse alle novità ma anche di chi è attratto dal caos, a volte senza piena intelligenza che la sua realtà effettiva è la violenza sconfinata e impunita sul più debole.

La versione pedagogica delle scienze umane, la ‘scienza dell’educazione’, mostra una particolare incapacità di sottrarsi al destino che incombe sul genere in cui è sussunta. Essa deve produrre novità in un campo in cui non è possibile nessuna novità – se è vero che la scuola antica ha prodotto le basi culturali della nostra civiltà. La disperazione la induce all'audacia di sostenere l’efficacia didattica delle novità tecnologiche, come la radio, il film, la televisione, il computer. I fatti la smentiscono però ogni volta; lavagna e gesso, libro e matita, quaderno e penna restano gli unici strumenti utili a chi impara; le novità tecnologiche, tutte, proprio perché alleviano la fatica intellettuale, sono rovinose per la didattica[2]. – Può anche rivolgersi all'eccezione. Una delle sue innovazioni più rinomate, il metodo globale per insegnare la scrittura ai bambini, riconosciuto ormai come causa della maggior parte delle dislessie, era stata all'origine applicata con successo a bambini sofferenti di patologie severe, solo in seguito applicata insensatamente ai sani; è ovvio infatti che uno strumento di cura è un ostacolo per chi non ha bisogno di cura. – Può perfino offrirsi come strumento alle forze destabilizzanti. Le cricche globaliste che con il consenso del capitalismo avido di lavoro a basso costo sognano di attrarre in Europa milioni di africani e di crearvi una società multietnica hanno potuto contare anche su una collaborazione volenterosa della scienza dell’educazione, che si è impegnata nell’ideare la scuola veramente inclusiva.

Anziché istituzione che media tra famiglia e società attraverso l’istruzione, la scuola inclusiva è un asilo infantile in cui, svanita l’istruzione, cioè l’acquisizione di conoscenze e abilità intellettuali, si impartisce un’educazione contro gli stereotipi, ossia un indottrinamento nichilista. Vi si è diffuso quindi il costume di affidare una pluralità di educazioni, all'affettività, all'accoglienza, alla legalità, quella stradale, quella sessuale… a esperti diversi dagli insegnanti, come se l’educazione del fanciullo nella sua pregnanza etica non fosse competenza della famiglia, come se nel campo dell’etica fosse decisivo, e nel caso dell’educazione sessuale esistesse, l’esperto. Per meglio adempiere all'imperativo dell'inclusività, con una reminiscenza di origine terapeutica, la scienza dell’educazione trasforma infine in patologia le difficoltà comportamentali o cognitive che proprio la mancata istruzione ha determinato o almeno amplificato, e introduce procedure che, liquefacendo la determinatezza degli obiettivi didattici, cronicizzano le conseguenze del mancato apprendimento di cui è essa stessa responsabile.

Così nella nuova scuola, mentre gli insegnanti devono cedere lo spazio dell’istruzione all'’educazione’ e ridimensionare la loro didattica sulla base dei referti della scienza dell’uomo, ai genitori è sottratta la sovranità sull'educazione dei loro figli. La scuola inclusiva non solo è strumento del progetto destabilizzante di erodere l’autorità dei genitori e degli insegnanti, essa è anche totalitaria. Infatti, mentre i genitori e gli insegnanti sono individui particolari con il loro limitato sapere e la loro limitata esperienza, e sono riconosciuti come tali, così che le loro decisioni sono per principio criticabili, la scienza dell’educazione, quanto più il suo sapere tutt'altro che consolidato è al servizio di poteri forti, tanto più si accredita come dotata di strumenti sperimentati e al di sopra di interessi particolari, in grado quindi di operare infallibilmente; essa diventa così, anziché fornitrice di dati e ipotesi criticabili da chi ha la responsabilità di operare, un’autorità inesorabile e senza precisi limiti di competenza.

2.
A differenza della medicina che, previa autorizzazione del paziente, conosce e cura con mezzi di probabile efficacia il corpo, dunque un dato che, per quanto intimo, è comunque oggettivo, le scienze umane hanno per oggetto non la cosa, ma l’intenzione degli individui: un dato che non soltanto è mediato dall'individuo, ma che è accessibile soltanto all'intenzione di un altro individuo, del quale è dunque per principio indecidibile quanto sia oggettivo e quanto sia costruzione dell’osservato e dell’osservatore. La verità accessibile alle scienze umane è segnata da una debolezza costitutiva del momento oggettivo. Quando acquisiscono poteri decisionali sulla base di un’inesistente infallibilità, invece di limitarsi a fornire consigli a chi deve decidere sulla base di principi etici, le scienze umane superano di un balzo le stesse prerogative della medicina e assumono il carattere di un progetto totalitario. Al Forteto, a Bibbiano, psicologi ed esperti sociali, dimentichi dei limiti della loro disciplina che va dall'inconscio alla coscienza, per la quale, dunque, non esistono ‘dati’, ‘fatti’ indipendenti dalle soggettività particolari, ma soltanto intenzioni non ostensibili nella loro immediatezza e sempre da interpretare da altre soggettività particolari, hanno assunto la funzione paradossale di ‘giudici onorari’; poiché la loro specializzazione consiste nell'essere interpreti di intenzioni, diventati giudici, non potevano che abbandonarsi alla barbarie di processare le intenzioni e i sentimenti. Così la diagnosi si è trasformata in inquisizione e la terapia in supplizio nella cornice di una nuova caccia alle streghe. Così l’abietta fusione di ὕβϱις conoscitiva e potere giudiziario ha consentito che le istituzioni statali, la cui etica esplicita è la protezione dell’indipendenza delle famiglie, anziché consolidare quelle in difficoltà e favorire in tutti i modi la stabilità del rapporto genitori-figli, cercassero pretesti per distruggerle e per trasformare i bambini in prede.

Quanto la verità universale delle ‘scienze umane’, in particolare della psicologia e specificamente del suo settore da cui vengono gli attacchi più duri alla famiglia e allo Stato, cioè della psicoanalisi, sia condizionata dalla particolarità dei soggetti in causa, quanto in ogni sua applicazione il talento particolare e la moralità del singolo terapeuta, più che l’oggettività della sua teoria, abbiano il ruolo decisivo, quanto quindi non esista propriamente una ‘scienza umana’ definitiva, ma un complesso di conoscenze più o meno incisive nell'intuire le intenzioni, più o meno efficaci per affrontare il dolore umano, tutto ciò è perfettamente evidente già in Freud.

In un articolo del dicembre 1937, Costruzioni nell'analisi[3], il fondatore della psicanalisi si impegna a rispondere a un’obiezione ‘oltraggiosa e ingiusta’ che formula in questi termini: ‘Se il paziente è d’accordo con noi, va tutto bene; e se invece ci contraddice, essendo questo solo un segno della sua resistenza, ci dà ragione lo stesso.’ Che Freud reagisca a questa obiezione con veemenza, non depone a favore della incondizionatezza del suo spirito scientifico: non solo è nella natura della scienza, in quanto sapere critico, formulare e rispondere alle obiezioni – lo faceva anche la teologia medievale; ma è Freud stesso a riconoscere la perfetta legittimità dell’obiezione nel seguito dell’articolo: ‘Risulta… che dalle dichiarazioni dirette del paziente, dopo che gli è stata comunicata una costruzione, si ottengono scarse indicazioni circa l’esattezza o l’inesattezza delle nostre deduzioni’ – il che equivale a dire che all'interno della terapia l’accordo e il disaccordo del paziente né verificano né falsificano la teoria del terapeuta. E non è ovvio che sia così nelle altre terapie: il dentista chiede se fa male e la risposta affermativa o negativa ha un effetto sul suo operare.

In realtà Freud sembra irritarsi su un problema secondario dell’obiezione per non prendere per le corna il vero problema che essa agita: l’obiezione è formulata come se il suo problema principale fosse che il sì e il no del paziente non abbiano nessun valore per l’analista; e a questo è fin troppo facile rispondere che accoglienza e rifiuto della teoria da parte del paziente hanno lo stesso valore di ogni sua espressione, quello di sintomo. Freud sembra però non accorgersi che sotto l’osservazione per cui al paziente non è riconosciuta la capacità di discriminare il vero dal falso, ce n’è una essenziale per la scienza in generale: è disponibile in generale un criterio per distinguervi la teoria vera dalla teoria falsa? La questione è essenziale, perché in caso di indisponibilità, in luogo di una linea di demarcazione netta tra essa e le pratiche occulte, subentrerebbero una sfumatura e la necessità di tracciare la linea dall'esterno, per decreto morale.

Poiché l’accordo o il rifiuto della costruzione da parte del paziente è soltanto un sintomo esso stesso da interpretare, ‘tanto più interessante diventa… la constatazione che esistono modalità indirette di conferma che invece sono perfettamente attendibili.’ Da queste modalità indirette dipende la verità non solo della costruzione, ma dello stesso punto di vista psicoanalitico. La ricerca della conferma è però un inizio già debole, non solo per l’esigenza popperiana che la scienza si esponga e risponda a obiezioni, ma soprattutto perché una modalità indiretta di conferma è una modalità mediata dalla teoria stessa che essa deve confermare; si tratta cioè di quello che gli scettici greci hanno chiamato tropo del diallele: fondare il fondamento sul fondato. Le modalità indirette che Freud indica: la locuzione ‘Questo non l’ho mai pensato’, una risposta dell’analizzato che risponde con un’associazione contenente qualcosa di simile o di analogo al contenuto della costruzione, contraddizioni tra il contenuto e la forma degli asserti, il peggioramento delle condizioni del paziente in seguito a comunicazioni giuste o vicine alla verità – queste modalità sono tutt'altro che decisive, perché dipendono tutte dalle trasformazioni indotte dall'analista nel paziente, quando il problema è la verità dei presupposti teorici di quelle trasformazioni.

In definitiva lo stesso Freud riconosce la precarietà del rapporto della teoria psicoanalitica in generale con l’oggettività: “C’è un unico punto che esige di essere indagato e chiarito. La via che parte dalla costruzione dell’analista dovrebbe terminare nel ricordo dell’analizzato; non sempre essa giunge tanto innanzi. Ci capita abbastanza frequentemente (corsivo nostro) di non riuscire a suscitare nel paziente il ricordo del rimosso. In sua vece, se l’analisi è stata svolta correttamente, otteniamo in lui un sicuro convincimento circa l’esattezza della costruzione; ebbene, tale convincimento sotto il profilo terapeutico, svolge la stessa (corsivo nostro) funzione di un ricordo recuperato.” Queste affermazioni sono criticabili sotto due profili: è indecidibile quanto il ricordo dell’analizzato sia indipendente e quanto sia condizionato dalla ‘costruzione’ dell’analista; infatti l’analista non è nella situazione dell’archeologo che ricostruisce la forma dell’antico edificio con frammenti scoperti, come vorrebbe la similitudine freudiana, ma ha a che fare con ricordi suscitati, quindi in qualche modo anche costruiti, da lui stesso: “L’analista porta a termine un brano della costruzione, lo comunica all'analizzato affinché produca su di lui i suoi effetti, indi costruisce un altro brano a partire dal nuovo materiale che affluisce, e procede poi con questo allo stesso modo; così in tale alternanza si va avanti fino alla fine.” Inoltre, ai fini della riuscita della terapia è indifferente che la teoria sia confermata dal ricordo, ma è sufficiente che il paziente sia convinto: ‘abbastanza frequentemente’ la costruzione funziona senza neanche pretendere di agganciarsi alla realtà mediante il ricordo, senza avere aggancio all'oggettività.

Come chiamare una ricostruzione in grado di guarire a prescindere dall'aggancio all'oggettività, se non ‘suggestione’? Ma se ‘abbastanza frequentemente’ questa sostituisce l’oggettività peraltro relativa del ricordo, è poco giustificata l’affermazione di Freud secondo cui “il rischio che il paziente sia portato su una falsa strada mediante la suggestione, giacché gli verrebbero ‘instillate’ le cose che noi reputiamo vere ma che egli non dovrebbe far proprie, è stato senza dubbio enormemente esagerato.” Né la difesa della scientificità della psicoanalisi è consolidata da questa semplice rassicurazione: ‘Posso affermare senza vanagloria che un simile abuso della ‘suggestione’ non si è mai verificato nel corso della mia attività.’

Si potrebbe anzi obiettare che la psicoanalisi deve la forza di diffusione, più che alle sue teorie sempre in divenire, alla forza tanto suggestiva quanto ambigua del suo linguaggio esasperato. Da Freud è iniziata l’abitudine di attribuire ai bambini qualifiche afferenti alle nevrosi e alle perversioni sessuali; Freud non ha remore a definire, per esempio, ‘sadica’ una certa fase dello sviluppo sessuale, oppure ‘incestuoso’ l’amore del bambino per la madre; ma è evidente che è sadico solo l’adulto che, anziché provare piacere nel dare piacere, lo prova nel far soffrire, ed è incestuoso solo chi dall'amore sessuale per la coetanea regredisce all'amore sessuale per la madre. Freud stesso insegna che le nevrosi e le perversioni sessuali sono una regressione ad arresti dell’evoluzione sessuale; qualificare con il loro nome la fase evolutiva a cui si regredisce significa assumersi il rischio di rendere colpevole e patologico ciò che è innocente e sano.

La sessualità infantile in tutte le sue forme è non meno innocente del pianto e del riso infantile, non meno meritevole di protezione; rivendicare l’esistenza della sessualità infantile nel linguaggio di Freud comporta però il pericolo di farne dimenticare l’innocenza, nominarla nei termini delle pratiche perverse significa correre il pericolo di avvicinare la perversione adulta all'infanzia, di offrire quindi alibi a chi viola l’infanzia e il suo diritto a svilupparsi; l’esposizione dello sviluppo sessuale con le immagini truculente del mito greco costruisce una retorica nella quale la famiglia appare il contrario di quello che è, non il nucleo etico elementare fondato sull'affetto e sulla protezione, ma qualcosa a metà strada tra la camera di tortura e il bordello, un mostro che dovrebbe essere abolito e sostituito, o per lo meno integrato da altre forme. L’attacco alla famiglia e all'educazione iniziato negli anni Sessanta può richiamarsi almeno al linguaggio freudiano; quelli che hanno voluto attuarne forme alternative, come al Forteto o a Bibbiano, non hanno trovato un ostacolo nel suo castello di immagini.



[1] L’impulso alla conoscenza di nuovi popoli si conserva in forma di scienza occulta, nell’ufologia.
[2] Cfr. Manfred Spitzer, Demenza digitale, Garzanti, Milano 2013, trad. di A. Petrelli, passim.
[3] Citiamo dall'undicesimo volume delle Opere nell’edizione Bollati Boringhieri, Torino, del 1989, da p. 539 a p. 552; la traduzione è di Renata Colorni.



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