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mercoledì 2 agosto 2017

Il crepuscolo di Toni Negri (Paolo Di Remigio)

(Riceviamo dall'amico Paolo di Remigio, e volentieri pubblichiamo, questo intervento su Negri. L'intervento era già apparso in "Appello al popolo". M.B.)





Il crepuscolo di Toni Negri

(P.Di Remigio)

Nel dicembre 2016 Toni Negri ha pubblicato un testo di una precedente conferenza, dal titolo enigmatico ‘Pour en finir avec la souveraineté?’, in italiano ‘Per finirla con la sovranità?’[1]. Il discorso di Negri, povero di conoscenza storica e di ragione filosofica, si risolve in errori sul passato, illusioni sul presente e rifiuto di ogni più sacro vincolo dell’umanità; la sua lettura attenta può nondimeno essere utile a mostrare la debolezza di ogni discorso politico che osi considerare lo Stato-nazione un patetico residuo del passato, e può contribuire a chiarire il concetto di sovranità e la sua stringente attualità[2].

Comincerò dalla critica dell’autonomia del politico (nazionale) sotto la cui bandiera si muovono varie posizioni, tutte nostalgiche della sovranità.

Parlando di nostalgia della sovranità, Negri fa un doppio errore: di contenuto, in quanto riduce la sovranità nazionale a un istituto che continuerebbe ad esistere solo nei libri di storia, mentre la realtà attuale è fatta di Stati con i loro territori, le loro leggi, i loro magistrati e i loro eserciti. Parlare di ‘nostalgia’, non di ‘esigenza’, di sovranità significa avere trasformato in una fase di storia universale le manovre imperialistiche svoltesi all’interno della UE, volte invece a sopprimere la sovranità della sola Europa meridionale in favore di quella settentrionale. È un grave errore di valutazione, la cui sorgente è l’illusione internazionalista, questa sì definitivamente passata – non solo perché non ci sono al momento rivoluzioni internazionaliste né soggetti politici ad averla in programma, ma anche perché tutte le rivoluzioni internazionaliste hanno mostrato di avere una determinazione essenzialmente nazionale (russa, cinese, cubana …), così che l’internazionalismo è sempre stato nel migliore dei casi una vuota retorica, nel peggiore l’ideologia dell’imperialismo sovietico. L’errore di contenuto va insieme a un errore di forma. Ogni confutazione ha un metodo: deve iniziare dalla verità del concetto da confutare e finire col mostrarne la falsità. Invece Negri, dopo aver promesso con il titolo della sua conferenza un’argomentazione che confuti il concetto di sovranità, dunque un’argomentazione che termini con l’annullamento del concetto, inizia presupponendolo già nullo.

“L’autonomia del politico” è infatti oggi da molti concepita come una forza di redenzione per la sinistra – di fatto la ritengo una maledizione dalla quale rifuggire. Uso la frase “autonomia del politico” per designare argomenti che pretendono che il processo decisionale in politica possa e debba essere tenuto al riparo dalle pressioni della vita economica e sociale, dalla realtà dei bisogni sociali.

La sovranità non ha nulla a che fare con la pretesa che la politica debba essere tenuta al riparo dalle pressioni della vita economica e sociale, dalla realtà dei bisogni sociali: chi mai ha potuto sostenere questa posizione? ‘Sovranità’, dal punto di vista interno allo Stato, significa che la politica regola il mercato capitalistico in modo da porlo al servizio dei bisogni sociali.
Negri distingue tre tipi di ‘nostalgici’ della sovranità.

Alcune delle figure contemporanee più intelligenti che propongono l’autonomia del politico lo concepiscono come un mezzo per restaurare il pensiero politico liberal (di sinistra) strappandolo al dominio ideologico del neoliberismo, come antidoto non solo e non tanto alle politiche economiche distruttive del neoliberalismo, ivi comprese privatizzazione e deregulation, ma piuttosto ai modi nei quali il neoliberalismo trasforma e domina il discorso pubblico e politico: il modo nel quale esso impone una razionalità economica sopra il discorso politico e mina ogni ragionamento politico che non obbedisca alla logica di mercato. […] Sostenere l’autonomia del politico in questo contesto è dunque un modo per rifiutare il dominio della logica di mercato e per restaurare il discorso politico della tradizione liberal, dei diritti, della libertà e dell’eguaglianza – dell’égaliberté, come la chiama Etienne Balibar – che ha forti risonanze nell’opera di Hannah Arendt  e che va indietro almeno fino a John Stuart Mill. Si può riconoscere che queste critiche liberal del neoliberalismo sono oneste ma si deve aggiungere che sono inadeguate ad un progetto democratico. Da un lato, nozioni politiche di libertà ed eguaglianza che non attacchino direttamente le basi economiche e sociali dell’ineguaglianza e della mancanza di libertà, in particolare le leggi della proprietà e del comando sopra la nostra vita produttiva e riproduttiva, fan da sempre prova della loro inadeguatezza. D’altro lato, la potenzialità ovvero l’esistente capacità della gente di governarsi collettivamente, sarà in questa luce sempre oscurata e, quindi, quella vera democrazia che è costituita da una moltitudine capace di determinare decisioni politiche, apparirà sempre e solo una nobile idea per qualche momento di un futuro indefinito. “I teorici liberal che guidano il treno dell’autonomia del politico non arriveranno mai a destinazione”: sottolinea con enfasi un mio amico.

La prima specie di nostalgia sovranista è l’esigenza sentimentale di tenere separato discorso politico e discorso economico per timore che il totalitarismo di mercato elimini il politico e la prospettiva della libertà e dell’uguaglianza. La critica di Negri, che questi nostalgici non attaccano le basi strutturali che producono ineguaglianza e non libertà e non hanno fiducia nelle virtù democratiche delle masse, non tocca però il cuore della questione perché, come i nostalgici che essa attacca, non riflette su libertà e uguaglianza: crede che si possa operare un’unica manovra per ottenerle entrambe; quest’unica manovra tuttavia non esiste perché libertà e uguaglianza sono in contrasto essenziale. È evidente che la libertà, intesa nel senso comune come autonomia individuale, produce ineguaglianza e che l’uguaglianza produce limitazione della libertà individuale. Come è proprio dell’essenza del mercato tenere ferma la libertà del singolo e produrre ineguaglianza così è proprio dell’essenza dello Stato tenere ferma l’uguaglianza e limitare l’autonomia del singolo. Non si può sfuggire a questo dilemma, lo si può soltanto comporre nell’idea di Stato costituzionale. Così, quando rifiuta con orrore la sovranità dello Stato, senza che se ne accorga, Negri rifiuta l’uguaglianza e si avvicina pericolosamente al liberismo, con il quale in effetti condivide l’idea che gli individui siano in grado di organizzare spontaneamente la società e l’economia. Il fatto che Negri non chiami ‘mercato’ questa organizzazione spontanea e non ne riconosca il potenziale di ineguaglianza non depone a suo favore: significa soltanto che non disponendo di una intuizione della realtà umana, si ferma al sentimento rousseauiano e che non ha la coerenza del liberismo. Egli non pensa la libertà e l’uguaglianza, le sogna; quindi crede che possano essere rimosse le basi economiche e sociali dell’ineguaglianza e della mancanza di libertà. Se però si rimuovesse l’illibertà individuale (cioè lo Stato) si produrrebbe l’ineguaglianza assoluta e se si rimuovesse l’ineguaglianza (cioè il mercato) si produrrebbe l’illibertà; se si rimuovessero entrambe l’uomo tornerebbe animale, né libero, perché cosa tra le cose, né uguale, perché preda delle differenze naturali. Lo Stato costituzionale sovrano le pone entrambe in quanto garantisce un’uguaglianza qualitativa autorizzando l’ineguaglianza quantitativa, ossia fissa la misura della libertà individuale così da consentire a ciascuno l’uguaglianza essenziale.



Un secondo gruppo di argomenti viene da sinistra, da autori egualmente ben intenzionati ma egualmente inefficaci, ed è diretto a contrastare la faccia economica del neoliberalismo, i suoi progetti di privatizzazione e di deregulation. Per questo gruppo l’autonomia del politico significa, in primo luogo, ritorno a qualche forma di controllo pubblico e statale. In risposta alla globalizzazione neoliberale che ha eroso i poteri della sovranità nazionale, questi autori pensano ad un ritorno ai meccanismi keynesiani e/o socialisti per riaffermare i poteri dello Stato sull’economia e quindi per contenere i mostruosi poteri della finanza e delle corporations. … Noi guardiamo agli autori di questa versione dell’autonomia del politico come alleati e i loro propositi ci sembrano simpatici ma – essendo noi, direi per natura, incapaci di esprimere positivamente la desiderabilità dello Stato e dell’autorità pubblica – troviamo che gli appelli contemporanei a favore di un controllo statale keynesiano o socialista, sebbene presentati in maniera eminentemente pragmatica, siano essenzialmente poco realisti e realizzabili. Non esistono più le condizioni sociali e politiche sulle quali questi progetti erano basati nel ventesimo secolo. Sotto la regola neoliberale i sindacati tradizionali e le organizzazioni della classe operaia sono stati distrutti, scannati e le associazioni che stanno alla base della cittadinanza politica sono state svuotate al punto da generare nostalgia persino tra le élites della destra. 

Negri confessa il suo approccio sentimentale, immaturo, al concetto di Stato e autorità pubblica: un’intolleranza per natura; ma un filosofo non può rifiutare nulla in base alle sue idiosincrasie, deve criticare e conservare il criticato in una sintesi superiore. La sua confutazione dei nostalgici economici della sovranità è un semplice rigetto senza vera argomentazione, e soffre di una doppia insufficienza. Innanzitutto di teoria economica, quando sopravvaluta la forza dei sindacati dimenticando che essa svanisce se esplode la disoccupazione: la forza degli operai e dei loro sindacati è la piena occupazione; questa è distrutta dalla libera mobilità dei fattori produttivi; quando il capitale è lasciato libero di aprire le fabbriche nei luoghi del globo dove più basso è il costo del lavoro, quando esso costringe lo Stato ad abolire i confini per importare manodopera semischiavile, si produce una disoccupazione così alta che i sindacati non possono più difendere i lavoratori dalla povertà e dalla precarietà. Ma c’è una seconda insufficienza. Negri trascura che la vittoria del mercato, cioè dell’ineguaglianza, sullo Stato è basata su un dato storico, è effetto del crollo dell’URSS. È quasi ovvio constatare che la scomparsa del nemico esterno indebolisce la sostanzialità dello Stato e il suo potere di uguagliare, e permette alla società civile di affermare il suo istinto anarchico; nel nostro caso, dal momento in cui gli Stati Uniti non hanno sentito più la minaccia sovietica, la loro società e quelle sotto la loro influenza si sono sfaldate in preda ad egoismi ed avidità incontrollati. Al contrario di quanto pensa Negri, entrambi i motivi di sconfitta della classe operaia, essendo storici, sono però reversibili: le politiche di deflazione salariale alla lunga non sono sostenibili perché provocano crisi da sovrapproduzione e frenano lo sviluppo della forza produttiva, mentre la fine delle rivalità internazionali nell’impero mondiale è un evento eccezionale, in realtà già estinto. Negri deriva queste sue insufficienze dallo spirito del marxismo, che dopo aver esagerato l’asprezza del conflitto di classe come guerra, non ha più sensibilità per la guerra tra gli Stati.

Infine un piccolo gruppo di intellettuali di sinistra si eccita per l’autonomia del politico in forme di avanguardia, spesso presentate come risposta all’incapacità dei movimenti sociali odierni, movimenti orizzontali, a rovesciare le strutture capitaliste esistenti e a porsi il problema di prendere il potere. … Come ci sembra di aver già detto, dato l’ampio sviluppo di sistemi immunitari sulla scena dei movimenti, ci sembra impossibile oggi – sia resa grazia a Dio! – imporre comitati centrali e leadership tradizionali sopra movimenti sociali dinamici e creativi.

I nostalgici della sovranità di terza specie sognano dei leader che impediscano ai ‘movimenti’ no-global di rifluire nel nulla. Evidentemente non hanno capito che questi movimenti con i loro bravi black block hanno quasi sempre un padrone, cioè l’oligarchia atlantica e i suoi servizi segreti che li suscitano, li controllano e li dissolvono. Negri non solo non riconosce che questi movimenti sono masse disorientate manovrate dalle oligarchie, ma coglie l’occasione per farsi illusioni sulla loro dinamicità e creatività.

Queste diverse affermazioni dell’autonomia del politico, dai liberal fino alla sinistra radicale, non esprimono soltanto il fatto di essere timorose e quasi ipnotizzate dall’autorità del neoliberismo, ma anche una fede nella sovranità come un baluardo per restaurare il potere della sinistra. È vero, come d’altra parte ammettono molti di questi autori, che il neoliberismo ha minato i tradizionali poteri politici sovrani. Non bisogna guardare molto lontano per registrare la maniera nella quale in Europa le forze del capitalismo globale hanno amministrato la crisi dal 2008 e la forma, alquanto inelegante, con la quale i leader del capitale finanziario, andando oltre ogni ostacolo, attraverso la pressione dei “mercati”, hanno imposto la loro volontà non solo sugli Stati debitori ma su tutti i Paesi europei. Le società europee sono state letteralmente ricostruite seguendo i criteri gerarchici creati dal potere del denaro. Ne sono venute nuove configurazioni coercitive della divisione del lavoro (precarietà, disoccupazione di massa ecc …), l’organizzazione aleatoria ma sistematica delle infrastrutture produttive, le scale salariali variabili nel riordino delle norme della riproduzione sociale, e i diversi disegni e le misure alternative rigidamente proposte, nei programmi di exit dalla crisi, ma che in realtà servivano per approfondire, attraverso la crisi, le divisioni di classe. Il capitale finanziario sotto comando neoliberale si è così liberato da ogni bisogno di rispondere alle tradizionali strutture politiche della rappresentanza e del funzionamento dei governi nazionali: meccanismi elettorali, strutture giuridiche fondamentali, e chi più ne ha più ne metta.

È vero, dice Negri, che siamo in presenza dello strapotere del mercato capitalistico, ma pensare che lo Stato possa essere restaurato è del tutto illusorio: non solo i sindacati, la stessa loro sovranità è estinta per sempre. Questa sua valutazione deriva però dalla propaganda delle oligarchie finanziarie ed è fattualmente erronea: soltanto in Europa meridionale il potere finanziario si è presentato in forma ‘alquanto inelegante’ con la lettera di Trichet e Draghi al governo italiano oppure con i ricatti della BCE contro il governo greco; altrove i governi hanno attuato misure non solo attente all’interesse nazionale ma con corollari decisamente imperialistici. In altri termini, i capitalismi anglosassoni e nord-europei hanno conservato un carattere nazionale: da una parte i loro governi controllano le istituzioni sovranazionali, come l’FMI o la Commissione europea, in modo da condizionarle a proprio vantaggio, dall’altra corrono in aiuto dei loro capitalismo salvandone le banche con denaro pubblico, limitando la mobilità dei capitali e delle persone in nome dell’interesse nazionale, conducendo guerre economiche contro i capitalismi meridionali per distruggerne la concorrenza. Gli Stati settentrionali prendono ordini dal mercato solo finché questo funziona regolarmente; quando la sequenza dei suoi fallimenti rischia di travolgere l’economia, essi intervengono nell’economia a immediato vantaggio delle oligarchie, certo, ma violando l’ortodossia liberale, intervengono cioè come Stati, e questo prova che essi non sono affatto estinti. Che gli Stati meridionali abbiano obbedito all’ideologia liberale, abbiano liberalizzato e privatizzato lasciando  distruggere e fagocitare la loro base produttiva a vantaggio degli Stati del nord, che invece sono stati attentissimi a difendere il carattere nazionale del loro capitalismo, va dunque spiegato non con categorie economiche o di filosofia della storia, ma con la loro debolezza politica. Credere come fa Negri che la debolezza politica di questi Stati sia l’estinzione dello Stato in generale, significa aver perso la bussola.

Quei richiami alla sovranità sono dunque attualmente ineffettuali. Ma anche pericolosi. Pericolosi perché perdono di vista che cosa è stata la sovranità nella sua storia e ciò che ancora vuole essere. Essa ha voluto sempre e solo staccare il potere dai soggetti, centralizzare il potere di decisione contro i soggetti, imporre il dominio sulle loro vite, mandarli a morire in guerra. Il problema che abbiamo, è quello di difenderci dalla sovranità. Abbiamo cercato di farlo, nei secoli della modernità, limitandola, togliendole almeno parte del carattere “assolutista”, ancor peggio, “coloniale” che essa aveva man mano assunto. Ma quei modi di controllarla si sono consumati. Non vorrei qui fare il prof. di storia del pensiero politico e ancora una volta mostrare come due idee regolative del mondo borghese per organizzare (e cioè eventualmente per limitare) la sovranità – quelle legate alla proprietà ed alla libertà e quelle legate alla rappresentanza – si siano trasformate da illusorie forme di controllo del sovrano in figure del suo dominio. Della prima dannata conversione, quella della proprietà e della libertà borghese nella struttura del comando capitalista attraverso il mercato, abbiamo già cominciato a dire. Ma della seconda, quella della rappresentanza che costituisce la sovranità, c’è qualcosa da aggiungere.

È subito evidente l’insufficienza di questo argomentare: il potere della soggettività di cui parla Negri non è pre-statale, ma è costituito insieme allo Stato. I soggetti nella loro singolarità infatti non vanno oltre il desiderio del potere; solo uniti lo acquisiscono, cioè arrivano a quella autosufficienza di cui parla Aristotele: solo staccando da sé il loro desiderio impotente di potere essi acquisiscono potere. Il potere sovrano dello Stato sui soggetti si chiama dunque consenso, è cioè generato da una volontà di obbedienza come mezzo per raggiungere effettivo potere. Solo con una mediazione, solo sottomettendosi alle leggi e alle istituzioni che le fanno valere, il soggetto ha potere; il potere immediato del soggetto è invece, come dovrebbe sapere Negri, violenza sterile, che giustamente suscita la violenza dei poteri dello Stato, cioè la pena. La centralizzazione del potere di decisione nello Stato è dunque la costruzione del suo consenso e non può essere svolto per definizione contro i soggetti. La regressione dalla sovranità, il ritorno del potere ai soggetti, è invece la riproposizione della miseria dello stato di natura hobbesiano, a tal punto abominevole che perfino una sovranità dello Stato che fosse in larga misura arbitraria gli sarebbe comunque preferibile. – La grave incomprensione dell’essenza dello Stato spinge Negri ad avvolgersi subito dopo in una doppia contraddizione. All’inizio dell’articolo aveva sostenuto (erroneamente dal nostro punto di vista) che il capitale finanziario esercita un controllo così assoluto sullo Stato, che parlare di ‘autonomia del politico’ è velleitario; ora scrive invece che dalla sovranità dello Stato dobbiamo difenderci e non abbiamo i mezzi per farlo. La prima contraddizione è dunque che lo Stato da una parte è dato come sopraffatto dal mercato, dall’altra come onnipotente. La seconda contraddizione è che la proprietà privata appare da un lato come strumento di limitazione del potere dello Stato, dall’altra come strumento del potere dello Stato. Tutta questa confusione perché, dopo aver sostenuto che la sovranità dello Stato é oppressione, Negri fa sbadatamente valere il reciproco, che ogni oppressione, anche quella economica, è sovranità dello Stato.

Vale la pena qui di ricordare l’imbroglio montato da Rousseau. Che, da un lato, fa partecipare gli individui alla fondazione del pubblico sovrano, che così definisce: “come la natura concede a ciascun uomo un potere assoluto sulle sue membra, il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutte le sue; ed è questo medesimo potere che, diretto dalla volontà generale, porta il nome di sovranità” – dall’altro maledice la proprietà privata – “il primo uomo che disse questo è mio”(;) ma il buon Rousseau, che è stato così lucido e severo quando identifica la proprietà privata come sorgente di ogni corruzione e causa dell’umana sofferenza(,) inciampa subito – quando confronta la proprietà e quella volontà generale che gli aveva risolto il problema della sovranità. Dato che la proprietà privata genera diseguaglianza, come si può creare (inventare) un sistema politico nel quale ogni cosa appartenga insieme a ciascuno e a nessuno (come avveniva, meglio, come avrebbe dovuto avvenire, in quella volontà generale che attribuiva a ciascuno e a nessuno la sovranità)? Qui la trappola si chiude sul buon Jean Jacques. Se il concetto di pubblico è posto infatti per rispondere alla domanda: che cosa appartiene a ciascuno e a nessuno? – e la risposta di Rousseau: è quanto appartiene allo Stato, in questo caso Rousseau ha inventato solo qualcosa che adorna, imbellisce, mistifica la continuità della presa di possesso del comune da parte di individui proprietari. E cerca di convincerci che essa ci includa. È legittimo che il pubblico assuma i nostri diritti e prenda decisioni riguardo a quello che produciamo – così avanza il ragionamento – quando il “noi” sia di nuovo sospinto (malgrado la volontà generale) verso una base individuale, verso la proprietà privata – quella stessa base dalla quale eravamo trionfalmente usciti in nome della volontà generale. Ecco l’implacabile logica del pubblico pragmatismo.

Negri ripropone in modo alquanto confuso la vecchia critica contro lo Stato esposta nella ‘Questione ebraica’ di Marx: l’uguaglianza dei diritti e delle leggi dello Stato sorge su una base di ineguaglianza economica e la conferma; quell’uguaglianza è dunque ingannevole come la fede nell’uguaglianza in Paradiso dei cristiani che consacra la loro disuguaglianza in questa valle di lacrime. Questa critica non ha nessun valore, perché ignora che l’uguaglianza ha senso soltanto come relazione tra disuguali e che viceversa i disuguali sono tali solo sulla base della loro uguaglianza, che insomma uguaglianza e disuguaglianza non sono determinazioni indipendenti, ma relazioni all’altro che pur escludono. Marx, e con lui Negri che sembrerebbe seguirlo, imputano dunque come difetto allo Stato e alla religione la dialettica immanente nel concetto stesso di uguaglianza. Ma Negri aggiunge di suo la sua solita confusione. Innanzitutto l’accusa di imbroglio al ‘buon Jean Jacques’ non sta in piedi. Per Rousseau, con il contratto sociale gli individui tramite l’alienazione completa di se stessi costituiscono un individuo comune, lo Stato sovrano, da cui fanno rifluire a ciascuno la cittadinanza e i suoi diritti: la sovranità dello Stato è la rinuncia degli individui particolari alla propria sovranità; con questa rinuncia, in quanto essa è totale e riguarda ogni individuo, essi non costituiscono però un individuo particolare a cui sono asserviti, ma un individuo universale di cui ognuno è membro come legislatore, la volontà generale, che esprime il lato universale della libertà di ciascuno e dà a ciascuno il riconoscimento senza il quale essa resterebbe un puro desiderio. Ne segue che la proprietà privata non è un’appropriazione naturale e conservata con le unghie e i denti fino a quando se ne ha la forza, ma una libertà generata e protetta dall’assemblea sovrana, dunque ad essa sottoposta: non naturale e assoluta e in contrasto con il politico, ma mediata e condizionata dalla volontà generale –. Tutto questo è vero e coerente, e infatti Rousseau, con la sua idea che libertà e diritti siano non naturali, ma effetto di un’alienazione di libertà e diritti naturali (ossia dell’arbitrio), non è annoverato tra gli autori graditi al liberalismo. Un’ulteriore confusione è l’impossibilità di capire se Negri stia ancora parlando con ingiusto disprezzo di Rousseau, oppure se stia proiettando verso una soluzione collettivista quella che egli ritiene la contraddizione di Rousseau.

Gli intellettuali conservatori hanno da molto tempo smascherato le pretese democratiche della rappresentanza politica ed il Rousseauismo romantico e sebbene i loro argomenti siano stati spesso rivolti contro la stessa democrazia, essi contengono un nodo di verità. … si comprende quanto sostanzialmente falsa sia la richiesta di una democratica rappresentanza politica.

Negri sembra ignorare che per Rousseau il popolo non può delegare la sua sovranità a rappresentanti; la sua polemica su questo punto rischia di essere un semplice fraintendimento. – Se la sovranità fosse oppressione, certo, non solo la rappresentanza democratica, ma nessun mezzo sarebbe idoneo a recuperare la libertà. Ma così non è: lo Stato presuppone l’alienazione dell’arbitrio particolare e la sua trasformazione in volontà generale legiferante secondo l’interesse comune. La prima garanzia della libertà individuale è dunque che i poteri pubblici siano esercitati secondo leggi universali. La democrazia rappresentativa, poi, non è affatto un modo impotente per allentare l’oppressione, ma un metodo per assicurare alle leggi effettiva universalità, ossia l’espressività del bene comune. Che essa non sia pura apparenza lo dimostra l’enorme sforzo oligarchico di dirigere le elezioni con il controllo dei mezzi di comunicazione.

Ciò detto, permettetemi di ritornare su un punto sul quale altre volte ho cercato di porre un’alternativa al potere sovrano: di tornare cioè al concetto di potere costituente. È un atto rivoluzionario, un evento concepito come un’eccezione giuridica che esprime ex nihilo un nuovo ordine politico: questa la sua definizione consueta. La rivoluzione americana o quella francese o quella russa ne costituiscono l’esempio più citato. L’atto di “prendere il potere” è qui definito dall’unità spaziale e temporale dell’evento rivoluzionario vittorioso. La sovranità del potere costituente deriva dunque, in termini giuridici, precisamente dal suo carattere di eccezionalità.
Il potere costituito persegue l’interesse comune, la conservazione del bene comune, il potere costituente è violenza. Nessuno può negare che quando l’ordine civile sia sentito dai cittadini come scandalo e disordine, cioè come violenza, la violenza rivoluzionaria abbia la sua necessità; ma è altrettanto vero che, come sarebbe preferibile che non ci sia castigo perché non c’è stato delitto, così è preferibile che non ci sia rivoluzione perché non ci sono stati scandalo e disordine. L’opposizione tra potere sovrano e potere costituente è quella tra pace e guerra civile: il rigetto istintivo della pace civile e la simpatia per la guerra civile è l’istinto satanico, l’atteggiamento accusatorio che diffama l’ordine in quanto tale come sommo disordine, che abbandona l’essere della legalità per gettarsi nella casualità cieca dell’evento. Questa celebrazione dell’illegalità è l’ideologia del fascismo intransigente della prima ora, Farinacci più che Marx. Scandalizza la visione edulcorata che offre della guerra civile, non l’orgia di assassini, sevizie, stupri, saccheggi e distruzioni quale essa è, ma un’innocua ebbrezza carnevalesca, una goliardata, con cui si infrangono schemi venuti a noia. Il meno che si possa dire è che a Negri manca la fantasia – ma si potrebbe anche dire qualcosa di più.

Ora, quella mia assunzione è stata criticata negli ultimi decenni, per esempio da Giorgio Agamben e da Jacques Derrida. Per l’uno e per l’altro si poteva criticare in maniera convincente la nozione giuridica di potere costituente nella sua pretesa di separarsi dal potere costituito (per dirlo con Derrida: “la violenza della fondazione della legge conserva la violenza della conservazione della legge e non può rompere con essa”).

Il rifiuto del diritto come essenzialmente opposto alla giustizia è contenuto in una pagina di Benjamin – certo non delle migliori. Nella pace civile la violenza della conservazione della legge è la pena che colpisce l’autore del delitto, è dunque un avvenimento eccezionale per definizione; se non lo fosse, non ci sarebbe pace civile, ma guerra civile. La legge si conserva non con la violenza, ma in quanto gode di consenso e gode di consenso in quanto i cittadini vi vedono soddisfatte le loro aspettative essenziali. Ma c’è un secondo errore nella disgraziata proposizione di Derrida: credere che la violenza fondi la legge; così non è: la violenza fonda la vendetta, la legge è fondata dall’accordo. Negri non scorge l’idiozia della battuta di Derrida perché la condivide; anche per lui lo jus non è iniuria solo quando è summum, ma in ogni caso; la giustizia è solo nell’evento rivoluzionario. Infatti accetta la critica di Agamben e Derrida:

E tuttavia, una volta accettata questa critica, resta valida la concezione del potere costituente che noi avevamo proposto, perché impiantata non sulla sua figura giuridica ma sulla materialità del processo rivoluzionario.

Per paura dello ius, cioè del diritto, il potere costituente di Negri diventa processo rivoluzionario materiale, cioè non costituente, dunque violenza fine a se stessa. Negri vive in un mondo rovesciato in cui la pace civile è il contrario di sé, cioè ‘vera’ violenza, la guerra civile non è guerra ma la ‘vera’ pace; per evitare che la guerra civile, cioè la ‘vera’ pace, cessi e dia luogo all’ordine, che per Negri è la ‘vera’ violenza, occorre che la guerra civile non costituisca nulla, non vada oltre se stessa. Si tratta, come si vede, di una concezione carnevalesca della rivoluzione.

Noi possiamo così passare dal potere costituente all’azione costituente, dal potere costituente come concetto giuridico al potere costituente come dispositivo politico. Questo passaggio ci offre una base sovversiva che svuota ogni legame alla nozione di un evento unificato e propone il processo rivoluzionario come una macchina aperta e plurale che produce progressivamente le sue norme. Al fine di riconquistare utilità al concetto di potere costituente, oltre le sue configurazioni nel pensiero giuridico e politico, è necessario sempre differenziare, riconoscere la sua eterogeneità sociale e la sua durata temporale, configurarlo cioè come una potenza continua che si replica ed istituisce sempre nuove figure.

Dalla realtà, intesa come accadere regolato da leggi, Negri regredisce all’ebbrezza del caos e lo chiama ‘dispositivo politico’, dimenticando che ‘politico’ è derivato da ‘polis’, cioè Stato. Il potere costituente è privo di unità, aperto, plurale; le sue norme, anziché le regole del suo divenire, sono prodotte progressivamente dal processo, sono cioè non-norme. Il processo rivoluzionario di Negri non è suscitato dal degenerare dell’ordine sociale nel caos, è esso stesso il caos contro l’ordine sociale, non il castigo che annulla il delitto, è il delitto che accusa il diritto e lo annulla. –Certo, produce una certa impressione che un professore di un’università statale, regolarmente stipendiato e poi pensionato con il denaro dei contribuenti, che è stato parlamentare e non si è fatto scrupolo di accettare il vitalizio, che si fa pagare i libri che scrive e le conferenze che tiene, possa ridurre la teoria politica alla cieca violenza di un’azione sovversiva senza unità e senza norme, che può avere come unico risultato quello di destabilizzare lo Stato in favore di potenze straniere.

Insistiamo qui su alcuni concetti-chiave, meglio, su alcune nuove condizioni politiche, per ridefinire il potere costituente oltre il suo modello moderno. In primo luogo, si deve considerare la radicale differenza di come gli apparati giuridici ed amministrativi sono posizionati rispetto a – e successivamente assorbiti da – le strutture economiche della società dominata dal capitale globale. La società come un tutto è progressivamente sussunta nei circuiti dell’organizzazione economica e del comando capitalista, innanzitutto attraverso l’azione del capitale finanziario che riorganizza la divisione del lavoro a livello globale, si appropria profitto dalle forme materiali e immateriali del lavoro sociale ed estrae rendita dalla produzione e riproduzione della vita e dalla comunicazione/circolazione del valore. Il denaro è il veicolo primario attraverso il quale la finanza comanda il “comune produttivo” (productive commons), appropria il valore che esso produce e lo rende funzionale allo sfruttamento ed alla gerarchia dell’organizzazione sociale.

Il capitale globalizzato sussume innanzitutto la società. Giusto. Ma Negri non dice come, perché questo gli toglierebbe ogni illusione sulla sua immagine di potere costituente. Lo diciamo noi: con la libertà di movimento dei capitali e delle persone, che intensificano la concorrenza tra i lavoratori, spezzando ogni forma di opposizione sindacale e politica. Non avendo mai recepito da Marx le constatazioni che la forza-lavoro è merce e che i loro proprietari sono in una dura concorrenza che li rende ostili, questi marxisti credono di trovare ovunque moltitudini immediatamente solidali e organizzabili in potere costituente.

In secondo luogo, la costruzione del mercato globale indebolisce i poteri degli Stati-nazione e diminuisce la loro autonomia costituzionale. Gli Stati-nazione mantengono importanti poteri giuridici, economici ed amministrativi, evidentemente, ma essi sono progressivamente situati dentro, o anche subordinati a strutture e istituzioni del governo globale, oltre che alle domande del mercato capitalistico globale. Il denaro e la governance globale sono incluse una nell’altra e supportano le strutture giuridiche della società capitalistica globale.

Per comprendere il fenomeno dell’asservimento del politico Negri avrebbe dovuto parlare non di denaro, che non è un mezzo specifico dell’economia capitalistica, ma di controllo degli istituti che creano denaro, cioè delle banche centrali; con il loro controllo, altrimenti detto ‘indipendenza della banca centrale’, le oligarchie finanziarie tentano di controllare le economie e per loro tramite le società. D’altra parte parlare di indebolimento del potere degli Stati-nazione è improprio: certi Stati-nazione si indeboliscono, in particolare quelli dell’Europa meridionale, che sono avviati a un destino coloniale, e quelli del Medio Oriente, che hanno subito una catastrofica destabilizzazione da parte del fondamentalismo islamico su mandato dell’imperialismo anglosassone e dei suoi alleati. Proprio il mito dell’indebolimento definitivo di tutti gli Stati nazionali, che fa da supporto anche alla costruzione dell’Unione Europea (di cui non a caso Negri ha sostenuto la costituzione poi bocciata dai francesi) è strumento eccellente per abbandonare l’Europa meridionale al suo destino coloniale. In questo indebolimento non c’è invece nessuna novità essenziale. Gli Stati Uniti d’America dopo il crollo dell’URSS hanno creato un impero mondiale. La mancanza di nemici esterni all’impero, com’è normale, ha allentato la sua unità statale e ha permesso alle oligarchie private una più forte indipendenza; di qui l’affermarsi del diritto privato a scapito del diritto pubblico; ma poiché l’impero si era esteso all’intero globo il diritto privato sembra essere diventato diritto internazionale. In altri termini, la prospettiva di un impero mondiale e di una pace perpetua (appena disturbata da operazioni interne ‘di polizia globale’) ha indebolito l’importanza dello Stato rispetto alla società civile e questo indebolimento si è esteso negli altri Stati. Estendendosi ha assunto però un significato affatto diverso: non più un indebolimento del politico in favore dell’economico, ma un indebolimento della politica e dell’economia degli Stati vassalli avviati in un percorso di declino coloniale. Questa prospettiva ha infine resuscitato lo Stato-nazione e ha suscitato un’alleanza contro l’impero anglosassone, e la situazione attuale è quella di sempre, della rivalità tra Stati-nazione. Il declino temporaneo dello Stato-nazione non ha dunque nulla a che fare con la filosofia della storia, non può essere irrigidito come nuova fase di sviluppo del capitalismo o come trasformazione biopolitica della società, è avvenire storico, un oscillare verso l’autonomia della persona privata che è già declinato e ha suscitato l’oscillazione in direzione opposta, il ritorno alle sovranità nazionali: la Cina, la Russia, l’India, l’Iran si sono infatti emancipate dall’impero e tengono ferma la loro sovranità; un processo analogo si mostra in Europa con la Brexit e negli Stati Uniti con l’elezione di Trump.

In terzo luogo, nel processo di questa trasformazione biopolitica della società, le figure della forza lavoro e della cittadinanza si sovrappongono con una tale intensità che i conflitti sociali, economici e politici risuonano attraverso le strutture del potere ed amplificano l’un l’altro. L’immersione del lavoro vivo nella costituzione della soggettività politica crea una serie proliferante di antagonismi che scorrono attraverso ogni realtà istituzionale. In questa situazione il concetto di potere costituente espresso nella tradizione giuridica moderna, come un potere originario incondizionato, comincia a perdere il suo significato. Si potrebbe concludere a questo punto che forse varrebbe la pena di abbandonare il concetto e smettere di parlarne. Pensiamo tuttavia che far questo sarebbe privarsi di un importante strumento di comprensione dell’espressione delle forze antagoniste e del loro potenziale per la trasformazione sociale. È quindi meglio ridefinire il potere costituente alla luce delle condizioni attuali.

Negri tenta una traduzione del potere costituente, che, come abbiamo visto, consiste in una sospensione carnevalesca dell’ordine costituito, nei termini dei movimenti apolitici attuali. Il tentativo ha il vento in poppa e sfonda una porta aperta: poiché non ha nessuna effettiva consistenza politica, ma consiste nella pura eversività, il potere costituente è non solo traducibile nell’inconsistenza del movimenti no-global, ma è immediatamente identico alle bravate dei black block.

Vediamo cosa succede nelle lotte. Strappare il potere costituente all’autonomia del politico al fine di congiungere insieme la critica del politico, dell’economico e del sociale può essere riconosciuto chiaramente nei più forti movimenti che agiscono contro l’ineguaglianza, le privatizzazioni e il potere della finanza.

L’espressione è molto vaga; forse significa che la lotta dei movimenti, più che un carattere politico, anziché mirare alla presa del potere statale, ha un significato innanzitutto economico e sociale, prende di mira il potere economico dell’oligarchia liberale. Si tratta però di affermazione che spacciano per progresso un arretramento; infatti un movimento politico è anche sociale ed economico, per il semplice motivo che il politico è comprensivo delle altre determinazioni dell’umano; non vale il contrario: esistono lotte economiche, quelle sindacali, che si tengono volontariamente lontane dal politico, dunque non hanno nessuna portata rivoluzionaria. Le lotte dei movimenti non hanno avuto un carattere sindacale; ma questo non implica che abbiano avuto una portata politica: c’è la terza possibilità del non essere né sindacali né politiche, di essere innocue come un concerto di musica leggera.

C’è stato del magico nell’aria quando i militanti hanno costruito accampamenti urbani a Il Cairo o a Istanbul, a Madrid, a New York, a Oakland o a Rio de Janeiro – hanno creato spazi urbani comuni, non più privati né pubblici ma caratterizzati da accesso libero e da sperimentali meccanismi di un’amministrazione democratica. Creare spazi urbani comuni è stato sperimentato come antidoto ai veleni della privatizzazione neoliberale – e queste esperienze sono sintomatiche di una lotta sempre più larga che pone il comune contro l’egemonia della proprietà privata e della finanza.

Poteva aggiungere piazza Maidan a Kiev. Si è visto poi che il magico dei movimenti era il loro essere infiltrati dai servizi segreti atlantici che li hanno usati o per concentrare in un’azione politicamente innocua lo scontento sociale e neutralizzarlo o addirittura per buttare giù governi troppo indipendenti dall’impero e promuovere la destabilizzazione degli Stati. Peraltro, non sono stati affatto creati spazi urbani comuni, si è semplicemente fatto uso degli spazi pubblici, fino a sgombero da parte della polizia: nessuna oligarchia liberale è stata messa in pericolo da queste carnevalate.

Attaccare la proprietà privata ed insistere sulla cooperazione sociale ed il comune come motore di nuovi processi costituenti, non significa abbandonare attualmente il desiderio di avere accesso ai beni sociali e di consolidare la sicurezza della vita. Al contrario, portare la lotta dall’appropriazione al politico. Al contrario, con ciò si riconosce che la proprietà privata è l’ostacolo fondamentale alla sicurezza e un blocco all’accesso alle necessità della vita per una larga maggioranza.

I movimenti avrebbero dovuto attaccare la proprietà privata dei mezzi di produzione, in particolare la natura privata delle banche centrali indipendenti. Attaccare la proprietà privata in generale non ha senso. Non si capisce infatti come si possano tenere insieme questo attacco e il desiderio di accesso ai beni sociali e alla sicurezza della vita: accesso ai beni sociali significa infatti loro trasformazione in proprietà privata, sicurezza della vita significa sicurezza della proprietà.

Inoltre, oggi, data la progressiva figura sociale cooperativa della produzione, il diritto di proprietà non può più essere diritto a monopolizzare dei beni e a permettere poteri individuali di decisione, non può più essere il diritto di un lupo che difende gelosamente il suo bottino da altri lupi, ma deve esser trasformato nel diritto al comune, in un exit dalla solitudine attraverso la produzione, verso la cooperazione ed un’esistenza sociale nell’eguaglianza e nella solidarietà.

Nel capitalismo domina la concorrenza tra lavoratori, tanto più spietata quanto più le politiche economiche sono dirette a ingigantire l’esercito industriale di riserva. Occorre chiedere dunque politiche di piena occupazione anziché perdersi nel pio desiderio di sostituire la concorrenza con la cooperazione e di trasformare la proprietà in diritto al comune.

Infine, la trasformazione del potere costituente in un processo continuo, è stato approfondito [sic] attraverso la sua immersione nel tessuto della biopolitica: il contenuto del potere costituzionale tende ad essere la vita stessa. Gli attivisti e i militanti non domandano solo un aumento del loro reddito o il sostegno ai servizi di welfare ma cercano di illuminare il fatto che tutta la vita – tutti i lavori di produzione e di riproduzione – sono soggetti a sfruttamento e ad estrazione di plusvalore.

Un fatica inutile, dal momento che le oligarchie ci ripetono continuamente che la ragione di ogni impresa è l’interesse dell’azionista.

Nella continuità di queste lotte risiede un’espansione di bisogni, desideri e domande sociali. Il potere costituente può divenire una composizione di diverse singolarità costituenti – e così, concepire il potere costituente come un pluralismo moltitudinario significa rompere con ogni feticistica concezione dell’unità politica e finirla quindi con i concetti di popolo e di nazione posti tradizionalmente come unità. A questo punto, alla luce delle lotte che hanno ridefinito il potere costituente come un processo continuo, radicalmente plurale e biopolitico, siamo in una posizione migliore per riconoscere la distanza e l’incompatibilità del potere costituente con la rappresentanza e la sovranità. Sempre di più le pretese democratiche di una rappresentanza politica vengono ampiamente riconosciute come vuota turpitudine e, non a caso, parlare in nome degli altri è stato proscritto nei movimenti sociali. In luogo della rappresentanza, cooperazione e aggregazione sorgono come meccanismi attraverso i quali una pluralità di forze politiche differenti agisce in comune.

Qui è perduto ogni contatto con la realtà: le lotte dei movimenti non hanno avuto alcuna continuità; anzi i no-global, pesantemente infiltrati, sono infine passati al diretto servizio del loro nemico trasformandosi in no-border. Se avessero avuto la continuità che Negri sogna forse poteva valere il pluralismo moltitudinario del potere costituente senza popolo e nazione. Ma vale il contrario: le lotte moltitudinarie si sono risolte in alcune fiammate subito strumentalizzate dalle oligarchie liberali; ne segue la necessità dell’organizzazione politica e dei concetti di popolo e di nazione per la lotta contro il liberalismo.

L’andarsene dalla rappresentanza appare in modo corrispondente in campo economico. Quando l’attività economica consiste in larghi network di cooperazione sociale che producono e riproducono la vita – soggettivando la società – allora il mandato rappresentativo non ha più senso. In questo contesto ogni ricorso alle nozioni di volontà generale sembra completamente fuori posto ed illegittimo. La volontà di tutti è già organizzata nella cooperazione.

Negri finge che le masse, anziché in dura concorrenza per posti di lavoro sempre più scarsi, malpagati e precari, spinte dalle ultime evoluzioni tecnologiche, producano e riproducano la vita cooperando in larghi network, superino perciò il loro atomismo e si politicizzino nel senso del potere costituente. Gli sembra cioè che il capitalismo sia diventato all’improvviso così idiota da introdurre le innovazioni tecnologiche non più per aumentare l’esercito industriale di riserva e l’asimmetria in suo favore nel mercato del lavoro, ma per aumentare la cooperazione sociale e la soggettivizzazione, in modo da favorire la propria eversione da parte dello spontaneismo dei movimenti di massa. Il risultato di questa assurda fiducia nell’evoluzione tecnologica che non porta con sé una rinnovata esasperazione della concorrenza tra i lavoratori ma la loro cooperazione spontanea nella lotta contro il liberismo è che nella mente di Negri potere costituente e liberismo si confondono. Non è un caso, dunque, che gli fosse piaciuta la costituzione europea che i francesi bocciarono nel 2005.

L’esclusione della sovranità dal potere costituente diviene ancor più chiara. È impossibile oggi definire una forma di potere costituente concepita in termini di trascendenza o “eccezione”. Il sovrano richiede unità – un’unità che è irrimediabilmente rotta dal pluralismo radicale del concetto contemporaneo di potere costituente. Laddove le decisioni sovrane sono sempre vuote poiché il sovrano è separato, sopra la società ed agisce nell’eccezione, il potere costituente oggi è sempre pieno di contenuti sociali al punto di essere eccedente. Per ridefinire il potere costituente, l’eccezione del potere sovrano deve essere rimpiazzata dall’eccesso, cioè dalla natura eccedente della produzione e della cooperazione sociale.

Il sovrano non è separato: egli è tale in forza del consenso, dell’obbedienza spontanea e agisce sempre, nell’ordinario e nell’eccezione. Infatti in politica l’ordinario è sempre anche eccezione; poiché lo Stato è uno Stato sovrano tra Stati sovrani che si rapportano tra loro senza nessun altro criterio che non sia il loro interesse, il rapporto tra Stati è lo stato di natura, quindi una situazione di perenne eccezione. Poiché il sovrano non è separato, le sue decisioni non sono mai vuote; al contrario, poiché non costituisce proprio nulla, il potere costituente non prende nessuna decisione, ma si lascia andare al proprio insulso fluire.

Per concludere, che cosa significa, allora per la moltitudine prendere il potere? Prendere il potere rimane per noi un obiettivo centrale e, come abbiamo cercato di spiegare, non può semplicemente significare il rovesciamento della relazione di dominio e in ultima istanza, mantenere la macchina del potere sovrano semplicemente cambiando colui che siede alla guida. Per una moltitudine prendere il potere è in primo luogo un compito: inventare nuove istituzioni non-sovrane.

Per Negri la moltitudine, politicizzata presumibilmente dai network produttivi, avrebbe un obiettivo centrale, prendere il potere; ma è una presa del potere molto particolare, una presa del potere che abolisce la sovranità del potere, cioè che abolisce il potere
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Attenzione tuttavia. Quando i nostri occhi si fissano sul politico istituzionale e assumono che il popolo (l’elettorato ecc …) abbia le capacità necessarie per organizzare e sostenere programmi a lungo termine o per amministrare collettivamente le istituzioni – insomma, che il popolo sia capace di democrazia – ciò spesso si mostra come un’illusione. … Il solo reale ed effettivo modo per rispondere a queste domande, oggi, è invece quello di spostare la nostra prospettiva dal terreno politico a quello sociale ovvero, per meglio dirlo, di combinare i due. È quanto i movimenti ci indicano. Soltanto allora saremo capaci di riconoscere e di promuovere, attraverso gli estesi circuiti e le capacità di cooperazione e di organizzazione della moltitudine, nuovi processi politici democratici: comprendendo che i talenti della cooperazione sociale sono una solida base dell’organizzazione democratica.

Con uno sprazzo di realismo Negri riconosce che il popolo è incapace di una democrazia così sublime; ma non c’è da disperare: per somma fortuna dei movimenti democratici il capitalismo ha evoluto la tecnologia in modo da sviluppare la cooperazione sociale e da fare loro il favore di educare le moltitudini all’organizzazione democratica. Come diceva Mao, grande è la confusione sotto il cielo; la situazione è eccellente.

Accadde alla società sovietica, nei primi anni ’20 – parzialmente, brevemente – di connettere l’attività costituente radicalmente democratica dei soviet ai processi istituzionali di trasformazione economica e sociale. Per un periodo, la rivoluzione divenne una vera e propria macchina istituente, ovvero, piuttosto, un complesso di istituzioni costituenti. La formula proclamata da Lenin nel 1920: “comunismo = soviet + elettrificazione” combina una forma di organizzazione politica con un programma di sviluppo economico. Il progetto sovietico di sviluppo industriale incontrò in fretta ostacoli insormontabili, dovuti in parte al basso livello di industrializzazione russo e alle insufficienti basi industriali in termini di risorse sociali e culturali della popolazione – per non ricordare l’isolamento internazionale e l’accerchiamento da parte dei Paesi capitalisti.

È stupefacente l’approssimazione storiografica di Negri. Dal 1918 al 1920 la Russia è nel gorgo della guerra civile: i soviet perdono definitivamente ogni potere a vantaggio del partito bolscevico, che certo, con la sua onnipotente polizia segreta, non è una istituzione non sovrana. D’altra parte i soviet non erano affatto movimenti ispirati dal mistico potere costituente, come crede Negri; essi erano consigli rappresentativi degli operai e dei soldati, insomma si fondavano proprio su quella rappresentanza che Negri ha condannato poco sopra. Infine lo sviluppo industriale incontrò ostacoli insormontabili, non per i motivi male abborracciati da Negri, ma perché i bolscevichi, avendo vinto la guerra civile con l’alleanza dei contadini, non potevano spremerne le risorse per mettere insieme i capitali con cui avviarlo. Negri non può trovare esempi storici per illustrare le sue idee; lo rende impossibile la loro inconsistenza.

Ciò nonostante possiamo imparare dalla formula di Lenin la necessità di stringere la coppia “organizzazione politica rivoluzionaria e progetto sociale di trasformazione”.

C’è però una notevole differenza tra i bolscevichi post-rivoluzionari e i movimenti: quelli avevano preso il potere politico e il progetto sociale di trasformazione era uno strumento per rafforzarlo; Negri vorrebbe spacciare per potere costituente il progetto sociale di trasformazione imposto dalle oligarchie liberali proprio mentre il potere politico ed economico è saldamente nelle loro mani. Di nuovo, potere costituente e liberismo si confondono nella sua mente.

[…]
L’impegno di oggi prende chiaramente forma quando sia situato nel quadro dello sviluppo capitalistico. Tra XVIII e XIX secolo – insegna Marx – il centro di gravità e il modo dominante di produzione capitalista è passato dalla manifattura (che fonda essenzialmente sulla divisione di lavoro gli aumenti di produttività) all’industria su larga scala (che aumenta la produttività introducendo macchinari complessi e nuovi schemi di cooperazione). Estendendo la periodizzazione di Marx al XXI secolo, ecco il centro di gravità del capitale spostarsi dall’industria su larga scala alla fase del general intellect – che è produzione basata su circuiti sempre più intensi e larghi di cooperazione sociale, predisposti da algoritmi macchinici come base per estrarre valore dalla produzione e riproduzione della vita sociale. In questa fase la distinzione tra economico e sociale viene progressivamente saturata. Questa démarche è strettamente connessa all’analisi delle trasformazioni del modo di produzione capitalista dalla manifattura (con la sussunzione formale della società e l’estrazione di plusvalore assoluto) alla fase dell’industria su larga scala (con la sussunzione reale della società e l’estrazione di plusvalore relativo) e infine alla fase dell’organizzazione produttiva del general intellect  (con la sussunzione “cognitiva” della società attraverso un’incrementale cooperazione e uno sfruttamento finanziario estrattivo). La produzione e la riproduzione socializzate sono attività biopolitica.
[…]

Negri si avventura di nuovo nel campo della realtà, che gli è radicalmente estraneo. Così mostra di ignorare che la manifattura non è una forma di produzione capitalistica perché si effettua senza separare il lavoratore dal mezzo di produzione: gli operai delle manifatture lavorano con strumenti, non alle macchine; sono artigiani altamente specializzati, non operai proletarizzati che vendono forza-lavoro semplice. Ancora più vacua è la storia del general intellect. Il termine è una tautologia: l’intelletto, come unità del pensiero, è per sua natura generale; la sua spiegazione non arriva a nessuna determinazione, ma si tiene all’insipido quantitativo del ‘più’ intenso e largo. A Negri sfugge ciò che è accaduto: non la fine della grande industria, come egli crede, ma la sua delocalizzazione nelle aree dove più basso è il costo del lavoro e la conservazione in Occidente solo della fase progettuale. Il capitale ha varcato le frontiere per mettere in concorrenza i lavoratori occidentali con i lavoratori orientali e meridionali, e con l’arma della disoccupazione di massa ha distrutto le loro conquiste dei decenni precedenti. Nessuna nuova fase, dunque, solo una sconfitta dei lavoratori occidentali e uno squilibrio economico che ha spinto l’economia mondiale in una delle crisi più gravi della sua storia. Una sconfitta che solo il sovranismo può tentare di rovesciare.



[2] Il testo di Negri è riportato con caratteri di dimensioni più piccole.

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