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mercoledì 22 maggio 2019

"E non è davvero la stessa cosa"


Mi hanno colpito molte delle reazioni alla vicenda della giovane che ha ucciso il padre violento e alcolizzato: si va dai commenti, letti in rete, di pura e semplice soddisfazione, all'evidente meccanismo, messo in atto dai media, di creazione di un'eroina nella figura della ragazza parricida. 
Ho pensato allora di riproporre un articolo di Fortini del 1978 (tratto dal libro "Insistenze", Garzanti 1985), che parla di un caso simile. Della vicenda specifica discussa da Fortini so solo quello che si deduce dall'articolo: un ragazzo uccide il padre violento, al processo il p.m. chiede una pena pesante, c'è una raccolta di firme a favore dell'assoluzione. 
Ho riprodotto il testo originale, nonostante alcuni passaggi che oggi certo suonano invecchiati (il rivolgersi ai "compagni", le allusioni alle multinazionali) perché mi pareva che solo nella sua integrità l'articolo rendesse giustizia al pensiero, spesso ellittico, di Fortini.
So benissimo, riproponendo questo testo, che quanto vi è scritto è, nella situazione spirituale contemporanea, più incomprensibile di una tavoletta d'argilla scritta in caratteri cuneiformi. Ma non credo più di poter influire o convincere. Mi limito a ricopiare antichi manoscritti, sperando nei lettori futuri.
M.B.




Franco Fortini

Un parricida



(Novembre 1978)

Non ho firmato il documento che chiedeva l’assoluzione per il ragazzo romano che ha ucciso il padre violento e feroce; perché sono in disaccordo con buona parte delle motivazioni espresse nel documento. Aggiungo subito che la richiesta del p.m. è vergognosa, come quella che implica la inevitabile distruzione di un adolescente, qualunque cosa costui abbia compiuta. Se, come mi dicono gli amici che hanno firmato, già grandissima è stata l’inadempienza della società e dello stato nei confronti di quel ragazzo, ancora più grande e intollerabile è l’oltraggio fatto, da quella richiesta di condanna, al sentimento di giustizia.
E tuttavia non ho dunque firmato perché credo non si debba indulgenza alla facilità con cui assumiamo il punto di vista che Dio, se ci fosse, supponiamo dovrebbe avere. Fra l’altro, nessuno più di chi si dichiara ateo inclina a quella facilità. Tale punto di vista è globale e sublime. Sì, il punto di vista di Dio è sbagliato, dove tutto comprendere è tutto perdonare, e altrettanto è quello dell’avvenire liberato e redento dove non ci saranno colpe né perdono, dove non si sorveglia né si punisce e nella tenerezza del sogno ci si bacia in fronte l’un l’altro, purché giovani, quasi come gli angeli del Beato Angelico.

E invece bisogna distinguere. Bisogna compiere questa penosa operazione.




L’immediatismo, il puntare su di un particolare come fosse il tutto, il fare la tattica eguale alla strategia ed esaltare il movimento, che sarebbe tutto, contro il fine che sarebbe nulla, questo è una politica, lo so bene: ed è un metodo. Ma non l’ho mai condiviso. Anche perché penso che alle multinazionali vada benissimo, proiettando in politica e ideologia il “rapido consumo” necessario al mercato produttivistico.

Il ragazzo è stato indotto all’assassinio del padre da una intollerabile pressione morale. Si applichino allora tutte le attenuanti previste dalla legge, si riducano al minimo le limitazioni della sua libertà, gli sia fornito di che imparare, lavorare, misurarsi. L’infamia di una società che non si è presa cura di lui, di una cerchia umana che avrebbe potuto evitare la tragedia e non l’ha fatto, tutto questo va combattuto alla radice. Ma non a parole né in occasione di questi episodi; e in forme, quali le dichiarazioni firmate, che servono piuttosto da malta politica fra gli iniziatori e i firmatari che da reale strumento di pressione sul potere avverso e ingiusto. La lotta va condotta nelle sedi, nelle connessioni e nella costanza che la rendono efficace. Vecchia musica, sgradevole a molte orecchie. Ma non ne conosco di migliori. Non serve correre da una ad altra emozione, gratificante e veloce operazione di pronto intervento e pronto soccorso.
Il padre di quel ragazzo era un mostro di malvagità, probabilmente alcolizzato o mentalmente tarato. Picchiava la moglie come era consuetudine facessero, e forse fanno tutt’oggi, i contadini russi: come, con analoghe motivazioni, fanno innumerevoli coppie di genitori in Francia (e in Italia?), torturando e uccidendo i propri bambini nel silenzio del vicinato. Ma per questi delitti non credo sia stata ancora accettata da noi la pena di morte per iniziativa privata, come si fa con i cani idrofobi. La morte di quell’uomo ucciso dal figlio non è né pianta né considerata da nessuno; ma che la sua vita e la sua morte non siano state considerate altrettanto importanti di quella del figlio suo o della nostra, questo è il vero scandalo, terribile e intollerabile. Da vivo e da morto quell’uomo, invece di essere soltanto esecrato, ha avuto e ha diritto ad una parte almeno di quell’aiuto e di quella pietà che oggi rivolgiamo a suo figlio, anche perché è suo figlio.
E ancora (sebbene, cari compagni, quanto sto per dirvi sia per essere anche più aspro alle vostre orecchie) c’è un punto sul quale la penso come Simone Weil: quello di essere puniti è un diritto e non deve essere sottratto a nessuno. Diritto e necessità; non, come si crede, per la società; ma per colui che viene punito. È questo uno dei nessi nei quali si incontrano il sapere dei tragici greci, quello cristiano di Dostoevskij e quello di Freud. Noi dobbiamo volere che i giudici non condannino all’imbestiamento del carcere il ragazzo parricida perché non dobbiamo volere che quel suo atto gli sparisca dalla memoria sopraffatto dal rancore per una condanna iniqua. Ma non dobbiamo nemmeno dargli la buona coscienza dell’esecutore di alte opere, ossia del carnefice. Dobbiamo volere che egli non rimuova da sé quella scena sotto i fiori del nostro “progressismo”. Con quel suo atto, cioè anche con le condizioni che lo hanno reso inevitabile, egli deve costruire se stesso. Non dobbiamo volere mai dei giustizieri, né adolescenti né adulti. Ma la giustizia. E non è davvero la stessa cosa.

Alcuni compagni affermano che i più non amano queste considerazioni, non le capiscono, anzi le considerano concessioni al nemico. Fosse vero, me ne dispiacerebbe. Scrivo, da sempre, per chi crede che vi sia un rapporto irrespingibile non solo morale ma politico, non solo intellettuale ma pratico (e volto a salvare dall’assassinio e dalla galera i futuri adolescenti) fra una più vera idea del delitti e delle pene (dunque delle responsabilità personali e di quelle collettive) e il bene concreto degli oppressi.

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