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mercoledì 22 luglio 2015

Un intervento di Mimmo Porcaro

Riceviamo da Mimmo Porcaro, e volentieri pubblichiamo, l'intervento che segue. E' già stato pubblicato su a/simmetrie.
(M.B.)


Mimmo Porcaro


Discutendo, dopo Atene, di CLN e Costituzione…


I fatti di Grecia, di cui converrà parlare meglio altrove, lasciano intatte solo le opinioni degli europeisti dogmatici, ma per il resto mutano lo scenario, accelerano la possibile crisi politica dell’Ue e fanno da spartiacque per tutti. D’ora in poi qualunque forza politica che non si proponga (e proprio come “Piano A”) l’obiettivo strategico del superamento dell’Unione e dell’euro sarà, e senza più scusanti, una forza conservatrice quando non reazionaria: in ogni caso sarà una forza irresponsabile. E d’ora in poi chiunque abbia le idee chiare sull’Unione e sull’euro e ciononostante non si ponga il problema della costruzione di una politica altrettanto chiara, mostrerà di non essere all’altezza delle proprie migliori intuizioni.

Non corre questo rischio lo scritto di Magoni, Dal Monte e Boghetta Il male della banalità: la sinistra nell’epoca del sogno europeo, che si caratterizza proprio per la chiarezza e la consequenzialità della proposta politica: di fronte al nesso inscindibile tra neoliberismo e perdita della sovranità nazionale (così funziona l’Unione europea, almeno nei confronti dei paesi meno forti) si rivendica di fatto un’ alleanza sociale e politica per il ripristino della sovranità, ovvero della democrazia e della Costituzione: un’alleanza assai ampia tra classi diverse e tra orientamenti politici abitualmente divergenti finalizzata al ripristino della democrazia e di una politica economica di piena occupazione.


In buona misura, concordo. Porre, come fanno i tre autori, il nesso sovranità/democrazia/costituzione depotenzia subito la polemica antisovranista che vede nella sovranità, appunto, un moloch che spadroneggia dentro e fuori i confini dello stato: la sovranità invece, nella proposta che stiamo discutendo, non è il fondamento d’una politica assoluta bensì, più sobriamente, è una delle condizioni imprescindibili dell’esistenza della democrazia. Se sovranità e costituzione sono state a lungo antitetiche (perché la seconda nasceva proprio per limitare le pretese della prima), oggi ci è chiaro che senza un minimo di sovranità nazionale nessuna costituzione ha senso: gli sfregi imposti dall’Ue alla nostra Carta fondamentale parlano da soli. So che la difesa ed il ripristino della Costituzione appaiono a molti un obiettivo arretrato e forse inutile. In fondo l’esistenza della Costituzione non ha impedito lo scempio attuale; inoltre essa andrebbe certamente riscritta togliendo ai partiti il monopolio dell’azione politica, o tutelando meglio di prima l’esistenza della proprietà pubblica e di altre forme non privatistiche di proprietà. Eppure, alcuni aspetti fondamentali della logica costituzionale coincidono con quanto è oggi necessario all’Italia per riprendere il cammino della democrazia, e ai lavoratori per riconquistare autonomia politica: in particolare l’idea di uno stato fondato su un compromesso tra classi distinte (e libere di organizzarsi autonomamente), unite da una prospettiva di piena occupazione nel quadro di un’economia mista. Un compromesso aperto a diversi sviluppi dinamici in cui si confrontavano – ed oggi possono di nuovo confrontarsi – un’ipotesi di capitalismo democratico ed una di socialismo costituzionale. Negli anni ’70 tutto ciò ci parve arretrato, e forse lo era. Oggi, visto il volto ferocemente anticostituzionale del liberismo, una qualche riedizione di quel compromesso mi pare l’unico modo per ridare dignità al lavoro ed al paese, gestire la non facile liberazione dal giogo eurista e riaprire, addirittura, una prospettiva socialista. E per costruire una forma di identificazione collettiva che non si basi, tragicamente su sul sangue e sul suolo, ma sul riferimento ad una civiltà politica.


Per rendere efficace una simile ipotesi è però assolutamente necessario rendersi conto delle sue difficoltà. Io mi limito ad indicarne due, quelle che reputo più importanti, o meno considerate. Prima di tutto è assai arduo costruire l’alleanza sociale che può dare sostanza a una tale proposta politica. Nessuna delle classi più importanti del nostro paese sembra infatti oggi in grado di guardare oltre i propri interessi immediati (o, per dirla con Gramsci, di elaborare in forma egemonica il proprio particolare punto di vista), né i partiti che in qualche modo le rappresentano (privi ormai di qualunque autorità morale e quindi costretti a riguadagnarsi ogni giorno la fiducia degli elettori blandendoli in tutti i modi) sembrano porsi questo problema. Si può pensare che la riconquista del controllo della banca centrale da parte del governo e del parlamento, e le conseguenti politiche espansive, ridurranno la conflittualità “in seno al popolo”, ma questo non risolverà le difficoltà dell’alleanza. Difficoltà che ruoteranno da un lato attorno all’irrisolta questione fiscale (dove si dovrà trovare un punto d’incontro tra le sacrosante esigenze di equità del lavoro dipendente e la realtà non aggirabile dell’evasione “di sopravvivenza”) e dall’altro attorno alla questione dell’ammodernamento del sistema produttivo e dello stato, un ammodernamento che richiederà un’oculata redistribuzione delle risorse e quindi inevitabili conflitti. Ci vorrà molta testa, insomma, per pensare ad un programma realmente unitario, realmente “nazionale e popolare”, per superare decenni di diffidenze, spesso motivate, tra lavoratori dipendenti ed autonomi, tra organizzati e disorganizzati, qualificati e no, italiani e no. Questo sarà un nodo davvero importante, tanto che la costruzione del gruppo dirigente di un progetto neo-costituzionale dovrà già essere, in sedicesimo, la realizzazione di un’alleanza popolare tra esponenti d’avanguardia di diverse classi e frazioni di classe.


Una forte alleanza popolare è necessaria sia per sconfiggere gli avversari interni sia per gestire le conseguenza della rottura delle alleanze internazionali che segnano da più di 70 anni il destino del nostro paese, rottura inevitabile in caso di successo dell’ipotesi che qui discutiamo. Il capitalismo nordatlantico, di cui siamo alleati subalterni, non sopporta infatti la sovranità nazionale (ad eccezione di quella statunitense e, in subordine, tedesca e francese), né sopporta le costituzioni. La sostituzione della democrazia (che peraltro, nella sua forma data aveva già registrato gravi debolezze) con una governance opaca nella quale vincono i paesi e i capitali più forti, sostituzione iniziata con l’Ue, sarà presto perfezionata dalla TTIP, ed a quel punto ogni autonoma politica nazionale diverrebbe impossibile finanche nell’ipotesi di un’uscita dall’euro che non prevedesse, in aggiunta, un superamento del rapporto subalterno con gli Usa. Non è quindi possibile riscattare il paese e difendere i suoi lavoratori se non ci si distacca dal polo capitalistico nordatlantico che è la realizzazione geopolitica del liberismo. Non è possibile farlo se non si stabilisce una forte relazione coi paesi dell’area mediterranea, se non si apre – senza servilismi – ai Brics e se non si rilancia, sulle ceneri dell’Ue, l’idea di un’Europa unita prima di tutto da un progetto politico di equilibrio fra i blocchi e poi da un progetto economico alternativo a quello presente. Insomma: riverire il capitalismo nordatlantico non ci darà più, in cambio, né qualcosa di simile al “boom” né una riedizione dello sviluppo drogato degli anni ’80, ma soltanto il continuo regresso dell’apparato industriale del paese, e contemporaneamente, del suo ruolo nel Mediterraneo. Chi vuole questo può acconciarsi a vivacchiare, se il succedersi delle crisi glielo consentirà. Chi non lo vuole deve sapere che il mutamento della collocazione geopolitica implica anche una mutazione profonda nelle abitudini mentali e nella cultura politica italiana, tale da consentirci di gestire, con nettezza strategica e duttilità tattica, uno scontro con gli amici di ieri. Siamo consapevoli di tutto ciò? Questo è il problema numero uno, perché è qui che si situa veramente la questione della forza e del potere, è qui che bisogna riuscire a vincere e ad evitare conseguenza “greche” (se non peggio) per tutti noi. E proprio per questo, e quindi non solo per motivi economici, è necessario aggiungere all’alleanza sociale interna al paese l’alleanza internazionale nel Mediterraneo ed oltre. Questo è il problema numero uno, ripeto: l’incrollabile e folle europeismo della sinistra è spiegabile in gran parte proprio con la sorda consapevolezza delle conseguenze e delle implicazioni geopolitiche di una rottura con l’Ue, conseguenze ed implicazioni da cui si rifugge senza capire che una sinistra vera può essere ricostruita solo all’interno di una tale rottura. Una futura, più dignitosa forza politica non potrebbe certo fondarsi su una analoga rimozione.


Concludo introducendo un ultimo punto. Lo scritto dei nostri interlocutori parla espressamente di CLN. Il CLN del passato fu convergenza di forze politiche preesistenti; quello del futuro sarà analogo, oppure l’assenza di precedenti (e forti) soggetti politici farà sì che esso si costituisca da subito come partito unitario, pur se inevitabilmente attraversato da correnti? Il problema non è di poco conto, e bisogna pensarci da subito…ma se potessimo già discutere concretamente di questo saremmo già ad un punto molto avanzato. E purtroppo non ci siamo ancora.









sabato 18 luglio 2015

Lettera aperta agli amici sonnambuli


Marino Badiale, Fabrizio Tringali



È evidente a tutti che la fine drammatica dell'esperienza del governo Syriza è uno spartiacque. Essa infatti rappresenta la verifica concreta, l'experimentum crucis che decide se una strategia politica sia valida oppure no. Non è difficile, se si ha onestà intellettuale, trarne le necessarie conseguenze. Proviamo a farlo in questa lettera aperta. Gli “amici sonnambuli” ai quali è indirizzata sono le tante persone del mondo “antisistemico” che in questi anni hanno protestato contro le politiche autoritarie e di austerità dei ceti dominanti, rifiutando però di porre la questione politica dell'uscita dell'Italia dal sistema euro/UE. La proposta dell'uscita veniva tacciata in questi ambienti di “nazionalismo”, e contro di essa veniva evocata la necessità della lotta unitaria dei ceti popolari europei.
Speriamo che la triste vicenda greca serva almeno a favorire un'ampia presa di coscienza su quali siano i nodi politici reali da affrontare in questo momento storico, se non si vuole soccombere.


Cerchiamo di riassumere i punti fondamentali della questione.


1. Il sistema euro/UE è irriformabile.
La strategia di Tsipras era quella di lottare, all'interno del sistema euro/UE, per strappare un compromesso avanzato, che permettesse al suo governo di porre fine alle politiche di austerità. Questa strategia è stata completamente sconfitta, tanto da essere accantonata dal governo greco ben prima dell'indizione del referendum, il quale è stato convocato solo per ottenere dalle istituzioni europee una qualche disponibilità alla ristrutturazione del debito.
Non ha alcun senso, quindi, pensare di riproporre una simile strategia, perché non è possibile ottenere alcun allentamento dell'austerità all'interno del sistema dell'euro/UE.
Le ragioni sono molte e ne abbiamo scritto molte volte. Ci limitiamo qui a sottolineare il fatto che sarebbe estremamente ingenuo pensare che sia impossibile cambiare le politiche europee solo perché le forze di sinistra non hanno abbastanza potere. E che, quindi, una vittoria delle sinistre in paesi forti come la Germania consentirebbe di rendere possibile ciò che oggi non si riesce a fare. Per smentire questa tesi è sufficiente vedere quale è stato, in queste settimane, l'atteggiamento della SPD tedesca, così come quello di Martin Schultz.
Così come non esiste possibilità che le oligarchie europee cambino le loro politiche, allo stesso modo è impensabile che esse possano essere messe in discussione tramite lotte popolari europee, come continuano a ripetere i sonnambuli, che per continuare a sognare “l'Europa dei popoli” devono necessariamente tenere gli occhi chiusi davanti alla realtà.
Anche su questo, infatti, le recenti vicende greche hanno dato una risposto molto netta. Veniamo così al secondo punto.

2. Non c'è nessuna solidarietà fra i popoli europei.
Nella sua lotta disperata, Atene è rimasta sola. Non c'è stata negli altri paesi europei nessuna iniziativa di solidarietà con la Grecia che sia stata significativa, capace di incidere. Possiamo invece facilmente immaginare cosa sarebbe successo se i popoli dei paesi creditori avessero potuto esprimersi sulle condizioni da imporre alla Grecia.
Aspettarsi che i popoli europei, che nel corso di questa lunghissima crisi non hanno finora mai manifestato una capacità di azione comune, possano camminare insieme nel prossimo futuro, significa fare una irresponsabile scommessa sulla pelle dei popoli stessi.
Al contrario, grazie al sistema euro/UE, i ceti dominanti europei sono più uniti e coordinati di prima (pur nei loro ineliminabili conflitti reciproci). Cosicché essi riescono a concentrare una enorme “potenza di fuoco” (UE, BCE, FMI) contro il popolo del paese che di volta in volta è bersaglio (la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l'Italia etc..) mentre quest'ultimo è solo, impotente.
Scegliere, come dicono i sonnambuli, il piano europeo come il piano della lotta, è un vero suicidio, perché su quel piano i popoli sono divisi e resteranno tali, mentre le oligarchie possono facilmente unire le forze. È soprattutto per questo che il progetto di un'Europa federale è da respingere, prima che per la sua difficoltà di realizzazione: perché se anche venisse realizzato, sarebbe non un sogno ma un incubo, l'incubo del dominio pieno delle oligarchie unificate su popoli divisi, deboli, costretti a cedere ai ricatti, come hanno dovuto cedere i greci.
Il piano della lotta deve quindi essere necessariamente quello nazionale. Questo non esclude affatto alleanze con le forze antisistemiche di altri paesi. Ma noi dobbiamo iniziare la nostra lotta in Italia, parlando al popolo italiano. Se e quando negli altri paesi si svilupperanno lotte analoghe, si cercherà di costruire collegamenti con esse.

3. L'inevitabile uscita dall'euro e dalla UE.
Nelle interviste rilasciate dopo il suo abbandono del governo, Varoufakis ha rivelato che una volta compreso che la strategia del governo non avrebbe condotto a nulla, aveva cominciato a progettare l'uscita dall'euro. Questo ci rivela alcune cose fondamentali.
La più importante è che l'uscita dall'euro sta nella logica della cose, se davvero si vuole lottare contro le oligarchie e il sistema euro/UE. Varoufakis aveva sempre dichiarato la sua opposizione al Grexit, ma, alla fine, la forza delle cose lo ha portato a porla come opzione. La realtà vince. Dalla posizione di governo, il ministro delle finanze greco ha visto che se si esclude a priori l'uscita dall'euro, ci si consegna mani e piedi alle oligarchie contro cui si combatte. La posizione di Tsipras, che si può riassumere con la frase “negoziamo, ma sia chiaro che noi non usciremo dall'euro” ha reso facilissimo alle istituzioni imporre qualunque cosa, sotto la minaccia, appunto, della cacciata dall'eurozona.
E' chiaro quindi che se si vuole seriamente lottare contro le oligarchie e si decide di farlo provando a negoziare con esse, bisogna almeno avere pronto il piano B dell'uscita dall'euro. Ma questa considerazione non è senza conseguenze. Infatti l'uscita dall'euro non può essere un segreto, una specie di inganno: se ci si presenta alle elezioni pensando ad essa come ad una possibilità, gli elettori devono essere informati. Questo non per una astratta “moralità democratica”, di cui peraltro non neghiamo il valore, ma perché l'uscita dall'euro (e dalla UE), come abbiamo detto molte volte, non è la soluzione di tutti i problemi, è “solo” la “condicio sine qua non” per la riapertura della possibilità di una vera alternativa alle politiche attuali.
L'abbandono del mostro europeo comporterà prezzi da pagare. Decidere chi li paga, e come, è politica. Occorrerà decidere cosa fare della riacquistata libertà, verso quali obiettivi indirizzare la politica economica. E su questo si scontreranno le diverse forze politiche.
L'uscita dall'euro e dalla UE significa cioè l'inizio di una nuova fase di lotta politica. Le forze antisistemiche non avranno altra base cui poggiarsi che le masse popolari. Ma tali masse devono essere preparate, devono sapere cosa le aspetta. Devono sapere, se votano per forze antisistemiche, che il loro governo prevede l'uscita dall'euro e dalla UE, almeno come opzione B. Se non c'è questa coscienza, l'eventuale uscita potrebbe rappresentare un disastro, perché potrebbe addirittura essere vissuta come sconfitta o tradimento.


Queste considerazioni, che emergono con chiarezza dalla vicenda greca, ci confermano quello che in questi anni abbiamo sempre ripetuto: l'uscita dall'euro e dalla UE è una componente necessaria nel programma politico di una forza realmente antisistemica.




venerdì 17 luglio 2015

Risvegli?



Su "sbilanciamoci" e sul "Manifesto" compare questa intervista a J.Galbraith


http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Galbraith-Per-Syriza-missione-impossibile-30753


mentre un sito di estrema sinistra propone un'analisi del sistema euro/UE in termini di colonialismo


http://www.militant-blog.org/?p=12074


La drammatica fine dell'esperienza del governo Tsipras sta cominciando ad avere effetti, a quanto pare.

giovedì 16 luglio 2015

Una critica a Marx

Pubblichiamo un intervento di Paolo Di Remigio, che discute alcuni nodi teorici importanti del pensiero di Marx a partire dal noto scritto sulla "Questione ebraica". Quella di Di Remigio è una critica serrata agli aspetti utopico-messianici che permangono nel pensiero di Marx. Non credo di condividerla in toto, ma la trovo ben argomentata, e sono convinto che questo tipo di discussioni siano quelle di cui ha bisogno il pensiero antisistemico per uscire dalla sua sostanziale inutilità, che appare evidente dall'intera storia recente.
(M.B.)






Gli ERRORI DEL GIOVANE MARX



Paolo Di Remigio





Et nous savons que cette erreur procède d'un déni de réalité et infecte l'esprit de bien des gens.


Jacques Sapir


UN COMMENTO A Marx, Sulla questione ebraica


È noto che la sinistra non ha letto Marx, meno noto che se lo avesse fatto non sarebbe molto diversa da come è: determinata dal rifiuto di conoscere e di affermare la verità presente, posseduta dalla volontà di realizzare un sogno, dall’aspirazione a una realtà diversa. In questo non differisce da Marx; che già Marx viva il presente come una gabbia e la verità come una prospettiva futura, è infatti evidente fin dall’articolo giovanile “Sulla questione ebraica”. Suo tema centrale è l’insufficienza dell’emancipazione politica effettivamente realizzata dallo stato costituzionale, rispetto al dover-essere, che il giovane Marx chiama emancipazione umana.
Lo stato moderno che opera secondo leggi generali e razionali non è ancora, per Marx, l’emancipazione umana, perché esso è travagliato da un’intima contraddizione: è generale in quanto è determinato da leggi generali che esprimono la volontà generale; ma questa sua generalità non determina la vita sociale particolare che esso comprende, cioè il mondo dei proprietari dal comportamento egoistico e particolare, che Marx, facendo sua la terminologia hegeliana, chiama “società civile”; anzi, lo stato si rapporta alla società civile come al suo opposto. Così tra il generale dello stato moderno e il particolare della sua società civile non c’è, come sarebbe ovvio aspettarsi, un rapporto di sussunzione; Marx, infatti, estremizza la loro differenza fino a considerarla contrasto irriducibile: lo stato sarebbe espressione della volontà comune dei cittadini, sarebbe l’insieme dei cittadini come comunità solidale, ma questa comunità è soltanto illusoria, in quanto i cittadini sono anche borghesi, membri della società civile, dunque scissi in contrasti che lo stato, cioè la loro volontà comune, è impotente a conciliare.
In quanto la riduce a contrasto irriducibile, Marx concepisce di fatto la società civile come stato di natura: la considera come se essa non fosse regolata dalle leggi, e fa della proprietà privata, cioè del riconoscimento statale del possesso, innanzitutto della propria corporeità, un torto. Questa identificazione della società civile con lo stato di natura, è un grave equivoco. Marx vi incorre insieme ai liberali. Mentre però i liberali identificano stato natura e società civile in modo da civilizzare lo stato di natura, riflettono cioè sullo stato di natura l’ordine proprio della società civile, Marx li identifica con l’intento opposto di riflettere sulla società civile l’orrore proprio dello stato di natura.
Lo stato di natura è l’animalità dell’uomo, ciò che Freud individua nel fondo di ogni individuo come pulsioni inconsce, ciò che storicamente si presenta come sterminio, politicamente come tirannia e socialmente come schiavitù. A differenza dalla natura animale, che è regolata dalla razionalità esterna dell’istinto, l’animalità dell’uomo ne è svincolata, allo stesso modo per cui la sua razionalità è libera: solo l’uomo è crudele, solo l’uomo infligge dolore anche senza interesse, perfino contro l’istinto di autoconservazione; solo l’uomo è capace di ogni crudeltà, non solo di quelle che presuppongono forza, destrezza, coraggio, addirittura buone intenzioni – e che formano il monotono materiale degli spettacoli da cui è attratta la sensibilità maschile –, ma anche di quelle esercitate sull’inerme per sentire la propria potenza.
La volontà libera dell’uomo spezza lo stato di natura, perché il bellum omnium contra omnes si risolve nell’infinita precarietà di una vita sempre esposta alla violenza casuale: l’interesse primo, più profondo, ma non più evidente, dell’uomo è quello di evitare l’orrore dello stato di natura. Lo evita riconoscendo l’altro, cioè volendo la sua volontà, volendo fargli soltanto ciò che l’altro vuole gli sia fatto e ottenendo che l’altro gli faccia soltanto ciò che egli vuole gli sia fatto, in una parola: rinunciando alla volontà del proprio bene esclusivo e adottando come propria volontà la volontà del bene comune. Questa volontà del bene comune, la volontà generale, è il fondamento della legge umana, del diritto.
L’organizzazione che realizza il diritto è lo stato. Mentre lo stato di natura è l’ambito della precarietà radicale provocata dal presupporre l’ostilità irriducibile dell’altro, lo stato è l’ambito della sicurezza, in cui si ha fiducia di non essere danneggiati volontariamente dall’altro e di poterne anzi essere aiutati. Il superamento della precarietà naturale nella fiducia collettiva è la base dello stato. Poiché sorge non da un ipotetico desiderio naturale di socialità, ma dal rifiuto volontario dello stato di natura, dall’orrore dell’orrore, essere membri dello stato non è un atto di sacrificio gratuito, ma è un interesse, il primo interesse, degli individui. L’essenza dello stato è la realtà della legge universale, per cui è superata la casualità della violenza, è dissolta l’angoscia che ne deriva, si instaura il sentimento della sicurezza, è posta la base di quella realizzazione di sé attraverso l’altro che si chiama libertà.

martedì 14 luglio 2015

giovedì 9 luglio 2015

Pausa estiva

Il blog si concede una pausa fino a settembre. Può darsi che scriveremo qualcosa in questo periodo, ma può anche darsi di no.
(M.B.)

giovedì 2 luglio 2015

Una lettera sulla scuola


Chiudiamo questa miniserie sulle scuola ripubblicando una mia "lettera aperta ai docenti della scuola italiana", risalente ai primi anni 2000. Si tratta di un testo che è già circolato in rete. Ho tolto la parte finale, che oggi mi sembra meno attuale.
(M.B.)


Lettera aperta ai docenti della scuola italiana.


I. Un suicidio di massa.

Nei libri sugli animali che leggevamo da ragazzi si raccontava la triste storia dei lemming. Questi piccoli roditori delle tundre nordiche, simili a criceti, a intervalli di tre o quattro anni, spinti dalla scarsità di cibo, iniziano a migrare. La conclusione di tali migrazioni è però drammatica: i poveri lemming finiscono per gettarsi in mare dalle scogliere, realizzando un autentico suicido di massa.
Diventati adulti, abbiamo scoperto che questa storia, così impressionante e capace di colpire l’immaginazione di un ragazzo, è una leggenda, diffusa nel mondo, pare, da un documentario della Disney.
Pur sapendola falsa, vogliamo però usare questa immagine del suicidio di massa dei lemming per iniziare a parlare della situazione dei docenti della scuola italiana. Enunciamo subito la nostra tesi fondamentale: la realtà della scuola italiana è caratterizzata da un suicidio di massa degli insegnanti. L’immagine dei professori-lemming descrive bene, a nostro avviso, alcuni aspetti decisivi delle vicende della scuola in questi ultimi anni. Le caratteristiche di tale suicidio di massa possono essere riassunte nei tre punti seguenti:

  1. Si è avuta negli ultimi anni una serie di interventi legislativi e amministrativi sulla scuola che hanno alterato in profondità i caratteri essenziali della scuola stessa. Questi interventi possono essere riassunti nella formula “riforma Berlinguer-Moratti”.
  2. Questa riforma ha come conseguenza la dequalificazione del lavoro del docente e la degradazione culturale e sociale (con conseguente impossibilità di miglioramento economico) dell’intera categoria dei docenti della scuola italiana.
  3. I docenti hanno nella sostanza accettato tutto questo, spesso collaborando alla propria degradazione, più spesso lamentandosi, ma senza mai ribellarsi seriamente.

Perché la riforma Berlinguer-Moratti ha come conseguenza il degrado culturale e sociale dei docenti? Perché uno dei suoi contenuti fondamentali è la svalutazione dell’insegnamento dei contenuti disciplinari, di quelle cioè che nel linguaggio comune sono le “materie” tradizionalmente insegnate a scuola. Questo fatto non è di immediata percezione, in primo luogo perché non viene enunciato esplicitamente nei testi legislativi e amministrativi che hanno articolato la riforma Berlinguer-Moratti, in secondo luogo perché si tratta di una tendenza di fondo che non è ancora arrivata alla sua compiuta realizzazione. La svalutazione dell’insegnamento delle “materie” nella scuola italiana contemporanea rappresenta però la ratio implicita di una serie di misure che possono essere comprese solo alla luce di tale scelta di fondo. Gli esempi potrebbero essere numerosi, ne facciamo solo alcuni per mantenere la lunghezza di questa lettera entro limiti ragionevoli. Un primo aspetto è l’incentivazione di una miriade di attività parallele all’insegnamento disciplinare (fra cui i cosiddetti “progetti”, ma non si tratta solo di questi), attività che implicano la continua interruzione dell’orario curriculare, cioè dell’orario dedicato all’insegnamento disciplinare stesso. Un altro aspetto è l’introduzione di materie nuove che si aggiungono alle materie tradizionali implicando una diminuzione dell’orario per tutte le materie. A ciò si possono aggiungere gli spostamenti di docenti dall’insegnamento di materie per cui hanno una preparazione specifica all’insegnamento di altre materie, cosiddette “affini”, spostamenti motivati esclusivamente da esigenze di organizzazione scolastica. Analogo a questo fenomeno è quello delle abilitazioni con concorsi speciali che prescindono parzialmente o totalmente dalla preparazione specifica. Già da questi semplici esempi si capisce come la ratio che li unifica e li rende comprensibili sia quella della svalutazione dell’insegnamento delle “materie” tradizionali: un insegnamento a cui viene dedicato sempre meno tempo e rispetto quale non si ritiene importante che venga svolto da docenti preparati.
Poniamoci adesso il problema di capire cosa significhi tutto questo rispetto alla scuola e rispetto alla vita di chi nella scuola ci lavora. Significa, in sostanza, che la scuola di Berlinguer-Moratti non è più, a parte alcune sue zone residuali, una scuola. E’ diventata un’istituzione completamente diversa, che della scuola conserva, con limitate eccezioni, solo l’immagine esteriore. A questa nostra affermazione qualcuno potrebbe obiettare che la scuola non ha solo la funzione di “insegnare delle materie”, ma ha altre funzioni, anche più importanti, di tipo socio-educativo: come per esempio far crescere la capacità relazionale dei giovani, aiutare il loro inserimento nella società, sviluppare in essi il rispetto per le culture e i popoli del mondo, e la lista potrebbe ovviamente continuare. Se questo è vero, il permanere di tali funzioni e scopi socio-educativi conserva un significato e un ruolo profondo alla scuola, anche se diminuisce l’attenzione alle tradizionali “materie”.
Questa obiezione, in apparenza ragionevole, è in realtà un vuoto sofisma, che denota una profonda incomprensione di cosa sia la scuola. Per capire quanto affermiamo, basta riflettere sull’esempio seguente. Tutti siamo d’accordo sull’importanza dell’attività sportiva per i giovani. Una giusta dose di attività sportiva è necessaria allo sviluppo equilibrato del corpo, ed ha anche importanti aspetti educativi: abitua alla corretta elaborazione di emozioni come l’aggressività e la competitività, al rispetto delle regole del gioco e dell’avversario, alla collaborazione con i propri compagni nel caso degli sport di squadra. E’ per tutti questi motivi che molti genitori fanno fare ai propri figli le più diverse attività sportive. Immaginiamo però che quando portiamo nostro figlio nella tal palestra per iscriverlo ad una qualche attività sportiva ci venga fatto dai responsabili il seguente discorso: poiché lo sport ha importanti funzioni nello sviluppo fisico ed emotivo dei giovani, ma d’altra parte fare sport è faticoso, abbiamo pensato di perseguire le importanti funzioni educative dello sport tenendo i ragazzi fermi e seduti. Cosa penseremmo di una simile proposta? Penseremmo che chi ragiona in questo modo o sta scherzando, o è un pazzo, o non sa di cosa sta parlando. E sicuramente porteremmo nostro figlio in un’altra palestra. Ma sostenere che le finalità socio-educative della scuola possono essere perseguite trascurando l’insegnamento disciplinare è un’assurdità dello stesso tipo. Infatti l’essenza della scuola, così come si è formata nella nostra storia, sta in questo: la scuola è quella particolare “agenzia educativa” nella quale le finalità educative sono perseguite attraverso l’insegnamento di contenuti disciplinari. Ovvero, la scuola esiste perché (e finché) si ritiene che alcune particolari “materie” abbiano una pregnanza culturale e umana tale che, attraverso il loro insegnamento, sia possibile perseguire quei fini sociali ed educativi di cui si diceva sopra.
La scuola esiste perché si ritiene, o si è ritenuto fino a tempi recenti, che insegnare letteratura, matematica, filosofia, fisica eccetera rappresenti un modo, il modo specifico appunto della scuola, di educare i giovani. 
E' questo lo specifico della scuola. E’ questo che distingue la scuola da altre “agenzie educative” come la famiglia, il gruppo di amici, i boy scouts o quant’altro.
Ma se tutto questo è vero, cosa resta della scuola, una volta che essa sia privata del suo elemento specifico e caratterizzante, cioè l’educazione dei giovani attraverso l’insegnamento di specifiche materie? La risposta è ovvia: non resta nulla. La scuola viene di fatto abolita, e il tempo della scuola diventa un enorme tempo vuoto che bisogna riempire con le più diverse e strane attività. E cosa diventano i docenti, dentro a questa scuola che non è più una scuola? Qual è il loro ruolo, una volta abolito di fatto il loro ruolo specifico dell’insegnamento delle “materie”? Nella squola di Berlinguer-Moratti i docenti sono ridotti ad essere dei badanti o dei baby-sitter. La lenta cacciata dei docenti dal ceto medio alle zone più basse della stratificazione sociale è una conseguenza ovvia di questa loro dequalificazione professionale.
Si potrebbe obiettare che la professionalità dei docenti (e quindi il loro livello sociale ed economico) viene salvata insistendo sulle loro competenze pedagogico-didattiche, invece che su quelle disciplinari. I docenti cioè sarebbero quelle persone che sanno come si insegna, e tali persone sarebbero importanti anche in una scuola nella quale si dà meno importanza a cosa si insegni. Questa obiezione è analoga a quella che abbiamo poco fa confutato. In sostanza, dire che non ha importanza cosa si insegna perché l’importante è che venga insegnato bene, equivale a dire che i contenuti dell’insegnamento non hanno più nessuna importanza. Ma questo ha come conseguenza la scelta dei contenuti più facili e meno impegnativi possibili: se tutto è uguale a tutto, perché docenti e studenti devono sobbarcarsi la fatica di leggere Manzoni, quando è tanto più gradevole leggersi Camilleri? Il punto è che, una volta impostate le cose in questo modo, si è su un piano inclinato nel quale non ci si può fermare. Perché leggere Camilleri a scuola quando ascoltare le canzoni di De André è ancora più gradevole e più facile? Si vede facilmente che, lungo questo piano inclinato, si torna alla degradazione professionale dei docenti. Infatti, di quale mai competenza pedagogica c’è bisogno per tenere i ragazzi in classe a fare cose piacevoli e divertenti come ascoltare canzoni [1]? E’ chiaro che, in questo contesto, la figura del docente si riduce, come già abbiamo detto, a quella di una badante o di una baby-sitter.
Possiamo allora concludere che nella riforma Berlinguer-Moratti è implicita una sostanziale degradazione della figura del docente. Tale degradazione determina il degrado economico e sociale dell’intero ceto dei docenti, il loro ridursi a poveracci degni solo, a seconda delle inclinazioni, di compassione o disprezzo.
Tale degradazione ha, come ulteriore conseguenza, l’abbassamento del livello culturale e della maturità intellettuale dei giovani che escono dalla scuola italiana. E’ un fenomeno che chi insegna all’Università ha ben chiaro, e che genera un forte pessimismo sul futuro del paese.
Aggiungiamo infine che, a nostro avviso, il degrado della scuola arriverà presto a mettere in pericolo la stessa sicurezza fisica dei docenti: è chiaro infatti che una scuola intesa come grande parcheggio per ragazzi non ha più alcuna barriera che la protegga dalla degradazione del sociale. Gli episodi di violenza nelle scuole, di cui leggiamo sui giornali, sono anch’essi collegati a quella negazione del ruolo specifico della scuola, che è l’anima della riforma Berlinguer-Moratti, e sono destinati ad aumentare di numero e di gravità.