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sabato 10 marzo 2018

La guerra di Corea (P.Di Remigio)


(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione di Paolo DI Remigio sulle radici storiche dell'attuale situazione coreana M.B.) 






LA GUERRA DI COREA
Paolo Di Remigio

I contorni che la stampa delinea della Corea del Nord compongono un’immagine univoca: uno ‘Stato canaglia’, cioè uno Stato di troppo, con una popolazione affamata e disumanizzata da un regime terroristico, che riconosce come guida suprema la versione orientale dello stereotipo hollywoodiano dell’imperatore Nerone. Che sia vero, esagerato o falso, questo quadro non dispensa dalla spiegazione storica; tanto più che i recenti avvenimenti testimoniano con chiarezza una sorprendente volontà di pacificazione tra le due Coree e atteggiamenti di inesorabile intransigenza negli esponenti dell’amministrazione statunitense. La spiegazione di questi fenomeni è ciò che i libri di storia, con un termine che in realtà ne pregiudica la comprensione, chiamano ‘guerra di Corea’.
La democratizzazione verificatasi dagli anni ‘90 in Corea del Sud, tra gli altri risultati, ha consentito di istituire una Commissione coreana per la verità e per la riconciliazione[1], i cui lavori, insieme a quelli di una nuova leva di storici sudcoreani, hanno ricostruito un’immagine della guerra di Corea del tutto differente rispetto al racconto e alle spiegazioni che gli americani avevano finora proposto. Nel 1950 questi avevano parlato di un’azione di polizia internazionale; poi, negli anni ‘60, di guerra limitata; negli anni ‘70-80, di guerra sconosciuta o dimenticata; negli anni ‘90, con l’accesso ai documenti dell’ex Unione Sovietica, hanno riproposto la versione dell’espansionismo del comunismo internazionale. Secondo la ricostruzione storica recente, la guerra di Corea nasce invece nel contesto dell’imperialismo giapponese in Estremo Oriente.
Nel 1910 i giapponesi trasformano in colonialismo il loro protettorato sulla Corea acquisito nel 1905 e con il motto Nae-son-il-chae (letteralmente: Giappone Corea un corpo) impongono il genocidio culturale dei coreani. Non tarda a manifestarsi una resistenza coreana al colonialismo giapponese; duramente repressa dai giapponesi, è costretta a sconfinare in Manciuria; così, quando nel 1931 i giapponesi la strappano alla Cina creandovi lo Stato fantoccio del Manciukuò, dell’estesa guerriglia contro l’occupazione giapponese sono protagonisti non soltanto i cinesi ma anche i coreani guidati da Kim Il-sung.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale i giapponesi esasperano il genocidio culturale e inaugurano uno schiavismo senza ipocrisie: più di due milioni di coreani sono deportati in Giappone per essere sostituiti ai lavoratori giapponesi arruolati (è tale la presenza coatta coreana in Giappone che 40.000 delle 140.000 vittime di Hiroshima e Nagasaki sono coreane), da 50000 a 300000 ragazze (l’imprecisione del numero è una responsabilità dei governi giapponesi che rifiutano di aprire gli archivi), per lo più coreane, sono reclutate come ‘donne di conforto’ da stuprare nei bordelli militari al fronte.


Nel ‘45, mentre i giapponesi si avviano alla sconfitta finale, un esercito sovietico sconfigge le loro poderose armate in Manciuria, ma si ferma sul confine coreano perché Stalin accontenta la richiesta giunta dagli Stati Uniti di occupare con le loro truppe il territorio sotto il 38º parallelo. Prima di allora il 38° parallelo non è mai stato una frontiera; si tratta dunque di una linea convenzionale che taglia in due un popolo singolarmente omogeneo per lingua, costumi e vicende storiche. Gli americani vogliono la divisione perché pensano di fare del Giappone sconfitto il loro avamposto in Asia e una Corea sotto il loro controllo è una condizione per la sua sicurezza e il suo sviluppo economico.
Dopo la prima forzatura di imporre un confine dove non c’era mai stato, gli americani ne commettono una seconda: mentre i sovietici permettono al popolare Kim Il-sung, eroe della resistenza anti-giapponese in Manciuria, di arrivare al governo della Corea del Nord, in quella che è diventata la Corea del Sud gli americani impongono come capo il feroce anti-comunista Syngman Rhee[2] e lo circondano di un ceto dirigente formato da coreani ex collaborazionisti del passato regime giapponese. A questo regime imposto dall’esterno e che perpetua il colonialismo giapponese, si oppongono nel Sud centri spontanei di autogoverno: sono le commissioni del popolo, la cui esistenza, a lungo dimenticata, è riemersa a partire dagli anni ‘90. Non sono composte solo di comunisti; ci sono però anche comunisti e questo è sufficiente agli americani per aizzare il governo di Syngman Rhee a una repressione selvaggia che dal ‘45 al ‘50 provoca almeno 100mila morti[3].
Queste pratiche che gli americani non solo permettono ma anche praticano, e certo non soltanto in Corea[4], sono una conseguenza del profondo razzismo di cui gli Stati Uniti sono imbevuti; non è superfluo ricordare che il loro mito costitutivo, il mito della frontiera, è un sinonimo di ‘sterminio dei popoli indiani’, che la discriminazione razziale è sancita dalle legislazioni e completata dalla legge di Linch fino agli anni ‘60, che in molti loro stati sono proibiti i matrimoni misti, i non bianchi sono privi del diritto alla proprietà privata e così via. Per l’esercito americano i coreani, non meno di come lo erano stati i filippini a inizio secolo, non meno di come lo saranno i vietnamiti nel decennio successivo, sono gook, “musi gialli”, nemici per natura e a un livello inferiore di umanità, come i pellerossa, come i neri; non a caso i prigionieri coreani sono fatti sfilare nudi con le mani sopra la testa; non a caso l’operazione che dal ‘48 al ‘55 reprime ogni ribellione nel Sud con altre 100000 vittime porta il nome di Rat-Killer, “Ammazza-ratti”. Peraltro in Corea il razzismo statunitense riceve quella patina tecnologica che ha ispirato a qualcuno il termine di ‘tecnoguerra’ e che avrà poi in McNamara il suo soggetto operativo ideale e nel Vietnam il suo oggetto di applicazione definitivo: l’istituzione militare è assimilata a una grande azienda che prende decisioni in base a dati quantitativi, e, confidando sulla superiorità dei suoi mezzi, pratica una guerra di logoramento: la vittoria arriva quando il numero dei nemici uccisi supera il numero dei sostituti disponibili. L’assurdità dell’ipotesi è evidente: presuppone valido il criterio aziendalistico costi-benefici nell’ambito squisitamente etico del patriottismo; le sue conseguenze operative sono ancora più evidenti: lo scopo dei combattenti non è sconfiggere l’esercito nemico, ma uccidere il maggior numero possibile di nemici per contarne i cadaveri; il body count è l’essenza della tecnoguerra; e se un intero popolo non indispensabile è dichiarato nemico, diventa obiettivo militare sterminare un intero popolo[5].
La Corea del Nord inizia la guerra per tre motivi: non accetta la divisione della nazione in due Stati, né la prospettiva di una nuova egemonia giapponese, né che i collaboratori dei colonialisti giapponesi, anziché finire davanti ai plotoni di esecuzione, si conservino come classe dirigente. Benché la propaganda del tempo abbia favoleggiato un espansionismo internazionalista sovietico che si sarebbe servito di diverse marionette comuniste in diverse regioni, la decisione di Kim Il-sung è presa in modo autonomo (Mosca e Pechino, l’una dissanguata dalla guerra contro la Germania, l’altra dalla guerra civile, temono di essere coinvolte negli sviluppi del conflitto e tentano di frenare il leader coreano) e come tutte le lotte contro l’imperialismo nel secondo Novecento ha un significato essenzialmente nazionale. Egli sottovaluta però la volontà imperiale degli statunitensi; poiché fino al ‘49 interi reggimenti coreani hanno combattuto con i comunisti cinesi nella guerra civile contro Chiang Kai-shek, Kim conta sugli obblighi di riconoscenza che legano Mao ai comunisti coreani e pensa che l’alleanza con la Cina sia un deterrente sufficiente a far desistere gli americani dall’intervento.
Kim non attacca un nemico pacifico o inerme; negli anni precedenti al 1950 ci sono stati frequenti sconfinamenti da parte dell’esercito di Rhee, la cui aggressività si spiega non con il morale dei soldati[6], ma con la sicurezza dell’appoggio americano. Rientrati in Corea alla fine ‘49 i primi reggimenti dalla Manciuria e all’inizio del ‘50 il grosso delle truppe, l’invasione nord coreana inizia tra il 24 e il 25 giugno del ‘50. Alle divisioni che hanno combattuto in Cina, composte da veterani con un alto grado di addestramento, le divisioni sudcoreane, accozzate insieme da un governo fantoccio, non riescono ad opporre resistenza e si disfano. Seul, la capitale del Sud, vicina al 38º parallelo, è occupata immediatamente; l’avanzata continua rapida durante l’estate, così che a fine agosto ai sudcoreani e ai contingenti statunitensi resta soltanto il piccolo ‘perimetro di Pusan’ a sud-est.
Gli Stati Uniti, dove influenti circoli imperialistici non attendono altro che un attacco comunista per completare il loro piano di egemonia mondiale piegando la Cina e l’Unione Sovietica, approfittano dell’assenza dell’ambasciatore sovietico e ottengono che il Consiglio di Sicurezza dichiari la Corea del Nord paese aggressore e autorizzi l’Onu a inviare le sue truppe per respingerla dietro il 38° parallelo. Quindi l’esercito che sbarca nella Corea del Sud è formalmente un esercito dell’ONU, di fatto è composto per la maggior parte da americani, insieme a piccoli contingenti inglesi, francesi, australiani. L’incarico di contrattaccare è affidato al generale MacArthur, vincitore della guerra contro il Giappone e ormai suo proconsole.
MacArthur è sprezzante nei confronti del nemico: dichiara di poter risolvere la questione con un braccio legato dietro la schiena; poi però chiede sempre nuove divisioni, cosicché, dopo poche settimane, l’intero esercito americano è schierato in Corea. Il contrattacco è portato a settembre da Pusan, nell’estremo lembo della Corea del sud e da Inchon, nei pressi del 38º parallelo dove gli americani sono sbarcati. I nord coreani non possono fronteggiare la manovra per inferiorità di mezzi e di uomini e devono ritirarsi a nord subendo perdite spaventose.
Avendo il dominio dei cieli già a pochi giorni dall’inizio della guerra, gli Stati Uniti possono bombardare a tappeto la Corea del Nord; i loro B 29 lanciano una quantità di bombe che supera quelle sul Giappone in tutta la seconda guerra mondiale, e non solo bombe esplosive ma anche bombe incendiarie, il terrificante napalm, appena sperimentato nella seconda guerra mondiale. Delle città e dei villaggi della Corea del Nord restano in piedi solo i camini; sono colpite le dighe perché siano devastati i campi e distrutti i raccolti. La strage dei civili è immensa: alla fine della guerra, si conteranno tre milioni di morti, un numero superiore ai morti giapponesi della seconda guerra mondiale. Per scampare ai bombardamenti, la popolazione si rifugia in caverne e scava tunnel: questa attività, proseguita anche dopo il conflitto, fa dell’odierna Corea del Nord uno stato caserma che vive più sottoterra che sulla superficie.
Arrivati gli americani al 38º parallelo, il mandato dell’Onu sarebbe adempiuto e ciò comporterebbe la cessazione delle ostilità; invece Truman e il segretario di stato Dean Acheson, esaltati dalla vittoria, superano il principio del contenimento di Kennan e passano al roll back: ricacciare indietro il comunismo. Si scatena così un’offensiva contro il Nord che nei circoli imperialisti deve rappresentare l’inizio di un’offensiva generale contro l’ultimo ostacolo all’egemonia mondiale. L’esercito coreano, nel ritirarsi, ha ottenuto però un vantaggio strategico: è riuscito a separare in due tronconi i nemici; così gli americani, occupata quasi tutta la Corea del Nord e giunti al confine cinese, sono diventati vulnerabili. Supplicato da Kim Il-sung, Mao consente a un esercito cinese di 180mila uomini di unirsi ai resti dell’esercito nordcoreano per un contrattacco; gli statunitensi sono colti di sorpresa e subiscono gravi sconfitte, tanto più umilianti in quanto inflitte da popolazioni considerate inferiori ai loro migliori generali che avevano appena vinto la guerra sul Pacifico. Lo sgomento è tale che MacArthur pretende che Truman lo autorizzi a gettare bombe atomiche in Manciuria contro i cinesi; ma dal 1949 gli americani non hanno più il monopolio della bomba atomica; così il presidente rifiuta e lo licenzia.
Il contrattacco cinese e nordcoreano avanza fino al 38º parallelo; qui la guerra di movimento si trasforma in guerra di posizione. Truman, la cui popolarità è devastata dalla sconfitta patita in Corea del Nord, rinuncia a ricandidarsi; la Cina, d’altra parte, non può sostenere il costo di una guerra per riunificare la penisola; così dalla guerra di posizione si passa alle trattative per l’armistizio che viene siglato nel 1953. L’armistizio però non è una pace, lo stato di guerra dura quindi ancora oggi.
Le conseguenze della guerra sono enormi: per gli americani essa è la prima della serie ininterrotta di guerre iniziate, trasformate in genocidio ma non vinte; crescono poi a dismisura negli Stati Uniti le dimensioni economiche e il peso politico del complesso industriale militare. Se finita la seconda guerra mondiale Truman aveva smobilitato l’esercito e ridotto di 10 volte il bilancio della marina, se a detta di Kennan la dottrina del contenimento non implicava l’impegno militare diretto quanto l’assistenza economica e militare a chi combattesse il comunismo, con la sconfitta in Corea, il bilancio della difesa si moltiplica senza misura e gli Stati Uniti diventano uno Stato in cui l’apparato militare e di sicurezza ha un’egemonia completa sulla società, rendendola molto diversa da come i suoi fondatori l’avevano immaginata e molto simile a quella che osserviamo oggi. Della differenza si accorge addirittura il successivo presidente degli Stati Uniti Eisenhower, non a caso un generale: pur avendo permesso durante i suoi 8 anni di mandato l’aumento della misura e dell’importanza del complesso militare industriale, nel momento di congedarsi, nel suo discorso finale, egli sottolinea la pericolosità di questa situazione per la democrazia americana. Un’ultima conseguenza è l’ondata di paranoia anticomunista. Essa è iniziata già nel ‘49, dopo che i sovietici hanno sperimentato, con successo, la loro bomba atomica e Mao ha proclamato la Repubblica Popolare Cinese; ma è la sconfitta in Corea a rendere onnipotente un personaggio allucinato come il senatore McCarthy che vede comunisti ovunque e che con la sua Commissione per le attività antiamericane colpisce gli individui sospetti dell’amministrazione pubblica, del mondo politico e del mondo dello spettacolo.
In Asia le conseguenze sono altrettanto importanti: in Giappone, che negli anni della guerra di Corea funge da base logistica delle operazioni, affluiscono una quantità enorme di finanziamenti dagli Stati Uniti che avviano un processo rapidissimo di rinascita economica. La Corea del Sud resta sotto il giogo dei dittatori; essi però vi avviano uno sviluppo economico che negli anni ‘80 diventerà dirompente. La Corea del Nord diventa l’attuale stato caserma ossessionato dalla volontà di punire gli americani e di riunificare la nazione.



[1]     Per la Commissione e le sue attività cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Truth_and_Reconciliation_Commission_(South_Korea) .
[2]     Per una biografia non troppo addolcita del personaggio cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Syngman_Rhee .
[3]     Per la repressione della rivolta nell’isola di Jeju cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Jeju_uprising . Nella sola isola di Jeju la Commissione per la verità e la riconciliazione “ha documentato 14.373 vittime, l’86% per mano delle forze di sicurezza e il 14% per mano dei ribelli armati, e ha stimato che il numero totale dei morti ammonta a circa 30.000. Circa il 70 % dei 230 villaggi dell’isola furono completamente bruciati e furono distrutte più di 39.000 case. Dei 400 villaggi esistenti prima della rivolta ne restarono solo 170.”
[4]     La cosiddetta teoria del totalitarismo poggia sulla convinzione che, a differenza del nazismo e del comunismo, il ‘mondo libero’, quello della società aperta e democratica in virtù del libero mercato, sia estraneo all’orrore; eppure la voce del secondo novecento è accompagnata dal sinistro contrappunto dei genocidi che l’impero americano ha avviato in Corea.
[5]     Cfr. il secondo capitolo dello sconvolgente libro di Nick Turse, Kill anything that moves. The real American war in Vietnam. Picador USA 2014.
[6]     Le truppe inviate a reprimere la rivolta di Jeju si sono ammutinate.

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