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lunedì 19 settembre 2016

La rivolta per i compiti a casa (P.Di Remigio)

(Riceviamo e volentieri pubblichiamo un contributo di Paolo Di Remigio sul tema dei compiti a casa, del quale abbiamo parlato qui. M.B.)

Forse il rifiuto di fare i compiti per le vacanze voleva essere un ultimo gesto contro l'autorità della scuola1 – in ogni caso è sprofondato nelle sabbie mobili di una imperturbata tolleranza: la scuola non ha reagito punitivamente; configurata infatti secondo il modello dell'ospizio, come potrebbe scomporsi se un suo cliente non segue delle prescrizioni dettate più dall'abitudine che dalla convinzione? Rifiutarle, anziché essere un atto di coraggiosa rottura, somiglia piuttosto all'accanimento contro un corpo senza vita; e solo per questo trova un'eco nella stampa italiana. Essa infatti sopravvive offrendo ai suoi lettori, anziché informazioni, soddisfazioni occulte dei loro desideri2 e alimentando il sentimento di sé dell'ignoranza; il dilettantismo, l'incapacità di argomentare, l'incolta soggettività che si riduce ad avere se stessa come unico oggetto, possono acquisire nei suoi articoli un'aria di importanza.

Al padre che non ha fatto fare i compiti estivi al figlio perché lo ha impegnato in tante bellissime attività, si poteva obiettare che lo svolgimento di quei compiti non precludeva quello delle bellissime attività, che le lunghe giornate estive offrono tempo per quelli e per queste, che in generale durante le vacanze non solo ci si diverte e riposa, ma ci si lava, si pulisce casa, si cucina come quando si lavora – che insomma il rifiuto è del tutto pretestuoso dal punto di vista pratico. Dietro l'inconsistenza pratica del rifiuto sarebbe allora apparsa una sublime quaestio juris, il principio per cui gli insegnanti devono insegnare ciò che hanno da insegnare nei limiti del tempo-scuola loro concesso, e non devono esorbitare sui pomeriggi e sui giorni di vacanze. In questa prospettiva il lavoro domestico degli alunni appare una corvée imposta dal mancato lavoro scolastico di insegnanti infingardi – un capitolo nel lungo romanzo della corruzione e delle inadempienze dei lavoratori pubblici. È per questo che nel rifiuto dei compiti a casa si avverte un certo tono da denuncia al tribunale amministrativo o almeno quello della rivendicazione sindacale. Toni del tutto fuori luogo: quanto alla rivendicazione sindacale, forse non è superfluo ricordare che essa è legittima per i produttori di ricchezza, per i lavoratori, che gli studenti, benché ugualmente lavoratori, non producono tuttavia ricchezza, che, anzi, la scuola costa alla famiglia e alla collettività, che dunque ogni consegna scolastica non ha nulla a che fare con l'estorsione di lavoro non pagato; quanto alla denuncia del presunto illecito, essa si basa sulla grossolana ignoranza dei fatti elementari della didattica. Innanzitutto, la richiesta di limitare il lavoro scolastico a scuola presuppone la convinzione discutibilissima che questo lavoro non offra strumenti di applicabilità universale, in grado di rendere l'individuo adeguato ai problemi di ogni ambito vitale, che cioè le cose imparate a scuola per principio servano solo a scuola e a null'altro. Se fosse così, allora sarebbe meglio abolire del tutto l'obbligo scolastico – certi ambienti neoliberali non si augurano di meglio. In secondo luogo, il rifiuto di lavorare a casa implica la convinzione che il lavoro senza la presenza dell'insegnante possa e debba essere sostituito dal lavoro con la presenza dell'insegnante. Mentre la prima convinzione equivale al rozzo pregiudizio dell'inutilità del pensiero teorico, la seconda convinzione nasce dai profondi equivoci che dominano la didattica da quando vi è stato importato il modello anglosassone – quello che in ottemperanza all'anarco-liberalismo fa dell'alunno un cliente.

Non è questo il luogo di confutare il rifiuto della teoresi – lo ha già fatto la storia del mondo. Può essere invece utile ricordare che dalla frequenza della scuola l'alunno deve trarre competenze – deve saper parlare, scrivere, capire e risolvere problemi in generale – e che l'insegnante può dare molto ma, disgraziatamente, non le competenze, perché queste non possono essere trasmesse magicamente, ma ognuno se le forma a partire dal proprio lavoro privato e nella misura estensiva (quanto tempo) e intensiva (con quanta accuratezza) in cui lo svolge. Compito della scuola è 1. scegliere, ordinare e illustrare i contenuti scientifici, 2. prescrivere, correggere e valutare le esercitazioni. Si vede subito che l'insegnante è protagonista del primo punto, che lo studente lo è del secondo. Lo svolgimento puntuale del primo, per quanto stimolante e creativo sia stato, equivale a «scrivere sull'acqua», come scrive Hegel nel brano proposto più sotto, se non gli si accompagna lo svolgimento altrettanto puntuale del secondo, che è compito individuale, solitario, dell'alunno. L'insegnante non può imparare al posto dell'alunno, né lo può fare un alunno al posto dell'altro, come accade di solito nei lavori di gruppo; può stimolarlo con la sua scienza e creatività, può obbligarlo con la minaccia delle valutazioni negative – in ogni caso l'alunno diventa competente con il proprio lavoro, esercitandosi.

Il frammento seguente, tratto dal discorso che Hegel in qualità di rettore tenne il 14 settembre 1810 al Ginnasio di Norimberga, contribuirà a sollevare il velo che la pigrizia torna eternamente a stendere sugli elementi di ogni azione didattica.

«Affinché per gli studenti la lezione impartita a scuola diventi fruttuosa, affinché per suo tramite facciano effettivi progressi, la loro diligenza privata è necessaria quanto la stessa lezione … Nulla è più essenziale che perseguire con ogni severità e sottomettere a un regolamento inesorabile il vizio della negligenza, del ritardo o dell'omissione dei lavori, così che la consegna puntuale del compito diventi qualcosa di immancabile come il sorgere del sole. Questi lavori sono importanti non solo perché quanto appreso a scuola si imprima più saldamente con la ripetizione, ma soprattutto perché la gioventù sia condotta, oltre il nudo recepire, all'occupazione attiva, al proprio sforzo. Infatti l'apprendere come nudo recepire e memorizzare è un aspetto molto incompleto dell'istruzione. Viceversa, la tendenza dei giovani a ritrarsi nel proprio punto di vista e a disprezzare l'oggetto è altrettanto unilaterale e va tenuta con cura lontana da essi. Per tutti i primi quattro anni di apprendimento gli allievi di Pitagora dovevano tacere, cioè non avere o manifestare proprie idee e pensieri; infatti il fine principale dell'educazione è che siano estirpati pareri, pensieri e riflessioni che la gioventù può avere e fare, e il modo in cui può farseli da sé; come la volontà, anche il pensiero deve iniziare dall'obbedienza. Se però l'imparare si limitasse a un nudo recepire, l'effetto non sarebbe molto migliore dello scrivere frasi sull'acqua; infatti non il riceverla, ma soltanto l'attività dell'afferrarla e la facoltà di riutilizzarla fanno di una nozione una nostra proprietà. Se invece la tendenza va soprattutto all'affermare la propria superiorità sull'oggetto, nel pensiero non arrivano mai disciplina ed ordine, nella conoscenza non arrivano nesso e coerenza. È dunque necessario che al ricevere sia aggiunto il proprio sforzo, non come un creare inventivo, ma come applicazione dell'appreso, come tentativo di cavarsela per suo tramite con altri casi singoli, con altro materiale concreto. La natura di ciò che si insegana negli istituti scolastici, a partire dalle prime determinazioni grammaticali, non è una serie di fenomeni sensibili, isolati, ciascuno dei quali valga solo per sé e sia soltanto oggetto dell'intuire e del rappresentare o della memoria, ma è in primo luogo una serie di regole, di determinazioni universali, di pensieri e leggi. In questi la gioventù acquisisce subito qualcosa che essa può applicare e un materiale a cui può applicarlo – strumenti e armi per cimentarsi con il singolo, una capacità di venirne a capo. – La natura del materiale e la modalità di istruzione, che non è inculcare una collezione di casi singoli, una folla di parole e locuzioni, ma è un procedere interattivo tra singolo e universale, conferisce all'apprendere … il carattere dello studio …»3.



1 Per i primi gesti cfr. l'interessante intervista rilasciata da Luigi Bobbio e contenuta al minuto 21:20 del seguente filmato http://www.raistoria.rai.it/articoli/litalia-della-repubblica-studenti-e-operai-in-lotta/33654/default.aspx


2 «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili». (Romani 8,26)




3 Il testo che abbiamo tradotto è contenuto in Hegel, Nürnberger und Heidelberger Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1970, pp. 331-333.

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