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sabato 26 dicembre 2020

Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, parte 2 (P. Di Remigio)

(Seconda parte del saggio di Di Remigio. La prima parte la trovate qui. La terza parte la trovate qui. M.B.)

 


Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, 2

Paolo Di Remigio


II  La lezione della storia

 

a) Il mondo greco

     Quanto accade allo stato e alla conoscenza sotto i nostri occhi increduli non accade per la prima volta; anzi la maggior parte della storia è segnata dall’esistenza di stati imperfetti, offensivi della persona, e dalla difficoltà degli uomini ad assumere il contegno della libera teoresi. Interi mondi non sono andati al di là del mito e del timore. Il distacco decisivo dal pensiero desiderante e l’inizio della considerazione oggettiva risalgono alla cultura ellenica. Per quanto ci appaiano ingenue, le prime filosofie della natura sono i primi tentativi di spiegare il mondo senza mito. Il contegno teoretico come forma di vita inizia però con Socrate – che fu sentito come novità assoluta dai suoi stessi contemporanei[11]. Tre sono i caratteri di Socrate che determinano l’essenza della teoresi: innanzitutto, il compiuto dominio degli impulsi, tale da consentirgli non solo di rifiutare con garbo le avances del bellissimo Alcibiade ma anche di preferire la morte alla fuga, – in altri termini l’essere libero dalla limitatezza delle passioni; poi, il dialogo in cui gli interlocutori esercitano la critica reciproca delle loro opinioni; infine, il risultato negativo, ossia il rifiuto del cosiddetto pensiero di gruppo: per Socrate è essenziale che gli interlocutori non si accordino tra loro a danno della cosa, è essenziale che, se è fallito il tentativo di armonizzare le diverse determinazioni della cosa di cui ognuno si faceva portavoce, gli interlocutori riconoscano con serenità il fallimento. Da Socrate in poi conoscere non è ridurre l’oggetto al progetto soggettivo, ma è trovare la verità, cioè l’accordo del soggetto con l’oggetto, un abbraccio corrisposto che non può essere sostituito dall’accordo dei pensanti contro l’oggetto. Mentre il gruppo che si coordina per agire deve comunque raggiungere un accordo su come farlo, altrimenti vi rinuncerebbe, e questo, se ci fosse necessità di agire, sarebbe il peggio, il gruppo che si confronta per conoscere non ha bisogno di raggiungere una conclusione positiva entro un tempo dato, può sempre apprezzare la constatazione che manca ancora il concetto in cui si compongono le differenze emerse, e ripromettersi ulteriori sforzi per raggiungerlo. Un tratto essenziale del contegno teoretico inaugurato da Socrate è l’operosità, esplicitamente richiamata nel Menone[12].

     Alla sobria eroicità della teoresi Platone sacrifica la sua produzione poetica, riconoscendo così la forma logica superiore alla forma dell’immaginazione. La sua teoria delle idee è il risvolto positivo dell’atteggiamento socratico: l’idea è l’universale in senso dialettico, la figura in cui si compongono i contrasti nella cosa e la pluralità dei punti di vista che ne derivano e su cui i sofisti avevano soltanto giocato[13]. Del primato del contegno teoretico il Simposio offre il documento definitivo. Il suo tema è il desiderio erotico. Mentre gli elogi a Eros dei commensali riflettono sugli effetti e sulle cause delle diverse forme di piacere erotico, Socrate fa suo un punto di vista femminile, raccontando i discorsi ascoltati da una donna di Mantinea, Diotima: la bellezza, il piacere sono soltanto un allettamento a riprodursi; il sesso ne ha bisogno perché il suo fine è l’immortalità e i viventi possono raggiungerla solo attraverso i dolori del parto e le fatiche e i pericoli dell’allevamento della prole. Negli umani la fatica del produrre l’immortalità non si limita tuttavia alla generazione di figli di nuovo mortali; negli umani Eros si rivolge a bellezze sempre più astratte, universali, così da generare verità immortali[14]. Per chi cerca di determinare la forma logica dell’accordo con l’oggetto, l’oggetto è bello e la verità generata è universale; si può e si deve dunque vivere per la conoscenza – è questa la conclusione del Simposio platonico.

     Il primato del contegno teoretico si conserva in Aristotele. Se il piacere è l’accordo tra la nostra particolarità e la particolarità dell’oggetto, allora l’esercizio del pensiero in vista della conoscenza disinteressata, essendo accordo tra l’io universale e la cosa universale, è il bene supremo, la stessa felicità di cui Dio gode eternamente[15]. L’agire è invece servizio (λειτουργία), che permette agli altri la σχολή giacché gli altri la permettono a noi.

     In definitiva, per il pensiero greco del V e del IV secolo il contegno teoretico non è solo indispensabile come presupposto della tecnica, ma è ciò che la vita umana ha di divino. La grande fioritura scientifica di epoca ellenistica sarebbe impensabile senza i risultati filosofici di Socrate, Platone e Aristotele.

    È qui la spiegazione del nesso evidenziato dal prof. Galli Della Loggia[16] tra cultura classica ed educazione delle classi dirigenti finché in Europa c’è stata una scuola pubblica. È la cultura ellenica che per prima si è resa conto della confusione tra desiderio e pensiero nel mito[17] e ha declassato quest’ultimo a semplice similitudine, che può anticipare il percorso logico, ma non sostituirlo. Il mondo ellenico, unico, ha fissato il nesso tra libertà e verità e ne ha dedotto la superiorità della σχολή sull’ἀσχολία. Inoltre, per Platone solo chi è abbastanza libero da conoscere l’in sé delle cose nella sua complessità, solo chi è amante del sapere, filosofo, può essere un buon governante; secondo Aristotele sa dirigere solo chi è in grado di prevedere, dunque di conoscere i nessi necessari dell’oggetto, senza lasciarsi sedurre dal desiderio; non solo, dunque, la teoresi è vita libera, la stessa etica dell’agire è fondata sulla conoscenza e sulla disciplina che essa richiede. La scelta della scuola europea di immergere la futura classe dirigente nel mondo classico è quindi guidata non solo da una predilezione letteraria, non tanto da passioni imperialiste, ma da istinto scientifico, è scelta del paradigma che privilegia la teoresi come vita libera e felice e come condizione dell’agire. La capacità di astrarre dall’utilità immediata per dedicarsi all’oggetto in tutta la sua complessità, da una parte, realizza l’essenza umana, perché la verità è la forma logica, dunque libera e universale, della corrispondenza tra soggetto e oggetto, di cui il piacere è la forma soltanto particolare; dall’altra, si rivela della massima utilità, perché sul piano individuale assicura la saggezza necessaria a determinare la giusta misura in cui consistono le virtù etiche, e sul piano collettivo prepara a fronteggiare la contraddittorietà dell’oggetto politico.

 

b) Il mondo cristiano

     Il pratico afferma la superiorità sul teoretico per effetto dell’affermarsi del cristianesimo in quanto è erede del messianismo ebraico. Mentre per la visione ellenica il mondo è tutto e contiene anche i suoi dei, per la visione ebraica il mondo è il nulla[18] e Dio lo ha abbandonato al male finché non decide di redimerlo, cioè di ripristinare l’innocenza paradisiaca, per mezzo di figure ispirate, gli unti del Signore, i messia. Poiché è al di là del mondo e si manifesta non tanto nella sua forma quanto infrangendola con il miracolo, Dio è imperscrutabile, cioè si sottrae alla conoscenza. Impotente, la conoscenza diventa una volontà di conoscere che non può essere appagata nel presente, diventa fede. Messianismo è dunque il rifiuto del mondo presente e l’urgenza del ritorno all’innocenza; messianismo è il congedo dalla conoscenza e il privilegio accordato alla fede «che smuove le montagne». Messianismo è ciò che dal XIX secolo in poi si chiama spirito sovversivo. Filosofi come Hegel, come Comte, lo videro all’opera nell’incapacità della Rivoluzione francese di appagarsi di ogni ordine comunque costituito e ne conclusero che la sovversione rivoluzionaria esiste solo come distruzione dell’esistente.

     L’esigenza di negare l’impulso determinato è, come si è visto, la radice della libertà dell’io. In quanto vuole anche altro da sé, l’io puro entra nell’esistenza, si determina; nel determinarsi può restare fedele a sé stesso – ad è propriamente questa la libertà e, rispetto agli altri, la giustizia – o può contrastarsi – eteronomia e ingiustizia. Ma può anche rifiutare di determinarsi e restare nella propria astrazione. Mentre l’io che si realizza nell’esistenza vuole che le sue scelte conservino il modo della possibilità, l’io che vuole restare nell’astrazione apprezza soltanto la propria uguaglianza pura, senza contenuto, e respinge la differenza in generale. Riferendosi al mondo e alle sue differenze, l’indeterminatezza soggettiva assume quindi l’aspetto di aspirazione all’uguaglianza[19].

     Che il messianismo ignori il diritto della differenza non autorizza a ignorare il diritto dell’uguaglianza. Dal semplice punto di vista logico identità e differenza sono un’unica riflessione: l’identità è solo tra i differenti e i differenti devono essere identici in qualcosa. Respingere l’uguaglianza non è dunque meno vano che respingere la differenza. In particolare, l’aspirazione del cristianesimo all’uguaglianza si rivelò infinitamente feconda, in quanto pose il problema dello schiavismo, che il mondo classico non aveva percepito in tutta la sua abissalità: ammettere la figura dello schiavo nel diritto riduce l’universalità della persona a un privilegio casuale che si può acquisire o perdere; il quid iuris è ridotto a un semplice quid facti, la sostanza a un accidente. Il superamento di questa contraddizione promosso dal cristianesimo è il diritto moderno. Nondimeno l’uguaglianza è l’astratto, la differenza è il concreto, è l’esistenza; la stessa uguaglianza degli individui come persone, nel realizzarsi, si cala nelle differenze delle loro esistenze. Nel volere l’uguaglianza dell’esistenza stessa, l’io puro rifiuta di fatto l’esistenza; dunque si degrada in fanatismo che inseguendo l’ideale disdegna la conoscenza del reale e lo condanna all’indegnità. Con questa svolta la fede cieca diventa l’ultima parola, e la nozione stessa di verità sembra ora indicare non più la sobria concordanza di soggetto e oggetto, ma una trascendenza sublime che è lo stesso io puro tradotto in forma oggettiva.

     Il cristianesimo ai suoi inizi concepisce come inferno la realtà del mondo classico; alla sua sapienza antepone l’assurdo della rivelazione. Gli inizi messianici si conservano fin nel cuore dell’elaborazione teologica, in quanto essa immagina che il mondo sia destinato a essere abbandonato da ogni vita; e sono avvertibili perfino nelle prove dell’esistenza di Dio: la prova cosmologica giunge all’essere divino dall’insufficienza del mondo, dalla sua nullità costitutiva; la prova ontologica attribuisce l’esistenza alla nozione di Dio, cioè all’atto con cui il soggetto lo intenziona; vale a dire la nullità del mondo si associa al ritrarsi dell’essenza nel soggetto. A differenza però del messianismo moderno, a differenza della sovversione rivoluzionaria fiduciosa nell’invincibilità dell’alleanza tra storia e coscienza di classe, l’Epistola ai Romani concepisce la volontà umana come schiava della carne e la sua liberazione come un atto trascendente legato alla fede nel Cristo. Il primato della pratica stabilito dal cristianesimo contro il mondo classico non va dunque inteso come potenza della volontà umana, ma come primato dell’iniziativa della volontà divina. Né la fede nell’iniziativa divina si riduce a semplice attesa del miracolo. A differenza dello gnosticismo che si spezza tra gli estremi di un ascetismo esasperato fino alla morte di inedia e l’eccesso orgiastico, ben presto il cristianesimo recupera l’ideale di libertà come dominio degli impulsi, per quanto con la riserva Deo adiuvante. Così, pur assoggettandola alla teologia, la Chiesa non elimina la filosofia; né getta nell’abisso del male la fecondità sessuale, anzi le riconosce natura sacramentale, pur stabilendone l’inferiorità messianica rispetto alla verginità. In definitiva il cristianesimo assoggetta la teoresi alla fede; quando con Agostino esprime l’invito: «Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas»[20], trascura che la verità abbraccia gli estremi opposti, res e intellectus, non è un contenuto della mera interiorità; ma non si inganna sulla finitezza della ragione pratica; di qui la sua capacità di temperare il messianismo delle origini con l’idea ellenica e di conservare la virtù della saggezza.

 

c) Il mondo moderno: la doppia secolarizzazione del cristianesimo

 

La nascita dello stato moderno

     Dal XV secolo i rapporti di dipendenza personale tipici del paternalismo feudale fanno lentamente posto alla sfera pubblica, allo stato e alle sue leggi, mentre dalla riscoperta degli antichi rinasce, dapprima in Italia, il sentimento del primato della teoresi. La costituzione dello stato moderno è però risultato delle guerre di religione del XVI e del XVII secolo. Lutero, Calvino hanno scorto nella Chiesa non più l’argine al peccato ma la sentina della peggiore corruzione, e nel papa l’Anticristo che annuncia la fine dei tempi; la loro esigenza messianica di purezza è intollerante: le altre confessioni sono opera del demonio; poiché le radici stesse del mondo sono inquinate dalla presenza satanica, esso deve essere purificato con ogni mezzo. È, questa, l’epoca terrificante della caccia alle streghe, che colpisce la donna, depositaria della conservazione della vita, dunque dell’essere del mondo. Dilaniata in sette che cercano la reciproca distruzione, la religione dell’amore e della pace è ora causa delle guerre più atroci. Lo stato ne è trasformato; considerato prima uno strumento imperfetto dell’apparato ecclesiastico, acquista ora indipendenza dalla religione, diventa cioè laico, e il suo primo scopo rispetto agli individui diventa per la prima volta chiaro: garantire l’integrità della loro persona e della loro proprietà.

     Ancora nel Settecento, tuttavia, lo stato è una commistione tra elemento borghese ed elemento aristocratico, tra il principio dell’intangibilità della persona e il principio paternalista della dipendenza personale. La confusione induce una rinascita dello spirito messianico su una nuova base, non più religiosa ma mondana. Rassicurato dagli stupendi progressi che il rinato spirito teoretico ha impresso alla conoscenza della natura, l’illuminismo ha certezza che la volontà umana, guidata dall’intelligenza dei fatti, possa fare della terra il paradiso. La fiducia che il perseguimento individuale della felicità contemperi i diversi interessi e procuri il progresso generale, pone l’illuminismo in contrasto inesorabile con il principio cristiano del peccato originale, per il quale la volontà non fortificata dalla grazia è preda del peccato e fomentatrice di discordia. La religione gli appare dunque come superstizione delle masse semplici tratte in inganno da preti astuti al servizio di tiranni viziosi: un passato da cui liberarsi. Aperta dall’illuminismo la strada al rifiuto del peccato originale, l’ideale della purezza della volontà umana si manifesta in tutta la sua aporia in Rousseau.

 

Secolarizzazione del messianismo nell’idea di rivoluzione

     La polemica illuminista contro il cristianesimo può essere da una parte intesa come la giusta affermazione dell’innocenza della natura: nessuno degli impulsi naturali è in sé colpevole; colpevole è solo la volontà se nel dare loro soddisfazione offende la libertà della persona. Ma negli sviluppi che Rousseau dà al tema dell’innocenza naturale emerge un più radicale messianismo, un disperato gesto di rifiuto, che non aspira al progresso, come l’illuminismo, o all’aldilà, come la religione, ma a un passato perduto per sempre e recuperabile solo in parte. L’innocenza, la semplicità attribuite ai primordi non sono per Rousseau al di qua del bene e del male, non sono moralmente neutre, sono esse stesse virtù, sono il bene; il separarsi dall’innocenza, l’artificio, la scienza in generale sono allora il male, il vizio. Con la sua promessa di sgravare l’uomo dalla fatica del pensiero, l’identificazione paradossale dell’innocenza con la bontà e del male con la scienza non abbandonerà più l’occidente, da quel momento di nuovo nostalgico dell’immagine paradisiaca di una socievolezza semplice entro una natura amica.

     Mentre nella natura hobbesiana domina la violenza, nella condizione di natura di Rousseau simpatia e semplicità realizzano l’ideale messianico dell’uguaglianza; viceversa, l’artificialità della cultura esaspera la differenza, genera la bramosia per cui i ricchi sfruttano i poveri e la prepotenza per cui i forti umiliano i deboli. L’accento sull’uguaglianza mostra come nella stessa borghesia si sia determinata una frattura: la proprietà privata si accumula nelle mani di pochi e l’accumulazione porta con sé l’espropriazione dei molti. Mentre per l’illuminismo la proprietà privata, come emanazione della persona sulle cose, è il presidio della libertà, Rousseau vi scopre la causa di una nuova forma di asservimento, non più il paternalismo del signore sul vassallo, ma la differenza di classe. Questo doppio conflitto, illuministico tra borghesia e feudalesimo, rousseauiano tra grandi e piccoli, definisce la Rivoluzione francese.

     L’avere affidato il principio dell’uguaglianza alla natura, che è sempre differenza, e l’avere attribuito la differenza alla cultura, che invece, come dispiegamento della ragione, è la capacità di comporre la differenza, comporta un drastico rovesciamento delle parti, un gigantesco equivoco dagli effetti paradossali sulla politica e sulla pedagogia. ‒ Poiché ha identificato la libertà personale alla spontaneità naturale, Rousseau non sa collocare la costituzione dello stato all’interno dell’individuo, nella sua essenza; perciò si riduce a inventare un mito[21]: all’inizio gli uomini vivevano liberi e sereni nella condizione di natura, poi vi incontrarono sempre maggiori difficoltà, tanto da essere esposti al pericolo di estinguersi, e ne dovettero uscire; da allora formano comunità, che sono legittime se stringono un patto sociale: ognuno aliena tutto sé stesso alla comunità, così sparisce la pluralità discorde delle libere volontà di ciascuno, si forma un’unica volontà, la volonté générale, materializzata nell’assemblea a cui ogni associato partecipa. Poiché ognuno vi è legislatore, obbedendo alle sue decisioni ognuno obbedisce a sé stesso e resta libero.

     Come si vede, Rousseau crede che si diano una libertà naturale, quella del singolo, e una libertà convenzionale, quella nella comunità, che il loro rapporto sia negativo, ossia che la libertà naturale debba essere annullata perché si generi la libertà convenzionale, la volontà generale. Sono solo circostanze esterne che costringono gli uomini ad alienare la loro libertà naturale, e d’altra parte il corpo dello stato può sempre essere dissolto e ciascuno riprende allora sé stesso. Poiché considera la volontà generale negazione della volontà singola, Rousseau vede per un verso un’opposizione insuperabile tra il singolo e il generale, dunque una necessità ineludibile del singolo di sottomettersi allo stato; per altro verso egli lenisce questa opposizione identificando lo stato con l’assemblea in cui il singolo, pur suddito, è anche legislatore.

     Che il singolo sia legislatore è però una magra consolazione; egli infatti partecipa all’assemblea in quanto ha alienato la sua libertà naturale, vi legifera dunque non come singolo, ma come singolo generalizzato, come semplice organo dell’universale. Il singolo sembra essere non soltanto suddito, ma anche legislatore, perché obbedisce a sé; in effetti, però, obbedisce a sé come ad associato, e poiché l’associazione è un’alienazione della libertà, obbedisce a un sé alienato, dunque ad altro; in questo senso il singolo resta soltanto suddito. Poiché si produce dalla negazione della libertà naturale, la libertà convenzionale resta comunque un danno; Rousseau può solo tentare di limitarlo permettendo al singolo di stare non solo dalla parte di chi lo subisce, ma anche dalla parte di chi lo infligge. L’aver falsamente identificato libertà e spontaneità naturale non gli consente di uscire dal rapporto di opposizione tra singolo e universale, di giungere all’identità tra persona e stato di diritto.

     La contraddizione è nel doppio significato di natura nella nozione di libertà naturale. Per Rousseau la libertà naturale non ha il senso del diritto naturale, non è affatto l’io puro che nega l’impulso animale presente nell’individuo così che egli è libero, ma è la spontaneità degli impulsi. La quale non può però in alcun modo essere qualificata come libertà, ma è bisogno, limite. Ciò che Rousseau considera libertà naturale e a cui non sa rinunciare, è di fatto necessità naturale; dunque quella negazione, che a lui appare una rinuncia dolorosa ma inevitabile per godere i vantaggi della comunità, non è affatto rinuncia alla libertà; al contrario, è liberazione, è propriamente l’educazione con cui il singolo supera la sua innocenza e giunge alla libertà. Lungi dall’essere rinuncia, l’educazione è il primo interesse, la prima aspirazione del singolo: il bambino ha urgenza di crescere, e non perché voglia abbandonarsi ai suoi piaceri e ai suoi terrori, ma perché vuole governarsi come fanno gli adulti. Platone ha compreso tutto ciò. La struttura gerarchica del suo stato, il dominio dell’universale sul particolare, ripete, non nega, la struttura intima del singolo, le è identica; già nel singolo, infatti, la mente domina il desiderio. Poiché è un piccolo stato, nello stato in grande il singolo è a casa sua; l’universalità che guida lo stato è identica all’universalità dell’io con cui il singolo guida sé stesso. Vale a dire, come obbedisce alla propria universalità, al proprio io puro, così il singolo obbedisce all’autorità pubblica in quanto è universale, cioè in quanto si esprime in leggi, senza che la sua libertà sia soffocata. Poiché il singolo compie l’alienazione totale dei suoi impulsi naturali, non, come vuole Rousseau, della sua libertà naturale, poiché la sua intima natura è assoggettare la sua animalità alla convenzione, la libertà convenzionale, sua come della città, è anche l’unica vera.

     Il disprezzo della convenzione per l’essenza dell’uomo è alla base della pedagogia di Rousseau. Il riconoscere dignità morale alla spontaneità innocente comporta però già a priori l’impossibilità della pedagogia: se il bambino fosse libero perché spontaneo, e l’adulto fosse in catene perché convenzionale e differenziato, allora dovrebbe essere il bambino a dirigere l’adulto – un paradosso che non solo ispira molti insegnanti quando pretendono di aver imparato dagli alunni più di quanto gli alunni abbiano imparato da loro, ma è lo specchio su cui tenta di arrampicarsi ogni pedagogia attiva. Inaugurata da Rousseau, essa offre un anestetico alla sofferenza di chi non si rassegna a essere cresciuto, adora la spontaneità infantile e non vorrebbe superarla. Il precettore di Rousseau si preclude l’intervento diretto, traveste da natura il suo educare perché l’allievo passi dalla libertà naturale a quella convenzionale senza accorgersene, senza subire offesa alla sua spontaneità. La salvezza della spontaneità è però offesa alla libertà: non solo il precettore di Rousseau disattende l’urgenza infantile di diventare adulto, ma avendo sostituito l’intervento diretto con la predisposizione segreta dell’ambiente educativo, da un lato impone un controllo totale sull’allievo, e ciò viola il germe della sua personalità, dall’altro fa apparire all’allievo la libertà convenzionale, ossia il diritto, come legge naturale. Una conseguenza molto grave; infatti gli uomini sono tali precisamente perché non solo si assoggettano alle leggi naturali come fanno gli animali, ma ne creano di loro, le conoscono come tali e nella loro universalità convenzionale riconoscono il proprio io. L’attivismo di Rousseau degrada l’educazione dell’uomo in ammaestramento dell’animale; l’abitudine che il precettore insinua approfittando dell’ingenuità dell’allievo sostituisce il controllo consapevole di sé in cui consiste l’io libero.

     Che la pedagogia rovesciata di Rousseau abbia avuto effetti moralizzanti nel contrastare l’odiosa brutalità degli insegnanti («… memini quae plagosum mihi parvo / Orbilium dictare…») nulla toglie alla sua assurdità interna che si trasmette a tutte le didattiche attive. Esse ostentano orrore per la passività dell’allievo; di fatto provano orrore per l’attività che è propria della conoscenza. Questa non è attiva nel senso della manipolazione dilettantesca dell’oggetto – come vorrebbe l’attivismo didattico, ma lo è comunque, in un suo senso determinato: dovendo dare spazio alla complessità dell’oggetto e alla molteplicità delle prospettive che lo studiano, la conoscenza è attiva sul soggetto, è superamento del suo impulso particolare. Non è possibile conoscenza senza attenzione, senza che il soggetto astragga dalle sue infinite intuizioni e immagini estranee all’oggetto, dalla noia, dalla stanchezza, dai propri rancori, timori, predilezioni. L’attività propria della conoscenza, che l’attivismo non vede, consiste nel dimenticare il particolare e tenersi fermi all’ascolto delle determinazioni della cosa. Nell’acquisizione della conoscenza, quanto più essa è astratta, tanto più l’alunno impara il valore dell’attenzione. Che l’insegnante offra un contenuto che ne sia degno è un’esigenza ineludibile, ma non identica alla richiesta che l’alunno resti entro la sua esperienza e impari divertendosi: divertire significa infatti allontanare dal pensiero e dall’oggettivo. L’alunno non deve essere sempre allettato con immagini e giochi, è essenziale che gli si chieda lo sforzo di liberarsi dalle immagini e di librarsi nel grigio delle astrazioni, perché l’astrazione è l’elemento dell’universalità, e il nucleo della realtà, le sue leggi, sono esprimibili solo in termini universali.

 

     Il messianismo alla rovescia di Rousseau, diretto a un passato che è una sentenza di condanna del presente, nel comunismo resta immanente, ma si volge al futuro. Scandalizzato dal destino di miseria dei lavoratori in un’economia capace di produrre il benessere generale, anche il comunismo, analogamente a Rousseau, ha visto nella proprietà privata l’origine della contraddizione. Mentre però Rousseau sopprime la singolarità per salvare la proprietà di ognuno, il comunismo sopprime la proprietà quasi a voler salvare la persona. Dal momento che la proprietà è alienabile, mentre la persona non lo è, sembra che tra le due determinazioni ci sia una radicale diversità, per cui sia possibile volere la persona senza volere la proprietà. Così non è: poiché la forma di contratto, con cui la proprietà è alienabile, implica che chi lo stipula resti persona, ci sono non solo proprietà alienabili, ma anche proprietà inalienabili dalla persona stessa che ne è proprietaria, – tanto è vero che si può violare il proprio diritto non meno di quello delle altre persone. La proprietà, inalienabile e alienabile, copre dunque tutta la sfera di esistenza della persona, non solo le sue cose, ma il suo corpo, il suo tempo, le sue abilità. Con ciò è posto un legame indissolubile tra proprietà e persona. Il comunismo che lo ha reciso non solo in teoria, ma anche con la pratica, nell’abolire la proprietà privata ha abolito anche le persone. Come rivoluzione permanente, il comunismo è guerra civile inestinguibile tra il proletariato industriale (o la cricca che se ne proclama avanguardia) e le altre classi (non solo la borghesia, ma anche i contadini), combattuta secondo la tecnica dell’assalto frontale, nella prassi leninista e nella sua esasperazione staliniana, secondo la tecnica della guerra di posizione, secondo l’idea di Gramsci.

     Nell’irreggimentare la società per la guerra civile, il comunismo non consente la persona. Ne segue che il pedagogista sovietico più noto, Makarenko, ispira la sua comunità educativa all’Armata Rossa e mantiene all’educazione il carattere manipolativo già previsto da Rousseau, limitandosi a dargli forma sociale: «Che vuol dire ‘azione pedagogica parallela’? Noi abbiamo a che fare soltanto con il reparto, non con i singoli che lo compongono. Questa è la definizione ufficiale. In realtà, si tratta di un modo per influire proprio sull’individuo. Tuttavia, la definizione si accorda in un certo modo con la sostanza. Sebbene si affermi che non abbiamo a che fare con le persone, in realtà ci occupiamo proprio di loro»[22]. Il potere pedagogico non agisce attraverso leggi universali, omogenee all’universalità della volontà pura e fatte valere direttamente come limiti dell’arbitrio, ma si nasconde dietro al collettivo, esercitandovi condizionamenti che si risolvono in pressioni occulte sul singolo. Il fatto poi che Makarenko consideri i suoi alunni la prima incarnazione dell’uomo nuovo sovietico non lascia dubbi sulla volontà del potere sovietico di assorbire senza residui l’individuo nel suo apparato burocratico.

     A differenza di Rousseau o Feuerbach, Marx non si è fatto illusioni naturalistiche: il comunismo non è ritorno alla sobrietà ugualitaria, ma, ereditando dal capitalismo la scoperta della potenza del lavoro umano, è ugualitarismo dell’abbondanza, mediato dalla fase socialista della presa dittatoriale del potere e dello scatenamento tecnico. Il comunismo apprezza la tecnica; quindi, come già Bacone, non può rifiutare la scienza. Ma il rifiuto della persona non è impune, comporta il disprezzo dell’astrazione. Questo disprezzo emerge in Gramsci, che prende le distanze dallo spirito astratto, sente la filosofia inutile per la sua natura francamente teoretica, la sostituisce con lo storicismo e la propaganda permanente: «Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i ‘veri’ intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale… Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, ‘persuasore permanentemente’ perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane ‘specialista’ e non si diventa ‘dirigente’ (specialista + politico)» [23].

Pur credendo di aver rovesciato Hegel, Marx pensa che la rottura della dialettica materialistica con la dialettica idealista contenga anche una continuità, che la dialettica materialista sia la dialettica idealista rimessa sui piedi. Così non è; la differenza tra i due filosofi è più profonda: a dispetto del suo nome, il socialismo scientifico è stato la più potente eruzione messianica del mondo moderno; invece Hegel è il filosofo della verità. Il suo motto: «Ciò che è effettivo è razionale, ciò che è razionale è effettivo» non fa altro che esplicitare nella sua completezza la definizione tomista di verità come adaequatio rei et intellectus. Sotto il profilo politico, Hegel individua nel concetto di persona e di proprietà quale si configura nel diritto un culmine, non dell’etica, certo, ma della storia del mondo. La persona esiste come proprietaria del suo corpo e delle cose. Nella protezione della proprietà da parte dello stato, Hegel constata la raggiunta sacralità del libero volere, la conciliazione tra l’esigenza singolare e quella universale. Hegel sa bene che la proprietà può celare ottuso egoismo, avarizia, avidità; ne segue che la sua quantità è tutt’altro che sacra, ma è limitata dallo stato; mai però può essere abolita sulla base di principi morali, perché, ricorda il filosofo, la moralità stessa non è infrangere il diritto, ma agire rettamente solo per amore del diritto. Compito dello stato è dunque che tutti siano in qualche misura proprietari, non l’espropriazione generale. Così il confronto tra Marx e Hegel non è quello tra materialismo e idealismo – materialismo è peraltro un termine privo di significato filosofico – ma tra riconoscimento, per quanto difficile, della verità del presente e tensione messianica al futuro: al motto di Hegel che tiene ferma l’esigenza della verità, l’effettività del razionale, Marx risponde con un diverso motto: «Apparirà chiaro come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente». Vale a dire: il termine di idealismo, qualora esso indicasse il primato del dover-essere e l’onnipotenza della coscienza, potrebbe essere applicato con migliore approssimazione a Marx anziché a Hegel. Come nota Benjamin nella sua prima tesi di filosofia della storia, nell’automa del materialismo storico è nascosto il nano della teologia[24].

 



[11]Cfr. Simposio, 221 c-d.

[12] Menone, 81 d-e.

[13] Filebo, 23 c-e.

[14] Simposio, 201 d - 213 c.

[15] Cfr. Etica nicomachea, 1097 b 22 ‒ 1098 a 20.

[16] Cfr. E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia 2019, p. 85.

[17] Senofane intuì che gli Elleni si servivano degli dèi per evitare il senso di colpa. La tragedia greca, in cui l’eroe rivendica ogni responsabilità, di quanto sapeva e di quanto non sapeva, purifica il mito e i suoi dei e li rende disponibili alla filosofia.

[18] Non solo in quanto creato dal nulla; in Genesi, 3, 17 è la libertà dell’uomo che rende maledetta la terra; la sua indifferenza al desiderio umano inaugura il lavoro.

[19] Isaia, 11, 6-9: «Il lupo abiterà con l’agnello ecc.». Lettera ai Galati, 3, 28: «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna ecc.»

[20] Agostino, De vera religione, XXXIX, 72.

[21]Cfr. il capitolo VI del primo libro del «Contratto sociale». Il ricorso a un mito nel quale le cose andavano dapprima così poi successe qualcosa e da allora le cose vanno altrimenti, è sempre sintomo dell’incapacità di tenere insieme i pensieri discordi.

[22] A. Makarenko, Pedagogia scolastica sovietica, Armando, Roma 1960, p. 68. Traduzione modificata.

[23] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, p. 1551.

[24] In Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 72.


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