lunedì 14 dicembre 2020

Il lavoro non pagato delle donne?

 

Il lavoro non pagato delle donne?

(elementi di una critica del femminismo, 3)

Marino Badiale


1. Una tesi diffusa nel femminismo contemporaneo è quella secondo cui il lavoro casalingo o “lavoro di cura”, di cui si fanno carico per lo più le donne, rappresenta lavoro che viene erogato gratuitamente. Tale lavoro gratuito sarebbe un dato oggettivo che permette di parlare di sfruttamento delle donne da parte degli uomini: vi sarebbero cioè una serie di servizi, basati sul lavoro di cura, elargiti dalle donne e dei quali gli uomini si appropriano senza corrispondere nulla in cambio. Nel femminismo marxista questa idea viene ulteriormente elaborata nella tesi secondo la quale questo lavoro gratuito permetterebbe al capitalista di tenere bassi gli stipendi dei lavoratori uomini, e quindi alti i profitti. In questo modo a beneficiare del lavoro gratuito delle donne sarebbero sia gli uomini in quanto tali, sia i capitalisti, mostrando quindi come patriarcato e capitalismo si adattino e si sostengano l’un l’altro.


2. La critica alla tesi femminista del “lavoro non pagato” è molto semplice: essa è falsa, il lavoro casalingo è pagato. Semplicemente, esso non viene pagato con denaro ma direttamente con beni e servizi. Per chiarire il punto, concentriamoci sull’esempio di una famiglia in cui la donna si dedica esclusivamente al lavoro di cura mentre l’uomo guadagna uno stipendio col lavoro esterno alla famiglia. Stiamo cioè pensando all’esempio della casalinga, una categoria sicuramente meno diffusa di un tempo ma che è ancora socialmente significativa. Ora, il punto è che la casalinga riceve beni e servizi in cambio del suo lavoro: è nutrita, vestita, ha un tetto che la protegge dalle intemperie, e così via. L’unica differenza rispetto alla situazione di chi lavora per un salario, sta appunto nel fatto di ottenere direttamente beni e servizi, senza la mediazione dello scambio monetario. Ma a parte questo, la sua situazione è quella di tutte le persone che lavorano per un salario, almeno ai livelli medi e bassi di reddito: per queste persone (cioè per la stragrande maggioranza di uomini e donne che lavorano per un salario), il denaro guadagnato serve essenzialmente a ottenere quei beni e servizi che la casalinga riceve senza la mediazione del denaro.

Per rendersi conto della falsità della tesi femminista, basta osservare che se davvero il lavoro casalingo fosse lavoro non pagato, allora una casalinga che dedica tutto il suo tempo a tale lavoro, e non ha altre fonti di reddito, morirebbe rapidamente di fame e di freddo. Il lavoro casalingo si estinguerebbe in brevissimo tempo, anzi, non sarebbe mai esistito.

La tesi femminista si basa su un banale errore, quello di considerare “lavoro pagato” solo il lavoro che riceve in cambio un salario monetario. Ora, è vero che nella società attuale questa è la forma dominante di pagamento del lavoro, ma questo non toglie che possano esistere altre forme: per esempio il baratto, o i benefit che integrano un salario monetario; possiamo pensare per esempio al fatto che negli USA la copertura sanitaria in molti casi è assicurata direttamente dal datore di lavoro. Per fare un esempio più vicino al lavoro di una casalinga, pensiamo al lavoro di una badante che assiste una persona anziana a tempo pieno, vivendo nella casa di questa. In tal caso la badante riceve certamente un salario monetario, ma assieme ad esso anche beni e servizi: usufruisce di una casa, dei servizi connessi (gas, luce, acqua), e del cibo che prepara per sé e per la persona assistita. Si tratta di beni e servizi che costituiscono evidentemente una parte integrante del suo compenso, ma una parte appunto non monetaria.

I beni e servizi di cui usufruisce la casalinga sono solo un altro degli esempi di questo tipo: in questo caso il pagamento del suo lavoro consiste interamente (o quasi) di beni e servizi.


3. Per rendere più evidente il punto che stiamo discutendo, proviamo a pensare a una persona che per un periodo fa un lavoro non pagato, facendosi mantenere da qualcun altro (genitori, partner), e che, in seguito, inizia a ricevere un salario per il suo lavoro. Per esempio, una persona che sta facendo uno stage presso un’azienda, senza ricevere compensi. Il suo lavoro viene apprezzato e la persona viene assunta: continua a fare quello che faceva durante lo stage ma riceve un regolare salario. È chiaro che la sua vita cambia in maniera netta: se prima viveva con i genitori che la mantenevano adesso può finalmente pensare di vivere da sola, se viveva con un (una) partner che la manteneva adesso la coppia può permettersi un livello di vita diverso da prima, può fare progetti che prima erano preclusi, e così via.

Facciamo ora un caso simile, in riferimento però al lavoro domestico. Una casalinga che lavora 8 ore al giorno per la propria famiglia, decide di svolgere lo stesso lavoro a pagamento per un’altra famiglia. Riceve diciamo 1000 euro al mese. Ma non svolge più il lavoro presso la propria famiglia, quindi deve pagare un’altra persona che lo faccia, alla quale devolve i 1000 euro guadagnati col proprio lavoro. È evidente che la situazione, sua e della sua famiglia, è esattamente la stessa di prima. Ma secondo la vulgata femminista, questa persona è passata da un lavoro non pagato a un lavoro pagato, quindi dovrebbe essere nella stessa situazione della persona nell’esempio iniziale, che passa da uno stage a un’assunzione: dovrebbe quindi esserci un cambiamento netto della situazione economica sua e della sua famiglia. Invece non è così. Come mai? La spiegazione sta nel fatto che, come abbiamo detto, l’assunto femminista è falso: non è vero che il lavoro casalingo iniziale era lavoro non pagato. Quindi la persona in questione non è passata dallo svolgere un lavoro non pagato allo svolgere un lavoro pagato (come nell’esempio iniziale), ma è passata dallo svolgere un lavoro pagato in beni e servizi allo svolgere un lavoro pagato con un salario monetario.

Per vedere ancora meglio il punto possiamo immaginare due famiglie in cui le donne sono casalinghe e svolgono gli stessi lavori con gli stessi tempi (magari con lo stesso numero di figli con età simili). Per passare dal (presunto) lavoro non pagato al lavoro pagato, le due casalinghe decidono di svolgere ciascuna il lavoro casalingo dell’altra, facendosi pagare i soliti (diciamo) 1000 euro al mese: ciascuna delle due fa esattamente lo stesso lavoro di prima, ma nella casa dell’altra e non nella propria, riceve dall’altra 1000 euro come pagamento del servizio elargito e glieli restituisce in pagamento del servizio ricevuto. Come prima, nella loro situazione non è cambiato assolutamente nulla: eppure, secondo la tesi femminista, abbiamo qui due donne che sono passate dallo svolgere entrambe un lavoro non pagato allo svolgere entrambe un lavoro remunerato con un salario. Di nuovo: come mai, in realtà, non è cambiato nulla nella loro vita? La risposta è sempre la stessa: la tesi femminista è falsa, le due donne non sono passate dallo svolgere un lavoro gratuito allo svolgere un lavoro pagato. Il loro lavoro era pagato anche prima, al solito non in denaro ma in beni e servizi.


4. Completiamo questa prima parte con due osservazioni.

In primo luogo, queste considerazioni ci fanno capire l’errore della tesi del femminismo marxista che abbiamo sopra ricordato. Poiché il lavoro casalingo della donna è pagato con la mediazione del salario del marito, il capitalista che impiega quest’ultimo non ha nessun vantaggio economico dal lavoro casalingo: il salario che corrisponde ai suoi lavoratori deve essere sufficiente a mantenerne le famiglie, quindi a pagare il lavoro casalingo delle mogli. Ovviamente il capitalista cercherà comunque di pagare il salario più basso possibile, cioè cercherà di far vivere il lavoratore uomo e la moglie casalinga al livello più basso possibile. Ma se il salario diventasse tanto basso da non permettere più al lavoratore di mantenere una famiglia, semplicemente la famiglia del lavoratore si dissolverebbe. Di conseguenza, in ogni caso non esiste il lavoro casalingo non pagato e quindi sfruttato dal capitalista: se quest’ultimo corrisponde al lavoratore un salario che gli permetta di mantenere una famiglia, allora il capitalista sta pagando il lavoro casalingo; se non lo fa, la famiglia tradizionale si dissolve e non c’è più il lavoro casalingo della donna.

In secondo luogo, se non si può parlare di “sfruttamento” come condizione generale, vi è però, nella situazione che stiamo discutendo, un aspetto di svantaggio per la donna, che è inerente alla situazione (quindi indipendente dalle vicende personali), e che va tenuto in considerazione. Si tratta della mancanza di autonomia economica. La casalinga fa un lavoro e riceve in cambio beni e servizi, come abbiamo detto, ma li riceve tramite la mediazione del lavoro dell’uomo e dello stipendio di questi. Naturalmente di per sé la cosa non fa problema quando si tratta di una libera scelta, ma siamo comunque in presenza di una situazione che implica la possibilità di sviluppi negativi in presenza di determinati avvenimenti che rompano l’equilibrio della famiglia, per esempio una separazione o la morte dell’uomo. In questi casi mi sembra necessario l’intervento dello Stato per un aiuto immediato e l’avvio al mondo del lavoro, ove possibile. Si tratta in ogni caso di una problematica che non ha nulla a che fare col tema del “lavoro non pagato”.


5. Finora abbiamo svolte le nostre considerazioni pensando all’esempio della famiglia tradizionale, in cui la donna si dedica esclusivamente al lavoro della casa e l’uomo guadagna un salario con un lavoro esterno. Come sappiamo, questa è oggi solo una delle molte possibili forme di organizzazione della famiglia, probabilmente ormai in decrescita, nei paesi avanzati, per quanto ancora non trascurabile. In molte famiglie la donna ha anch’essa un lavoro esterno e ne riceve un salario, mentre spesso ha ancora il carico maggiore di lavoro casalingo. Sono forse questi i casi in cui si può parlare di “lavoro non pagato”? È difficile fare un discorso generale, appunto per la grande varietà di casi che si possono presentare. Cercherò allora di analizzare qualcuna delle situazioni possibili, che fungerà da “tipo ideale” di organizzazione famigliare. Vi è però una caratteristica comune alle diverse situazioni, che possiamo trattare subito: parliamo adesso di realtà nella quali la donna gode di indipendenza economica, cioè parliamo di donne che hanno un lavoro e sono in grado di mantenersi con esso. Ora, se questo è vero, è chiaro che è difficile parlare di “sfruttamento”: se l’organizzazione famigliare è insoddisfacente per la donna, se la donna subisce gravi ed evidenti ingiustizie, essa ha sempre la possibilità di riprendersi la propria libertà. Ha senso parlare di sfruttamento quando lo sfruttato non ha altre possibilità concrete di vita se non quelle interne alla situazione di sfruttamento. Lo schiavo è obbligato a obbedire al suo padrone, il servo feudale a prestare al signore feudale il tipo di servizio previsto dalle consuetudini. In questi casi vi è una diretta costrizione basata sulla forza. L’operaio che non possiede i mezzi di produzione e deve assoggettarsi al lavoro salariato per non morire di fame non è soggetto direttamente alla forza fisica, ma ad una costrizione altrettanto cogente. Nelle situazioni che adesso esaminiamo, al contrario, la donna ha sempre la possibilità di allontanarsi da una situazione famigliare nella quale ritiene di essere ingiustamente sfruttata. Se non lo fa, la sua è una libera scelta e una libera accettazione della situazione stessa.

Le tesi fondamentali che cercherò di argomentare in questo paragrafo sono due.

In primo luogo, nelle forme di organizzazione che esamineremo la donna riceve sempre, almeno in linea di principio, qualche tipo di vantaggio, che può quindi essere considerato il “pagamento” del suo lavoro di cura. Questo non esclude che vi possano essere ingiustizie e prevaricazioni, ma esse non discendono logicamente dalla struttura delle situazioni che esamineremo.

In secondo luogo, in collegamento con quest’ultima affermazione, il fatto che nelle varie situazioni si abbia giustizia o ingiustizia, equa distribuzione del lavoro nella coppia o prevaricazione di un partner sull’altro, dipende da mille fattori interni alla relazione: la personalità dei partner, la forza o debolezza di carattere, la situazione oggettiva (tipi diversi di lavori, possibilità di aiuti parentali o amicali, e così via). Questa complessità delle situazioni reali impedisce, a mio avviso, di parlare di “sfruttamento del lavoro femminile” come di uno schema generale. Vi possono cioè essere situazioni di ingiustizia a svantaggio della donna (e magari anche a svantaggio dell’uomo), ma non come schema generale dell’organizzazione della famiglia. Inoltre, tali eventuali ingiustizie non possono essere inquadrate nel concetto del “lavoro non pagato”: tale concetto non descrive la realtà ed è totalmente inutile e mistificante.

Ecco dunque un primo tentativo di analisi di varie situazioni. Si tratta solo di un abbozzo che non ha ovviamente nessuna pretesa di compiutezza.

Situazione 1: donna che ha un lavoro esterno con orario limitato e salario modesto, e lavoro casalingo nel resto del tempo, uomo che lavora a tempo pieno con un salario maggiore.

Analisi: si tratta dello schema di molte famiglie benestanti tradizionali. Per fissare le idee, si pensi alla donna con un lavoro part-time, e uno stipendio sufficiente ad una vita modesta, e all’uomo professionista affermato (medico, avvocato, ingegnere). È abbastanza chiaro, nella situazione data, quale sia il vantaggio della donna: grazie allo stipendio alto dell’uomo, tutti i membri della famiglia, donna compresa, possono permettersi un alto livello di vita. In particolare la donna può permettersi un livello di vita più alto di quello che avrebbe col solo suo stipendio, anche ampliando il suo orario di lavoro (per esempio facendo un secondo lavoro). Il pagamento del lavoro casalingo della donna sta dunque nel maggior livello di vita di cui essa usufruisce grazie all’alto reddito dell’uomo. È ovviamente questo il motivo per il quale si sono sempre fatti matrimoni di questo tipo, e sono sempre stati ritenuti una soluzione vantaggiosa per la donna. È sempre così? Non vi possono essere situazioni nelle quali si abbia uno svantaggio per la donna? Il punto fondamentale, come abbiamo già detto, è che stiamo parlando di donne che lavorano e sono in grado di mantenersi da sole. La scelta di sposare un certo tipo di uomo, e di impostare la famiglia nel modo indicato, è una libera scelta, non condizionata da necessità economiche. Se la situazione economica dell’uomo è tale che, nell’organizzazione data, i vantaggi per la donna non sono così evidenti (magari perché l’uomo è colpito da un rovescio economico, o perché dopo un inizio brillante la sua carriera viene rovinata da errori di un tipo o dell’altro), si tratta di vicende sfortunate come sono quelle che capitano nella vita di tutti, alle quali la donna, se davvero la convivenza diventa troppo svantaggiosa, può fare fronte riprendendosi la propria indipendenza.


Situazione 2: donna e uomo hanno lavori esterni con orari simili e paghe simili.

Analisi: Questa è la situazione nella quale è più facile accorgersi se vi sono ripartizioni ingiuste del carico di lavoro di cura. Ammettiamo allora di essere appunto in una situazione di ingiustizia a svantaggio della donna: i due membri della coppia fanno lavori simili con paghe simili ma la donna ha un carico maggiore di lavoro domestico. Si può affermare che si tratta di “lavoro non pagato”? Mi pare che la risposta sia no, perché comunque la donna riceve un vantaggio economico dalla situazione data, e questo può essere considerato il pagamento del suo lavoro. Il vantaggio economico consiste nel fatto, ben noto, che nella vita in comune vi sono economie di scala. Se due persone che hanno salari simili formano una coppia, le entrate raddoppiano ma le uscite aumentano di meno, e quindi c’è un aumento delle disponibilità economiche di cui si avvantaggiano entrambi. Questo vantaggio può essere considerato il pagamento del lavoro domestico femminile.

Queste considerazioni, si badi bene, non intendono negare che la situazione descritta (salari simili, maggiore lavoro di cura femminile) sia ingiusta: intendono negare che tale ingiustizia sia adeguatamente caratterizzata col concetto di “lavoro non pagato”. Il lavoro femminile anche in questo caso è pagato, e l’ingiustizia sta nel fatto che l’uomo riceve, dalle economie di scala, gli stessi vantaggi della donna, senza fornire un pari contributo. Mi sembra allora che la discussione da fare non sia quella relativa al “lavoro non pagato”, ma piuttosto quella su quale sia la reale incidenza, nella vita delle nostra società, delle situazioni appena descritte. Si tratta di un fenomeno socialmente rilevante? Per rispondere a questa domanda purtroppo non servono a nulla le statistiche che indagano quanto tempo in media “le donne” dedicano al lavoro domestico confrontandolo col tempo che ad esso dedicano “gli uomini” [1]: si tratta di statistiche che mettono assieme situazioni completamente diverse fra loro, e quindi non dicono nulla. Quando si presenta un dato cumulativo sul lavoro domestico “delle donne”, si mettono assieme la situazione della casalinga, quella della donna che lavora part time, il caso che stiamo adesso esaminando: il risultato è, ovviamente, che le donne fanno più lavoro domestico, ma si tratta di una banalità priva di significato, perché questo maggiore lavoro domestico non implica necessariamente ingiustizia ma deriva dalla diversità delle situazioni che, come abbiamo visto, possono anche rappresenta uno stato equo e liberamente scelto.

In mancanza di dati adeguati relativi alla situazione che stiamo analizzando, possiamo fare solo qualche considerazione generale:

a) in primo luogo, occorre ricordare che, anche quando il lavoro domestico è in maggioranza a carico della donna, quasi sempre l’uomo dà un contributo di cura, in un modo o nell’altro. Tradizionalmente, i piccoli lavori di riparazione sono maschili, così come certi lavori saltuari che richiedono maggiore forza fisica (spostare oggetti pesanti, per esempio), oppure l’uso dell’auto per varie incombenze della famiglia. Ovviamente le possibilità sono infinite, perché infinite sono le combinazioni di caratteri, abilità, organizzazioni della famiglia.

b) Continuiamo comunque la discussione ammettendo che, anche calcolando i contributi maschili di cui s’è detto, in ogni caso il tempo dedicato dalla donna al lavoro domestico sia maggiore di quello dell’uomo. Per capire la rilevanza sociale di questo fenomeno, dobbiamo considerare che una parte di quel lavoro domestico la donna lo fa per se stessa. È ovvio infatti che anche una donna o un uomo che vivono da soli dedicano una parte del proprio tempo al lavoro domestico. Nel considerare la situazione della coppia, occorre allora capire quanto sia il lavoro domestico che la donna svolge in più, rispetto a quello che svolgerebbe per se stessa da single. Di nuovo, le situazioni possono essere diversissime. Solo per fissare le idee, ammettiamo che nella vita in famiglia il tempo di lavoro domestico raddoppi, e che la donna dedichi due ore al giorno a tale lavoro, l’uomo una. Lo sbilanciamento dalla parte della donna non è però di un’ora al giorno, perché, nelle nostre ipotesi, entrambi avrebbero dedicato metà di quel tempo al lavoro domestico se fossero single: detto altrimenti, la donna lavora un’ora in più e l’uomo mezz’ora in più, per il fatto di vivere assieme, il che significa che lo sbilancio a svantaggio della donna non è di un’ora al giorno ma della metà.

c) Infine, occorre considerare che la giovani generazioni sono, per fortuna, sempre più avvertite e sensibili su questi temi, e appare difficile che una giovane donna che lavora e porta un contributo economico autonomo e pari a quello dell’uomo, possa oggi accettare una situazione di evidente ingiustizia a proprio danno. Come nei casi precedenti, stiamo parlando di donne economicamente indipendenti, quindi libere di andarsene se giudicano svantaggiosa l’organizzazione famigliare. Questo porta a pensare che la situazione che stiamo descrivendo riguardi soprattutto le generazioni meno giovani, sia quindi in diminuzione, e anzi tenda a scomparire.


Concludendo: in mancanza di dati, non possiamo fare affermazioni nette, ma le considerazioni fin qui svolte mi portano a pensare che la situazione di ingiustizia che stiamo indagando non abbia oggi grande rilevanza sociale. Ripetiamo per fissare le idee: stiamo parlando di una caso particolare, quello in cui uomo e donna hanno lavori esterni con orari simili e salari simili, e il carico del lavoro domestico non è ripartito alla pari ma pesa più sulla donna. Se consideriamo che comunque in genere l’uomo dà un contributo, che in ogni caso una parte del lavoro domestico è lavoro per sé, e soprattutto che possiamo aspettarci che le giovani generazioni tendano ad una maggiore parità, mi sembra di poter concludere che la situazione che stiamo indagando non abbia grande rilievo sociale e possa essere considerata residuale.


Situazione 3. Resta infine da considerare il caso in cui la donna lavora guadagnando un salario significativamente maggiore di quello dell’uomo. Si tratta di una situazione certamente rara quando vigeva la tradizionale divisione di ruoli fra uomini e donne, ma che, con i cambiamenti del costume degli ultimi decenni, è probabile diventi più comune. Osserviamo intanto che in questa situazione difficilmente si può parlare di un lavoro casalingo da parte della donna. Nella società moderna, chi ha uno stipendio alto quasi sicuramente deve dedicarsi a tempo pieno alla propria professione. Una donna che arriva col suo lavoro ad una fascia di reddito alto, probabilmente non ha né tempo né energie per il lavoro casalingo, per il quale si rivolgerà a persone pagate per questo. In questo caso tutti i lavori sono pagati con un reddito monetario: la donna impegnata a tempo pieno riceve un salario (alto, nell’ipotesi che stiamo esaminando) per il suo lavoro, la persona (uomo o donna) che si occupa del lavoro di cura riceve a sua volta uno stipendio. Vi può essere un elemento di ingiustizia perché il contributo alla famiglia del marito o compagno potrebbe essere inferiore a quella dalla moglie o compagna: ma in questo caso, di nuovo, siamo nell’ambito delle libere scelte di vita individuali. Una donna che arriva, grazie al proprio lavoro, ai livelli superiori del reddito è sicuramente una donna che ha forza, capacità e volontà, ed è perfettamente in grado di cambiare vita se si ritiene insoddisfatta della sua relazione col marito o compagno, se percepisce una ingiustizia in tale relazione. Se continua la relazione, è una sua libera scelta, e sembra difficile parlare di sfruttamento o di oppressione.


Questo conclude le mie argomentazioni sulla tesi del “lavoro non pagato delle donne”. Ho cercato di mostrare che si tratta di una tesi erronea che non riesce a descrivere la realtà, nemmeno nei casi in cui vi sia effettivamente, nell’organizzazione di una famiglia, uno svantaggio o un’ingiustizia per la donna.


6. Una volta spiegato perché, a mio avviso, la tesi del “lavoro non pagato delle donne” sia erronea, mi sembra interessante chiedersi come mai essa sia oggi diffusa, in particolare negli ambienti di sinistra e fra i critici dell’attuale organizzazione sociale. Credo si tratti di un’ulteriore esemplificazione di un limite storico della cultura di sinistra, dovuta alla sua natura stessa e quindi, a mio avviso, non emendabile. Per spiegare questo punto, devo rifarmi all’analisi della nozione di “sinistra” che ho svolto in passato, assieme al compianto Massimo Bontempelli [2]. Nel testo citato abbiamo cercato di caratterizzare la sinistra come il movimento sociale, culturale e politico che nella modernità ha cercato l’emancipazione dei gruppi sociali svantaggiati attraverso lo sviluppo sociale ed economico. Nelle condizioni della modernità tale sviluppo non poteva che essere sviluppo del capitalismo. La sinistra ha potuto svolgere un ruolo storicamente rilevante finché lo sviluppo del capitalismo creava spazi per una possibile lotta di tipo emancipativo a favore dei gruppi svantaggiati. Il problema di fondo della sinistra è che il capitalismo è entrato da qualche decennio nella fase finale della sua parabola storica e non crea più nessuna potenzialità emancipativa. Lo sviluppo del capitalismo è ormai sviluppo distruttivo sia della società sia della natura, e sta preparando il crollo della civiltà occidentale. In questa situazione la sinistra non ha più nessuno spazio per un’azione politica emancipativa e si trasforma in una delle componenti di un ceto dirigente capitalistico incapace di comprendere la dinamica distruttiva della società attuale, e a maggior ragione incapace di fare alcunché per contrastarla. Il ceto politico di sinistra, ormai completamente inglobato dentro l’attuale struttura di potere, si limita a lotte di potere con la sua controparte di destra anch’essa totalmente svuotata di ogni contenuto caratterizzante. In queste lotte, i contenuti ideali tradizionali di destra e sinistra vengono agitati come simboli vuoti per simulare lo spettacolo di un autentico scontro politico. La critica ai valori tradizionali (“Dio, patria e famiglia”, per intenderci) viene dunque mantenuta dalla sinistra anche in un contesto in cui essa non ha più alcun senso perché tali valori non rappresentano più nulla di politicamente significativo (su questi punti si vedano i bellissimi libri di J.C.Michéa [3]). In particolare la critica femminista alla famiglia tradizionale, vista come luogo di sfruttamento e oppressione della donna, serve a mantenere in piedi la contrapposizione, puramente spettacolare, fra destra e sinistra. È per questo, a mio avviso, che anche la tesi sul “lavoro non pagato delle donne” continua a ricevere attenzione e credito a sinistra. Essa manifesta però una radicale incomprensione di cosa sia la famiglia. La famiglia infatti è una comunità: una comunità piccola, minimale, ma pur sempre una comunità. E i rapporti interni ad una comunità, compresi i rapporti di lavoro, non vengono regolati tramite contratti e pagamento di un salario, ma vengono decisi sulla base della condivisione delle scelte di vita e di una decisione dei soggetti coinvolti su quale sia il “bene comune”. Questo, naturalmente, nel caso di una comunità regolata sul principio della parità e dell’uguale diritto di tutti i membri ad una vita dignitosa. Il principio di base della divisione del lavoro della famiglia, come di ogni altra comunità di questo tipo, è quello enunciato da Marx [4]: “ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Se ognuno ha dato secondo le sue possibilità e capacità, se i bisogni di ognuno sono soddisfati, ovviamente entro i limiti delle condizioni oggettive, allora non vi è sfruttamento né oppressione, e non vi è, ovviamente, “lavoro non pagato”. La realtà che il femminismo in parte occulta e in parte distorce con la tesi del “lavoro non pagato” è semplicemente il fatto che la vita in una comunità ha dei vantaggi che si ripartiscono sui membri della comunità stessa, e che rappresenterebbero dei costi se dovessero essere svolti a pagamento. Per esempio, in una città ciascun individuo svolge lavoro di sorveglianza, senza esserne cosciente: ogni cittadino normale se vede un omicidio o una violenza mentre cammina per strada, avverte la polizia. Quanto costerebbe sguinzagliare sorveglianti a pagamento in ogni strada di ogni città? E chi pretenderebbe di essere pagato sulla base del fatto che la propria semplice presenza per strada garantisce un servizio a tutti? Sarebbe insensato, ovviamente. Anche perché tutti traggono vantaggio dal fatto che la presenza degli altri rende le strade sicure (o almeno, un po’ meno insicure), e l’eventuale “stipendio” per tale servizio dovrebbe essere pagato da tutti a tutti. Allo stesso modo, l’organizzazione di una famiglia, una volta liberamente decisa fra i suoi membri adulti, garantisce vantaggi a tutti, che non ha senso pensare di pagare.

Ora, il punto cruciale da comprendere è che nella fase attuale dello sviluppo capitalistico il rapporto sociale capitalistico piega alla propria logica ogni ambito della vita sociale, per cui, ad esempio, Sanità e Istruzione pubbliche diventano aziende che devono essere organizzate secondo una logica appunto aziendalistica. Ovviamente ogni ambito di rapporti di tipo comunitario è un ostacolo a questo tipo di sviluppo, e deve essere ristrutturato in termini aziendalistici. È questa, a mio parere, una delle radici della crisi attuale della famiglia: la sua natura essenzialmente comunitaria è incompatibile con l’estensione capillare della logica capitalistica. Da questo punto di vista, l’azione del femminismo contemporaneo appare un aspetto dell’estensione del dominio della logica capitalistica all’intero corpo sociale. Con la sua insistenza nel voler trattare in termini salariali il lavoro interno alla comunità domestica, il femminismo non fa che tradurre nel suo linguaggio l’odio del capitalismo per i rapporti sociali non riducibili alla logica del profitto, e mostra quindi il suo profondo collegamento col capitalismo stesso, il suo esserne una articolazione.



[1] R.Patel, J.Moore, Una storia del mondo a buon mercato, Feltrinelli 2018, cap.4.


[2] M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari 2007.


[3] Si veda per esempio J.C.Michéa, I misteri della sinistra, Neri Pozza 2015. I libri di Michéa sono esempi di intelligenza, lucidità e onestà intellettuale.


[4] K.Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti 1990, pag.18.

1 commento:

  1. Molto interessante, c'è veramente bisogno di leggere e scrivere queste riflessioni. Oggi se si parla del femminismo in modo critico si rischia in alcuni casi, il linciaggio, invece non ci si rende conto di quanto siano deleterea le teorie e le prassi femministe. Ottime riflessioni. Spero che i vari scritti su questo argomento trovino una loro organizzazione sistematica in apposita stampa. Occorre veramente divulgare queste e tante altre riflessioni sull'argomento.
    Una compagna

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