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domenica 18 ottobre 2015

Uno sguardo all'indietro/2

Seconda parte di un articolo del 2003, scritto da me, Massimo Bontempelli e Federico Dinucci. La prima parte è stata pubblicata ieri.
(M.B.)




Totalità dialettica. Passiamo adesso a questioni apparentemente meno "concrete", ma a nostro giudizio di grande importanza. Si tratta di tematiche che potremmo definire "filosofiche" e che hanno a che fare con quel bisogno di una nuova cultura al quale accennavamo poco fa. È a questo livello che le nostre posizioni divergono maggiormente rispetto al marxismo. Fino a questo momento le nostre posizioni possono apparire quelle di una delle tante forme di marxismo critico ed eterodosso, ma a partire da questa voce crediamo risulterà chiara una presa di distanza dal marxismo e dal materialismo, comunque vengano declinati.
Decenni di cultura storicistica e marxista ci hanno condotto a identificare la totalità dialettica con la storia. La storia appariva, entro questa cultura, come la realtà ultima e definitiva oltre la quale non è possibile nessuna istanza conoscitiva o morale. Ma poiché la storia è il regno del mutamento, la conoscenza e la morale, il vero e il bene apparivano essi stessi cangianti e mobili, e all’essere umano veniva negato ogni fondamento metafisico al quale ancorare la propria vita. Giudichiamo questa impostazione culturale un errore che sfocia in un sostanziale nichilismo (per il quale si veda la prossima voce).
Per “totalità dialettica” intendiamo quell’orizzonte metafisico che alla storia fa da contesto, pur rimanendone distinto. La totalità dialettica è la struttura trascendentale della storia: possiamo vederla all’opera nella storia, ma non è essa stessa storica. Detto in una battuta: se la storia è il regno del divenire, la totalità dialettica (oggetto del sapere filosofico) è invece il regno dell’immutabile. Se ogni cosa mutasse e nulla (nemmeno l’orizzonte) rimanesse fermo allora neppure il mutamento sarebbe percepibile. La stessa coscienza del nostro “stare nella storia” presuppone l’esistenza di un orizzonte immutabile rispetto al quale ciò che si muove possa stagliarsi1.
Da tali considerazioni discendono alcune conseguenze palesemente in contrasto con ogni forma di storicismo. Primo, accanto (e per certi versi al di sopra) dei saperi transeunti (scientifici, tecnici e pratici) esiste un sapere assoluto. Ovviamente il fatto che esista un sapere assoluto non significa automaticamente che tale sapere sia completamente attingibile e dominabile, e neppure che esso sia un contenuto dato una volta per tutte, una formula magica il cui possesso garantisca dall’errore. Il sapere assoluto si costruisce, in ogni momento storico, nel dialogo e nella critica reciproca (si veda alla voce Ragione e Scienza). Il punto fondamentale per noi è che dialogo e critica hanno senso solo se si mantengono fissi l’orizzonte trascendentale e la tensione al sapere assoluto; tolti questi, dialogo e critica degenerano nella chiacchiera insulsa e vuota tipica del mondo intellettuale contemporaneo.
Secondo, se esiste un sapere assoluto esiste anche la verità assoluta (o almeno la sua possibilità).
Terzo, nessun sapere transeunte potrà mai acquisire piena coscienza del proprio carattere storico (esorcizzando così l’angoscia del divenire) se non in stretto dialogo con il sapere assoluto.
Queste nostre posizioni teoriche ci collocano fuori dalla tradizione marxista e dentro quella tradizione idealistico-dialettica che vede i suoi principali (anche se non unici) punti di riferimento in Eraclito, Platone, Plotino ed Hegel. È in questa tradizione che crediamo vada cercato un antidoto al nichilismo delle moderne società capitalistiche.




Nichilismo. Definiamo nichilismo la tesi filosofica secondo la quale non vi può essere conoscenza dell’immutabile, non vi può essere sapere dell’assoluto. Si tratta di una posizione che permea la totalità della cultura contemporanea. Al punto da poter affermare che il nichilismo non è, oggi, una filosofia particolare fra le altre, magari più diffusa delle altre, ma è piuttosto l’orizzonte culturale e antropologico del nostro tempo. Il marxismo non ha naturalmente alcuno strumento per combattere tale nichilismo: il suo ridurre l’essere umano alle strutture sociali, quindi a realtà storiche e transeunti, mostra come esso sia totalmente interno all’orizzonte nichilista del nostro tempo (come il filosofo Emanuele Severino ha fatto giustamente notare).
Il nucleo fondamentale di questo nichilismo è il rifiuto dell’idea di una verità essenziale dell’essere umano raggiungibile dall’indagine razionale. Poiché tale idea è ciò che ha caratterizzato la filosofia occidentale da Parmenide a Hegel, il nichilismo contemporaneo si pone coscientemente, nelle versioni colte, come antifilosofia. Ma è importante capire che questa realtà culturale non è materia di dibattito accademico. Il nichilismo del mondo contemporaneo è solo l’aspetto culturale della dominanza planetaria dell’economia capitalistica e del suo modello di sviluppo, anzi, a voler essere più precisi il nichilismo non è nemmeno un fenomeno culturale, bensì quell’effetto distruttivo e dissolutivo che il capitalismo maturo esercita su ogni tipo di cultura.
Nel momento in cui il profitto diviene il fine assoluto della vita sociale, nel momento in cui la sfera dell’economia si fa totalizzante e non lascia più sussistere altre istanze sociali che possano intralciarla o controllarla, il nichilismo si manifesta come dissoluzione di ogni progettualità ideale, come fine di ogni identità stabile, come riduzione di ogni forma di relazione umana alla competizione egoistica, come distruzione di ogni interiorità dell’essere umano, ridotto a funzionario della tecnica finalizzata al profitto. Ma in tal modo la vita umana viene ferita e depauperata delle dimensioni che le sono più proprie (affettive, spirituali, identitarie, etc.).
Queste lesioni sono però chiaramente visibili solo ad uno sguardo preparato a cogliere appunto quelle dimensioni dell’essere umano non riducibili alla logica capitalistica. Oggi gli esseri umani mostrano allo sguardo superficiale dell’empirista unicamente quei tratti che il sistema sociale dominante ha impresso in loro. Solo il riferimento ad una verità dell’essere umano non riducibile all’apparenza permette di oltrepassare quegli aspetti superficiali per cogliere le ferite causate dalla riduzione dell’individuo a funzionario della tecnica. Solo una presa di coscienza filosofica del fatto che la verità dell’essere umano sta al di fuori della logica del profitto e della merce può dare un saldo fondamento al rifiuto emotivo delle tante storture ed assurdità che il mondo contemporaneo genera. Il nichilismo, la negazione della verità dell’essere umano, è esattamente lo strumento intellettuale volto a distruggere la possibilità di una simile presa di coscienza, e quindi la possibilità che il disagio e il malessere che molti percepiscono possano coagularsi in un nuovo modo di pensare se stessi e il mondo.
Una lotta cosciente contro le ideologie nichilistiche che pervadono quasi ogni momento della produzione intellettuale dei paesi occidentali è dunque un aspetto essenziale della lotta contro il totalitarismo neoliberista contemporaneo. Purtroppo è proprio da questo punto di vista che molti degli attuali movimenti “anticapitalistici” (di destra come di centro o di sinistra) mostrano i loro limiti strutturali. Certo, tali movimenti possono svolgere nel breve periodo un ruolo positivo, ad esempio contrastando l’aggressività del capitalismo e delle forze politiche che lo promuovono, oppure semplicemente mantenendo aperto uno spazio di dibattito in cui vengano criticate le ideologie dominanti del profitto e del mercato. Ci pare quindi sensata l’idea che si possa collaborare su singole questioni con questi movimenti nel contrastare le dinamiche capitalistiche, e si può forse (ma ci sembra difficile) tentare di inserire temi di analisi come quelli sopra proposti negli spazi di discussione che questi movimenti aprono. Siamo però dell’opinione che non vi sia per tali movimenti la possibilità di porre le basi di un mondo diverso da quello attuale, perché le loro culture di riferimento sono del tutto interne all'orizzonte nichilistico di quel capitalismo che vorrebbero combattere. L'anticapitalismo di destra cerca rifugio nella costruzione di nuovi miti e nel richiamo a tradizioni che si rivelano artificiose ed effimere. L'anticapitalismo di centro appare più solido, ma sconta i limiti di ogni posizione che si richiami a valori trascendenti. L'anticapitalismo di sinistra pratica invece una cultura avanguardistica, iconoclasta e trasgressiva, che si rivela come una forma di ipernichilismo2. In ogni caso non si esce dalla gabbia d'acciaio, o meglio dalla gabbia di gomma del nichilismo. Se a ciò aggiungiamo che molti dirigenti di movimento oscillano fra uno sciocco estremismo verbale e la collaborazione con il centro-destra o con il centro-sinistra risulta chiaro perché non si possa riporre in loro eccessive speranze.


Ragione e Scienza. Contrastare il nichilismo in nome della verità dell’essere umano fa tutt’uno, per noi, con la scelta della razionalità come valore primario. Non si tratta però della razionalità tecnico-scientifica, che appare oggi l’unica razionalità possibile. La ragione tecnico-scientifica ha sicuramente un suo ruolo e un suo valore, ma nel mondo attuale essa sembra invadere ogni ambito umano e porsi come l’unico giudice di ciò che è sensato e di ciò che non lo è. Questa invasione rappresenta una stortura profonda rispetto alla realtà dell’essere umano, stortura che non è generata da una logica intrinseca al mondo della cultura ma da dinamiche sociali più ampie: è in quanto strumento privilegiato del dominio capitalistico sul mondo che la razionalità tecnico-scientifica ha ottenuto oggi una tale posizione dominante.
La ragione tecnico-scientifica cerca di comprendere la realtà nel senso di rispondere alla domanda “come funziona?”, o anche “come posso farlo funzionare diversamente, in modo che risulti vantaggioso per me?”. La razionalità che per noi è centrale, al contrario, è quell’attività che cerca di comprendere i significati delle realtà umane che ci circondano, è l’attività che cerca di rispondere alla domanda “cosa mi dice?”, “cosa significa?”. Il fatto che sia possibile una tale indagine razionale sui fondamentali valori della vita umana, sui significati che formano l’essere umano, è ciò che viene negato dalla cultura contemporanea (vedi quanto detto sotto Nichilismo) Questa ideologia contemporanea, che nega la possibilità di un’indagine razionale su significati e valori e riduce arbitrariamente la razionalità alla razionalità tecnico-scientifica, è in realtà condivisa anche da buona parte di coloro che ad essa vorrebbero opporsi. Infatti chi trasforma la critica alla razionalità scientifica in critica alla ragione tout court mostra appunto di condividere l’idea dominante che la razionalità tecnico-scientifica sia l’unica forma possibile di razionalità3. Per fare un esempio terra terra, modellato sul tipo di discussioni che possono capitare a tutti nella vita quotidiana, chi critica la razionalità ricordando che l’essere umano non è fatto solo di ragione ma anche di affettività, spiritualità e quant’altro, commette due errori, pur esprimendo un’esigenza condivisibile: da una parte aderisce a una idea di razionalità che la pensa appunto separata e contrapposta rispetto alle altre sfere dell’umano, dall’altra non si rende conto che la sua è pur sempre un’obiezione razionale; se davvero, come tutti pensiamo, vi sono altre sfere e dimensioni dell’essere umano rilevanti oltre a quella di una razionalità astratta, allora riconoscere a tali sfere l’importanza che di fatto hanno è semplicemente razionale.
Chi rivendica il valore della ragione e della verità si espone oggi a vari tipi di critiche: il più diffuso è probabilmente quello secondo cui ragione e verità non hanno mai valore universale, sono sempre ragione e verità di un singolo, di un gruppo sociale, di una cultura, e dare ad esse valore assoluto significa prevaricare altri gruppi sociali o altre culture, significa distruggere la ricchezza multiforme delle ragioni per imporre l’uniformità totalitaria di un’unica ragione. Si tratta di obiezioni che riflettono il nichilismo e il relativismo oggi dominanti, e che sembrano avere qualche validità solo nei confronti di un’immagine estremamente piatta e riduttiva della ragione umana. Per noi la ragione è l’attività nella quale gli esseri umani tentano di comprendersi l’un l’altro e di elaborare significati e valori comuni. Nel momento in cui io comprendo e faccio mio ciò che l’altro mi dice, ed egli comprende me, in quel momento abbiamo elaborato un significato comune, quindi davvero razionale, e abbiamo esteso l’ambito della ragione umana, ponendo le basi per una comunità di egualmente liberi4. Ma finché rimaniamo prigionieri del nichilismo saremo condannati ad una condizione di perenne alienazione.


Alienazione. Ogni specifica società, ogni specifico modo di produzione valorizza alcuni aspetti della totalità dialettica a scapito di altri. Se gli esseri umani fossero completamente storici, plasmati in tutto e per tutto dai contesti sociali entro i quali nascono e si sviluppano, non avrebbero alcuna possibilità di percepire questo costante scollamento tra totalità dialettica e storia (e in tal caso, naturalmente, non avrebbe nemmeno senso parlare di Totalità o Assoluto). Ma la coscienza umana è duplice: da un lato vive nel flusso vorticoso del divenire, dall’altro contempla l’Assoluto. Per questo gli esseri umani vivono in uno stato di perenne alienazione: la loro mente contempla il modello ideale (o almeno la sua possibilità), mentre i loro sensi vivono quotidianamente la distorsione (e talvolta la negazione) di quel modello entro l’esperienza storicamente determinata: ecco ciò che definiamo – in termini generali – alienazione.
Ovviamente, poiché ogni singola congiuntura culturale ha una propria struttura caratteristica, una modalità precisa di divergere dalla totalità dialettica, l’alienazione possiede innumerevoli forme.
Abbiamo spiegato sopra alcuni tratti generali dell’alienazione capitalistica. Alle componenti costanti di tale alienazione dobbiamo però aggiungere l’ulteriore distorsione dovuta alla fase di decadenza. Osservando la decadenza attuale e quella della società antica notiamo una serie di tratti culturali comuni: eclettismo, estetismo, gusto per lo spettacolare fine a se stesso, assenza di prospettive realistiche per il futuro, infatuazioni momentanee per visioni salvifiche, magari basate sulla scienza, ritiro nella sfera privata. Queste analogie culturali, assieme all’evidente mancanza di forze sociali in grado di elaborare modi di vivere e produrre diversi da quelli che l’economia capitalistica oggi impone all’intero pianeta, ci fanno temere, come dicevamo sopra, che il modello di crisi futura del mondo capitalistico sia quello “distruttivo” della fine del mondo antico, piuttosto che quello “creativo” della fine dell’Ancien Régime.
Per tentare di cambiare questa situazione, che ci induce al pessimismo, dobbiamo contrapporre, alla cultura della decadenza capitalistica, una cultura di altro tipo, una cultura che probabilmente non raggiungerà le “masse”, ma costituirà comunque una piccola luce nell’oscurità dilagante, il filo di una tradizione che forse, in futuro, forze politiche e sociali oggi sconosciute potranno far propria in modo rivoluzionario.


Rivoluzione. Definiamo “rivoluzione intermodale” quel processo politico, culturale ed economico che muta il modo di produzione fondamentale di una certa società. Tale processo necessita di un lungo periodo di incubazione e non può assolutamente essere il frutto di un mero atto volontaristico.
La rivoluzione (sia essa un compromesso con le forze dominanti dell’epoca precedente o una radicale rottura dell’ordine costituito) diviene possibile entro l’avanzata fase di decadenza di un società, quando nuovi rapporti sociali ed economici si sono già sviluppati negli interstizi della società precedente e nuove classi sociali sono arrivate a esprimere gruppi dotati di capacità politiche adeguate. Ciò significa che oggi (e probabilmente per un lungo periodo ancora) la rivoluzione non è all’ordine del giorno. La maggior parte delle società capitalistiche non ha ancora cominciato a percorrere il sentiero del declino e i tratti dei nuovi rapporti sociali non si sono ancora delineati. Mancano dunque quelle condizioni oggettive a partire dalle quali una volontà rivoluzionaria possa farsi portatrice di nuovi ideali di liberazione e uguaglianza.
Per tale motivo quei partiti e movimenti che vedono la rivoluzione dietro l’angolo finiscono per condurre una politica di piccolo cabotaggio, proprio perché la rivoluzione non arriva e, nel frattempo, “si deve pur fare qualcosa”. La recente infatuazione di Rifondazione per il movimento no/new global e per l’ultima fantateoria di Antonio Negri ne è un chiaro esempio.


Che fare? Che fare qui e ora? L’idea di organizzare politicamente il proletariato per affrontare la sfida di una rivoluzione imminente deve essere abbandonata. Il proletariato non è una classe capace di cambiare i rapporti sociali fondamentali e la rivoluzione non è imminente. Non dubitiamo che, prima o poi, verrà il momento in cui soggetti rivoluzionari si organizzeranno politicamente per rispondere alle sfide di una società in sfacelo, traducendo in ideali dirompenti le esigenze poste dallo sviluppo di nuovi rapporti sociali ed economici. Ma quel momento è ancora lontano.
Oggi la nostra prospettiva di intervento non può essere di natura politica, né tantomeno socio-economica, ma solo cultural-valoriale e antropologica. Il nostro compito, passateci l’espressione pomposa, è quello di far sopravvivere una serie di ideali e valori, nonché quello di affinare gli strumenti teoretici di analisi della situazione esistente, promuovendo un “tipo umano” estraneo all’orizzonte nichilistico del capitalismo. La forza di tale prospettiva sta tutta nella sua capacità di sedimentare una cultura anticapitalistica che, per quanto poco diffusa, si dimostri valida e capace di attrarre le piccole minoranze insoddisfatte dai vari conformismi, di destra, di centro e di sinistra, che oggi dominano la scena.
Prima di congedarci ci teniamo però a fare chiarezza su due punti. Primo, la nostra proposta non vuole essere un congedo ascetico dai mali e dalle brutture della società “demoniaca” del capitalismo e della tecnica. Vogliamo al contrario rimanere con i piedi piantati per terra, contrastando nel nostro piccolo gli effetti pratici ed i fondamenti ideologici delle storture che abbiamo analizzato nelle voci precedenti. Secondo, la natura cultural-valoriale della nostra proposta non esclude, ma anzi auspica (e in un certo senso richiede) una ricaduta politica, nel senso nobile e altamente progettuale che questo termine ha avuto (e che oggi non ha più).


1 Sta qui la palese inconsistenza delle posizioni relativiste. Chi afferma che “non esistono verità assolute” si autocontraddice. Se ha torto, ha torto. Se ha ragione, allora almeno una verità assoluta esiste (appunto quella che non esistono verità), quindi ha torto. In ogni caso ha torto.


2 Il carattere ipernichilistico dei movimenti di sinistra risulta chiaro non appena si analizza la cultura di riferimento e il decorso politico-professionale della generazione del '68 (e del '77). Dai creativi del movimento sono nati i nostri pubblicitari, dai piccoli e grandi leader molti degli attuali imprenditori e politici, dagli intellettuali i nuovi baroni universitari e i leader d’opinione dei media.


3 Stiamo pensando qui, per esempio, a certe posizioni alla Feyerabend, o derivate in qualche modo dai filoni più critici dell’epistemologia contemporanea.


4 Pur essendoci distaccati dalla cultura marxista conserviamo il riferimento ad una forma ideale di convivenza sociale (la comunità di liberi ed eguali), anche se non riteniamo opportuno chiamarla "comunismo". La parola comunismo è infatti irrimediabilmente associata alla parabola del socialismo reale e sopravvive oggi solo come variante estrema di quella sinistra dalla quale vogliamo in ogni caso congedarci.

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