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lunedì 8 agosto 2016

Democrazia e conoscenza (P.Di Remigio)


(Riceviamo da Paolo Di Remigio e volentieri pubblichiamo questo intervento, già apparso su "Appello al popolo". M.B.)


Democrazia e conoscenza
Paolo Di Remigio

I discorsi abituali sulla politica e sull’uomo riservano valore ai desideri e disprezzo alla realtà fattuale. Poiché ai desideri corrispondono i giudizi di valore, sembra che questi, dopo essere stati distinti dai giudizi di fatto, abbiano la furbizia di predicarsi di se stessi, sembra che di essi si possa dire che valgono proprio perché sono giudizi intorno al valore. Ma una breve riflessione è sufficiente a vedere l'errore e a capire che le cose stanno al rovescio: i desideri espressi dai giudizi di valore sono la sfera irriflessa dell’io, la libertà allo stadio primitivo, soltanto potenziale; la realtà fattuale è l'altro dell'io, il giudizio che la concerne presuppone un io ben più forte di quello desiderante, un io capace di accettarla, di conoscerla e di affrontarla. Così l’io che sopravvaluta i propri desideri fino a farne il proprio oggetto privilegiato e in base ad essi disprezza la realtà fattuale, qualunque essa sia, confessa soltanto la propria debolezza.

Neanche si può ammettere che l'assolutezza del desiderio debba soltanto andare perduta di fronte alla durezza dei fatti. Il concetto di libertà implica un rapporto con la realtà migliore della rassegnazione. Nella filosofia hegeliana la libertà è la sostanza dell'io, come la gravità lo è della materia: questa è il proprio tendere ad annullarsi in un centro ad essa estraneo, quella è il centro del proprio movimento. Questo essere centro di se stessa implica che la libertà – al contrario di quanto è presupposto dal pregiudizio comune – non è compatibile con le barriere; non a caso il carcere è la rappresentazione della sua mancanza. Se però l'uomo fosse soltanto finito, la libertà gli sarebbe estranea ed attribuibile soltanto a Dio. Ma non è così. Innanzitutto, la fedeltà dell'uomo all'assolutezza del desiderio può spingerlo a infrangere le barriere e a realizzare una libertà in forma negativa; e in quanto la sua stessa vita può rappresentare una barriera, l'uomo può addirittura rinunciarvi. La realtà del desiderio assoluto consiste nell'impulso di morte che anima ogni coraggio e che quando diventa esclusivo si traduce in fanatismo.

La libertà ha poi un secondo significato, positivo, balenante in ogni azione riuscita. La libertà che sente se stessa soltanto come infrazione del limite è vuota, soltanto formale, dunque bisognosa di un contenuto estraneo. Se il soggetto è comunque riferito a un oggetto, che sia il nulla o il qualcosa, sembra che si sia ritornati all'inizio, alla constatazione che la libertà sia impossibile per l'uomo. Non è così: l'inizio dal nulla mostra che la libertà è incompatibile con la positività immediata e che la sua stessa positività deve essere considerata una forma di negatività. In questo senso, la libertà è propriamente un risveglio: come il soggetto, in quanto desiderio, ha perduto la sua assolutezza negandosi nell'oggetto, così la recupera in quanto l'oggetto si nega in soggetto. Questo recupero di sé nell'oggetto è la libertà, con tutta l'assolutezza del desiderio, senza la sua distruttività astratta. Ma la conoscenza è proprio questo: scoprire la soggettività nelle cose; in questa scoperta che è insieme un riconoscere, la libertà acquisisce il suo significato più profondo, positivo tramite una doppia negatività. Giudizio di valore e giudizio di fatto, desiderio e conoscenza, anziché essere in opposizione irriducibile, sono nel rapporto di domanda e risposta.

La libertà non è originaria – anzi, essa nella sua originarietà è distruttiva; il suo è un essere risultante dalla mediazione del negativo. Questa difficoltà che le è insita, il fatto che la sua natura sia conoscenza anziché esserle presupposta, si propaga all'intero ambito in cui si realizza, l'ambito dello spirito. Hegel ha detto una volta che alle epoche di felicità corrispondono le pagine bianche del libro della storia; viceversa, la lettura delle sue pagine scritte provoca un brivido d'orrore che spesso costringe il discorso politico a ritrarsi nel desiderio; ma il discorso politico che evita l'orrore della storia e, incapace di sopportarlo, tanto più di ritrovarvisi come conoscenza, vuole restare nondimeno positivo, è costretto a fare del desiderio la cosa stessa e della cosa stessa una parvenza che sembra meritare solo annullamento.

Non solo la cosa gli sembra meritare solo annullamento, la stessa conoscenza storica gli appare una sconvenienza: la taccia di inadeguatezza alla nuova prospettiva aperta dal desiderio. Questo disprezzo non è mai giustificato; anche la concezione più empirica, che non si preoccupa della libertà come essenza dell'uomo, riconosce la conoscenza come potere, come produzione dello strumento con cui il soggetto si sottrae al contatto logorante con l'oggetto e afferma la sua libertà rispetto al mondo delle cose. Il disprezzo della conoscenza nasce dal desiderio di evitare il tormento di un'esperienza da cui l'io, che vorrebbe muoversi tra le sue immagini predilette come se fossero le cose, è costretto ad assumere determinazioni dapprima estranee, a ritornarvi di continuo fino a farle proprie, in altri termini a portarle con sé come cibi indigesti prima di poterle assimilare. Contro la disciplina dell'imparare, con cui potrebbe accedere alla conoscenza e diventare libero, l'io regredisce alla magia. Magia è il presumere l'onnipotenza dell'io ineducato, professare l'onnipotenza del desiderio.

Privi per lo più di accettazione della storia nella sua realtà, i discorsi politici hanno da sempre caratteristiche magiche: sono il trionfo del desiderio incolto, incapace di intendere la natura conoscitiva della libertà, che dall'interesse particolare più o meno consapevole salta direttamente alla sua trasfigurazione in prospettive epocali, perdendosi così nel gioco della casualità. Il desiderio che si difende dalla conoscenza storica con l'utopia, si difende dalla politica con la rappresentazione della liberal-democrazia: da una parte le attribuisce il potere di conoscere e assicurare il bene comune, dall'altra la capacità di determinarlo a partire dai desideri strettamente individuali; che i desideri di una maggioranza di individui, nella loro immediatezza ineducata, abbiano accesso alla conoscenza del bene comune e delle scelte opportune per attuarlo, è pensiero magico.

Mentre il problema di ogni aggregazione umana è come gli individui di cui è composta possano adeguare i loro desideri alla conoscenza del bene comune, cioè adeguare la loro singolarità all'universalità così da realizzarla e realizzarvisi, la liberal-democrazia si ostina a presupporre ogni potere come cattivo, ogni desiderio dei singoli come sacro. Se si riflette che il potere è sempre l'universale, e il desiderio è sempre particolare, ci si accorge subito che si tratta del perfetto rovesciamento della verità; cosa potrebbe essere più evidente del fatto che la cattiveria del potere è il suo diventare strumento della singolarità e che la bontà del singolo è il suo superare il desiderio egoistico così da rispettare l'universale? Già Montesquieu ha visto che la repubblica presuppone individui virtuosi, ossia individui non in preda ai propri impulsi, ma abituati a riconoscere il proprio sé nella libertà universale, per i quali l'osservanza della legge non è un limite ma un vanto. La polis greca ha offerto un modello del genere. Essa fu spazzata via dal sorgere dell'autonomia individuale al tempo dei sofisti: Socrate fu l'esempio più nobile di questo individualismo; e la grande filosofia greca è la comprensione di una ingenuità etica che si era già consegnata al passato; ma ormai nessuna società più della nostra è lontana dall'eticità elementare della Grecia democratica.

Il senso comune moderno, modellato sulla rappresentazione liberal-democratica, concepisce il desiderio individuale come fonte della legittimità del potere; questa concezione, che sembra tributare il massimo omaggio all'individuo, poiché lo concepisce ridotto alla sua immediatezza naturale, ne è in realtà il massimo disonore. Poiché il desiderio individuale è concepito come non mediato con l'universalità, la sua libertà è ridotta a una elezione di contenuti esterni o addirittura di individui, durante la quale una propaganda farsesca lo adula fino al ridicolo per sottolinearne il formalismo puro. Così, da una parte l'art. 67 della Costituzione italiana, secondo cui i rappresentanti degli elettori non li rappresentano come individualità desideranti, ma come Nazione, quindi nella loro universalità, d'altra parte la natura farsesca delle elezioni, che ha ridotto l'espressione degli elettori a un semplice prediligere immotivato, consentono ai rappresentanti la perfetta irresponsabilità nei confronti e dei singoli e della Nazione. In generale, quanto più i rappresentanti vantano di trarre la loro legittimità dai desideri, cioè dall'irrazionale degli individui, tanto più determinano l'oggettivo, l'interesse della Nazione, in modo altrettanto irrazionale; rappresentanti che fanno appello all'individuale restano legati all'individualità nella loro azione; la loro universalità si manifesta non nella disposizione a conoscere il bene comune, ma in quella a tener conto solo dei desideri più vicini all'universalità, cioè di quelli più influenti, sperando che in questi siano contenuti tutti gli altri, sperando che la loro attuazione non porti con sé conseguenze severe o addirittura catastrofiche.

Nasce così il problema di stabilire se la Nazione, l'universale sulla cui base la Costituzione consente la delusione del desiderio individuale e, contro il senso comune liberal-democratico, riduce la rappresentanza da fonte unica a un elemento tra gli altri della legittimità, sia determinabile in modo conoscitivo, dunque libero, oggettivo. La soluzione è questa. L'apertura all'universale ha una precisa condizione, quella di negare il desiderio perché dalle sue ceneri nasca la conoscenza. Proprio questa negazione è il contenuto del concetto di sovranità dello Stato. Essa è negatività esterna, cioè indipendenza dello Stato dalle altre individualità statali, ed è negatività interna, Costituzione, ossia l'architettonica del potere per cui esso acquisisce una propria individualità in cui tutte le individualità immediate, desideranti, sono abbassate a membri ed elevate a cittadini. La sovranità statale dunque è condizione necessaria del bene comune e della democrazia effettiva: soltanto se lo Stato ha assunto la sua individualità, è spezzata la pretesa di onnipotenza dei desideri individuali che così possono aprirsi alla conoscenza e alla libertà; senza sovranità statale non c'è libertà pubblica, ma dispotismo del desiderio più forte e non per questo meno cieco, appena mascherato a scadenza periodica dalla democrazia solo formale.

Tutto questo dà la misura della profonda abiezione della politica italiana. Stordita da un cosmopolitismo posticcio, essa rinuncia alla sovranità esterna prostrando lo Stato ad ogni sorta di vassallaggio verso altri Stati; vanifica l'architettura costituzionale permettendo il costituirsi dell'indipendenza del potere finanziario, e la sfigura accettandone i suggerimenti. Non è un caso che i suoi rappresentanti parlino sempre e soltanto di desideri e si aspettino che una magia impedisca le conseguenze catastrofiche delle loro scelte; non è un caso che si allontanino sempre più da una realtà su cui nessuno può più farsi illusioni.

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