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mercoledì 30 dicembre 2020

Thomas Fazi sul Recovery Fund

Un intervento di Thomas Fazi. Cito dalle conclusioni dell'articolo:


"Questa è la vera polpetta avvelenata del Recovery Fund: l’usurpazione definitiva di quel minimo di autonomia di bilancio – e dunque di democrazia – che ci era rimasta e il rafforzamento del carattere oligarchico della UE, attraverso l’accentramento di ulteriore potere nelle mani di istituzioni anti-democratiche quali la Commissione europea. Finalmente, a colpi di crisi e di emergenze (spesso e volentieri costruite a tavolino), le élite nordeuropee sono riuscite ad ottenere, con la complicità di una classe dirigente italiana venduta e pusillanime, quello che vanno agognando da sempre: un controllo politico totale della politica economica dei paesi mediterranei e in particolare dell’Italia"



https://www.lafionda.org/2020/12/23/recovery-fund-manuale-di-autodifesa-contro-la-propaganda-di-regime/

lunedì 28 dicembre 2020

Sfruttamento del lavoro femminile?

 

Sfruttamento del lavoro femminile?

(elementi di una critica del femminismo, 4)

Marino Badiale


1. Questo articolo prosegue e completa l’analisi svolta in un precedente intervento [1]. Il tema, qui e nel testo citato, è la discussione della tesi femminista secondo la quale il lavoro di cura, svolto perlopiù da donne, è un lavoro elargito gratuitamente e rappresenta la base oggettiva che giustifica la nozione di sfruttamento delle donne da parte degli uomini. Nell’articolo citato ho criticato la tesi del lavoro di cura come lavoro gratuito: ho argomentato che il lavoro femminile di cura della famiglia è in realtà lavoro pagato, non in termini monetari ma direttamente con beni e servizi. Non ritornerò su questo punto, che qui do per acquisito, rimandando al testo citato chi sia interessato alle mie argomentazioni.

La necessità di una ulteriore indagine è dovuta all’osservazione seguente: il fatto che il lavoro femminile di cura sia pagato, non implica che non vi sia sfruttamento. Basti pensare alla condizione operaia secondo i marxisti: la forza-lavoro degli operai è sicuramente pagata dal salario, e possiamo supporre, come fa Marx, che sia pagata correttamente al suo valore: ma l’analisi marxiana ci mostra che, anche in queste condizioni, vi è sfruttamento, nel senso che il detentore del capitale si appropria del plusvalore prodotto dal lavoratore senza fornire un equivalente. In analogia con questo esempio, si potrebbe allora sostenere che, anche se il lavoro femminile di cura è pagato, vi può essere una qualche forma di sfruttamento.

2. Per discutere il tema, iniziamo a circoscriverlo. A questo scopo, è utile la seguente osservazione: per poter parlare di sfruttamento mi sembra necessario che lo sfruttato sia in una situazione nella quale non ha libertà di scelta. Se lo sfruttato ha la possibilità di scegliere una situazione diversa da quella in cui si attua lo sfruttamento, senza pericoli per sé ed essendo in condizioni di vivere decentemente nella nuova situazione, mi sembra difficile parlare di sfruttamento, perché se rimane nella situazione di partenza la sua è una libera scelta. Pensiamo a uno schiavo o un servo feudale che hanno la possibilità concreta di abbandonare il padrone schiavista o il signore feudale, senza temere ritorsioni, e di trovare una sistemazione indipendente in cui vivere decentemente senza essere sfruttati: in una situazione del genere mi sembra difficile parlare di sfruttamento, e anzi appare dubbio che si possano ancora usare termini come “schiavitù” o “servitù”.

Se questo è chiaro, appare allora evidente che non si può parlare di “sfruttamento del lavoro casalingo” per quelle donne che, nel mondo contemporaneo, hanno un lavoro che permette di vivere da sole e godono dei diritti individuali garantiti nei paesi occidentali: se restano in un rapporto di coppia nel quale elargiscono lavoro di cura, questa è evidentemente una loro libera scelta, visto che in ogni momento hanno la possibilità di andarsene e di vivere da sole.

La questione dello sfruttamento del lavoro casalingo va allora ristretta, nel mondo contemporaneo, alle casalinghe in senso proprio, cioè alle donne che si dedicano interamente al lavoro di cura della famiglia e di conseguenza non hanno autonomia economica. Una tale mancanza di autonomia economica era naturalmente la condizione di quasi tutte le donne nelle società premoderne e all’inizio dell’età moderna. L’analisi che segue sarà allora concentrata sul lavoro nell’ambito famigliare nelle situazioni in cui le donne non hanno autonomia economica e non hanno quindi la libertà di allontanarsi da una situazione sfavorevole. Il riferimento principale sarà alla famiglia tradizionale (donna a casa dedita per un tempo significativo al lavoro di cura, uomo dedito al lavoro esterno) nei paesi occidentali, pensando soprattutto al medioevo e alla prima età moderna.

In via preliminare, osserviamo che stiamo discutendo la nozione di sfruttamento del lavoro di cura svolto dalle donne nella famiglia tradizionale. In molti casi, nelle famiglie tradizionali, le donne hanno svolto, oltre al lavoro di cura, anche lavoro direttamente produttivo: pensiamo alle contadine che si occupano di una parte dei lavori agricoli, o alle operaie delle fabbriche tessili della prima rivoluzione industriale. Ovviamente in queste situazioni le donne erano sfruttate, ma lo erano “in quanto lavoratrici”, alla pari degli uomini, non “in quanto donne”. Qui ci stiamo occupando non di questo tipo di sfruttamento, ma del tema specifico dello sfruttamento del lavoro di cura.

3. Cosa intendiamo per “sfruttamento”? Intendiamo l’appropriazione del surplus produttivo da parte di chi ha il potere per farlo. L’attività produttiva degli esseri umani genera un surplus, cioè una quantità di prodotto che oltrepassa ciò che è necessario a riprodurre le condizioni della produzione stessa (fra le quali ovviamente la vita dei produttori). Questo surplus rappresenta la base materiale indispensabile all’esistenza di ogni società. Le classi dominanti sono le classi che possono disporre del surplus produttivo impiegandolo per la gestione del proprio potere, oltre che, ovviamente, per il proprio consumo. Il surplus di cui si appropriano le classi dominanti è in certi casi immediatamente visibile: sono i carri che portano via dal villaggio il tributo dovuto all’imperatore, sono le giornate che il servo feudale deve trascorrere lavorando sui campi del signore invece che per il proprio sostentamento. Nel caso del modo di produzione capitalistico, come è noto, il surplus prende la forma del plusvalore e non è immediatamente percepibile, tanto che è stata necessaria la complessa analisi marxiana per disvelare gli arcani della produzione capitalistica.

Un eventuale “sfruttamento” del lavoro di cura delle donne non sembra assomigliare a nessuno di questi casi ben noti: non vi è un surplus immediatamente percepibile, e non vi è uno scambio di merci e di denaro su cui si possa basare un’analisi nei termini marxiani di valore e plusvalore. La stessa varietà degli esempi possibili di “sfruttamento” mostra però che tale nozione si applica a tipi di rapporti sociali molto diversi fra loro, e si potrebbe quindi ipotizzare che lo sfruttamento del lavoro di cura sia un’altra forma particolare, magari non chiaramente discernibile ad uno sguardo superficiale. Mi sembra però che si possano individuare due condizioni che si accompagnano ad ogni forma di sfruttamento, in mancanza delle quali sembra difficile poter usare tale nozione. In primo luogo, in molti tipi di società lo sfruttatore è esterno alla sfera della produzione, e la produzione procede senza nessun contributo da parte dello sfruttatore stesso; detto altrimenti, il ceto dei lavoratori è autonomo e capace di proseguire nell’attività produttiva in assenza dei ceti dominanti. Si pensi al signore feudale che è impegnato in una vita che non ha nulla a che fare con la produzione materiale. In altri casi vi è un coinvolgimento nella produzione da parte dello sfruttatore: si pensi ai ceti dirigenti delle società modellate sul “modo di produzione asiatico” [2], che forniscono un contributo di conoscenze importante per la produzione agricola (per esempio conoscenze di tipo astronomico, relative alla scansione dei tempi agricoli, o ingegneristico, relative alla gestione complessa di risorse come i grandi fiumi). In questo caso, mi sembra che il segnale di una situazione di sfruttamento non possa che essere la presenza di una forte differenza di livello di vita: per poter parlare di sfruttamento da parte di un ceto sociale che in qualche modo partecipa alla produzione, deve essere evidente, visibile, la superiorità del livello di vita di cui gode tale ceto sociale, rispetto ai lavoratori sfruttati. La tesi che sostengo qui è allora che condizione necessaria per poter parlare di sfruttamento è la presenza di almeno una delle due situazioni appena elencate [3]. Indicando questi due “segnali” di una situazione di sfruttamento non intendo esaurire tutte le possibili caratteristiche di una tale situazione, non intendo darne una definizione universale. Voglio solamente dire che, se mancano entrambe queste caratteristiche, mi sembra difficile parlare di “sfruttamento”: se abbiamo un ceto sociale che fornisce un contributo indispensabile alla produzione, e ha un livello di vita sostanzialmente analogo a quello degli altri lavoratori, non vedo in che modo sia possibile, per il rapporto fra tale gruppo e gli altri lavoratori, parlare di “sfruttatori” e “sfruttati”.

Se tutto questo è chiaro, possiamo provare ad esaminare la situazione della famiglia tradizionale: in essa vediamo che le due componenti, uomo e donna, svolgono lavori diversi, ma entrambi indispensabili alla sopravvivenza della famiglia stessa. Manca quindi il primo carattere che abbiamo appena individuato, quello della estraneità rispetto alla produzione, da parte degli sfruttatori, e dell’autonomia produttiva da parte degli sfruttati. D’altra parte, se guardiamo i livelli di vita materiale, è del tutto ovvio che non ci sono nette differenze: all’interno della famiglia tradizionale marito e moglie mangiano gli stessi cibi, oppure fanno entrambi la fame, si scaldano allo stesso fuoco, oppure patiscono entrambi il freddo, dormono nello stesso letto. In sostanza, nei rapporti interni alla famiglia tradizionale mancano i due aspetti che abbiamo individuato come caratteristici affinché si possa parlare di sfruttamento.

4. Mi sembra di poter concludere, da quanto fin qui argomentato, che il lavoro di cura femminile nella famiglia tradizionale non è sfruttato dall’uomo, cioè dal partner (marito o altro) della donna che fornisce il lavoro di cura. Ci si può però chiedere se esso sia sfruttato da qualcun altro. Su questo punto mi sembra interessante la riflessione del femminismo di ispirazione marxista, secondo la quale il lavoro casalingo aiuta a tenere basso il prezzo della forza-lavoro maschile, cioè il salario, e di questo ovviamente approfitta il capitalista. In questa forma la tesi mi sembra poco convincente, ma d’altra parte credo che essa contenga uno spunto interessante, che cercherò di sviluppare. Provo adesso ad argomentare questi due punti.

Da una parte, la tesi femminista sopra citata mi sembra erronea, almeno nella forma appena enunciata. Si tratta di quanto ho già espresso nell’intervento citato nella nota [1], quindi non mi soffermo molto su questo punto: la moglie casalinga dell’operaio vive grazie al salario del marito, che deve quindi essere sufficiente a mantenere marito e moglie. In altri termini, il capitalista paga per il lavoratore e anche per la moglie, quindi non ha nessun particolare risparmio derivato dal lavoro casalingo.

Cerco adesso di esprimere quella che mi sembra possa essere una modifica interessante di questa tesi. Essa suggerisce che il lavoro di cura femminile può essere considerato un contributo alla produzione, in quanto è indispensabile alla riproduzione della capacità lavorativa dell’uomo. Anche in questa forma, la tesi mostra lati criticabili, almeno in relazione al problema dello sfruttamento: il fatto che l’uomo sia sfruttato (per esempio dal capitalista) non implica di per sé che lo sia anche la donna che fornisce il lavoro di cura. Basti pensare, per esempio, al fatto che anche i negozianti che vendono alla famiglia operaia cibo e bevande contribuiscono alla riproduzione della forza-lavoro, ma nessuno si sognerebbe di dire che essi sono sfruttati dal capitalista che sfrutta gli operai. Questo esempio indica però abbastanza chiaramente una differenza: da una parte operaio e negoziante sono due individui isolati e indipendenti, e infatti la loro relazione è mediata dalla compravendita monetaria; dall’altra, la relazione fra marito e moglie è totalmente diversa. Marito e moglie formano una comunità, la famiglia, che rappresenta una scelta di vita comune, e quindi condividono fortune e sfortune: se il marito ha un aumento di stipendio anche la moglie ne gode, se il marito ha un incidente sul lavoro che lo rende invalido è l’intera famiglia a finire in miseria. Nei due casi, il negoziante di cui sopra nota al più un piccolo aumento o una piccola diminuzione nelle vendite, e forse neanche quello. La famiglia tradizionale è una comunità di vita, e risponde in maniera solidale alle vicende della vita.

La riformulazione della tesi femminista potrebbe allora essere la seguente: nel caso di una comunità come quella della famiglia tradizionale, non è il lavoro dell’uomo di per sé ad essere sfruttato, né quello della donna, ma è il lavoro della famiglia, che nel caso dell’uomo è lavoro direttamente svolto nella produzione, nel caso della donna è lavoro indispensabile alla riproduzione della capacità di lavoro del marito o compagno. È interessante osservare che in questa formulazione la tesi non si applica solo alla famiglia tradizionale all’interno del modo di produzione capitalistico (famiglia operaia tradizionale sfruttata dal capitalista) ma anche alla famiglia di servi feudali sfruttata dal signore feudale, anche alla famiglia contadina che nelle società antiche deve fornire tributi al potere centrale; in definitiva, si applica ad ogni tipo di organizzazione sociale nella quale la famiglia, in una forma o nell’altra, sia lo schema sociale di base nel quale sono organizzati gli sfruttati (questo esclude in generale gli schiavi, che formano famiglie in maniera molto aleatoria a seconda dei tempi e delle situazioni).

Ci sono alcune conseguenze interessanti di questa tesi. Infatti, essa ci dice che il lavoro di cura femminile è sfruttato non direttamente ma in maniera mediata: è sfruttato tramite la mediazione dello sfruttamento del lavoro produttivo dell’uomo. Ma allora, se il lavoro maschile non è sfruttato, non lo è nemmeno quello femminile. Cioè, se l’uomo è in una situazione sociale nella quale il suo lavoro non subisce sfruttamento (il che può succedere per esempio nel caso di un artigiano indipendente o di un libero professionista), allora non subisce sfruttamento neanche il lavoro femminile di cura che la moglie svolge nei suoi confronti. Ma c’è di più. Se il lavoro dell’uomo è quello di uno sfruttatore, cosa dobbiamo pensare del lavoro femminile di cura da parte della moglie dello sfruttatore? Abbiamo detto che il ruolo fondamentale del lavoro di cura femminile è quello di riprodurre la capacità maschile di dedicarsi alla propria attività. Ma se l’attività in questione è quella di uno sfruttatore, il lavoro di cura femminile contribuisce a questa attività, cioè allo sfruttamento. E poiché la moglie dello sfruttatore ricava dall’attività del marito evidenti vantaggi materiali, mi sembra possibile concludere che il suo lavoro è quello di una sfruttatrice. Il lavoro di cura della moglie dello sfruttato è, con la mediazione del lavoro del marito, il lavoro di una sfruttata. Il lavoro di cura della moglie dello sfruttatore è, con la mediazione del lavoro del marito, il lavoro di una sfruttatrice. Ne consegue che il lavoro di cura femminile non è, di per sé, né sfruttato né sfruttatore: la sua natura, in questo senso, è subordinata alla situazione sociale della famiglia. Non c’è dunque nessuna analogia fra il lavoro di cura delle donne nelle diverse situazioni sociali, e viene meno la tesi che il lavoro di cura femminile sia una condizione sociale oggettiva che unifica le donne in quanto sfruttate dagli uomini. Esso non è una base su cui fondare una solidarietà fra donne. Almeno finché si considera esclusivamente il lavoro di cura femminile, da quanto argomentato appare che la solidarietà femminile è una ideologia mistificante che occulta il reale sfruttamento di uomini e donne dei ceti subalterni da parte di uomini e donne dei ceti dominanti.




Note


[1] http://www.badiale-tringali.it/2020/12/il-lavoro-non-pagato-delle-donne.html


[2] Il “modo di produzione asiatico” è una nozione che in Marx intende essenzialmente descrivere le specificità di società come quelle dell’antica India o dell’antica Cina, ma che è poi stato esteso a casi come quello dell’antica Mesopotamia, dell’antico Egitto o di alcune società precolombiane. Si tratta di una nozione sulla quale si è sviluppato fra marxisti un dibattito intermittente ma complessivamente di grande interesse. Un testo che riassume il dibattito fino agli anni ‘60 è: G.Sofri, Il modo di produzione asiatico, Einaudi 1969. Il manuale di storia antica di Massimo Bontempelli (con E.Bruni) applica tale nozione in modo illuminante: M.Bontempelli, E.Bruni, Il senso della storia antica, Trevisini, s.d.


[3] Non è rilevante discutere qui eventuali condizioni sufficienti.


domenica 27 dicembre 2020

Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, 3 (P. Di Remigio)

 

Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, parte 3

Paolo Di Remigio

(Terza ed ultima parte del saggio di Di Remigio. Qui la seconda parte)

 

III.   Vicenda politica

     Dal dopoguerra fino agli anni ‘70 gli stati europei hanno perseguito gli obiettivi keynesiani della crescita economica e della piena occupazione. L’ansia di ridurre l’attrazione esercitata dal mito sovietico ha spinto le oligarchie occidentali a consentire che anche i lavoratori godessero del benessere. Per le oligarchie era una concessione gravosa. Con la crescita economica e la piena occupazione aumenta il potere contrattuale dei lavoratori: le retribuzioni più alte erodono i profitti; la sicurezza dell’occupazione indebolisce il controllo imprenditoriale sulle aziende. Agli svantaggi del capitalismo industriale si sommano quelli del capitalismo finanziario: alti salari e posto fisso mettono le ali alla domanda aggregata, quindi stimolano l’inflazione; invece la finanza esige la deflazione che valorizza il denaro e favorisce i creditori. Con il fallimento dell’esperimento sovietico già evidente alla fine degli anni Settanta e il tramonto del suo mito, la parentesi keynesiana poteva essere chiusa. Si è avviata così una sovversione oligarchica per rimuovere la piena occupazione dagli obiettivi dello stato così da ridurre il potere contrattuale dei lavoratori[25]. Poiché però i lavoratori dipendenti sono anche elettori e l’ordinamento democratico è sensibile ai loro umori, il mezzo più sicuro per ridefinire i rapporti sul mercato del lavoro in senso favorevole al capitale, conservando nel contempo almeno l’apparenza di democrazia, era il ripristino dell’antica esclusione dello stato dalla sfera economica. Così negli anni Ottanta si è aperta l’epoca del neoliberalismo.

     I suoi ideologi hanno diffuso il dogma economico per il quale unico vero nemico della prosperità sarebbe l’inflazione. In verità negli anni Settanta essa era stata alimentata dall’aumento dei prezzi del petrolio più che dalla politica economica; il dogma però lo ha ignorato e ha sostenuto che a provocarla siano state le banche centrali dipendenti dallo stato con le loro emissioni sconsiderate di denaro a favore del clientelismo politico; era dunque necessario che le banche centrali fossero indipendenti dallo stato e non fossero più obbligate a creare denaro a sua richiesta. Nonostante fosse stato sganciato da ogni legame con l’oro un decennio prima e fosse ora del tutto fiduciario, il denaro tornava così a essere una merce scarsa, che non si trova «sotto gli alberi», che lo Stato deve comprare a caro prezzo sui mercati finanziari[26].

     Sostenere gli investimenti per assicurare la piena occupazione porta ora ad accumulare debito pubblico. Dopo l’allarme per l’inflazione il dogma neoliberale può lanciare quindi un nuovo allarme per un nuovo nemico, non meno temibile del primo, perché potrebbe trascinare gli stati e le economie alla bancarotta, ma molto più immorale perché, invece di punire la società attuale come fa l’inflazione, condanna i suoi figli a scontare con la povertà le gozzoviglie dei loro padri. Si sorvola sull’ovvietà che il debito pubblico, a differenza di quello privato, è garantito dalla banca centrale che crea denaro e che, quindi, se vuole, può sempre restituirlo; si sorvola che i figli ereditano non solo il debito pubblico, che comunque non devono restituire, ma anche il relativo credito privato e ciò che di durevole la spesa pubblica ha prodotto. Si trascura che la grandezza in generale è una determinazione relativa; che a esprimere la sostenibilità del debito è non l’esiguità del suo ammontare, ma la diminuzione del rapporto debito/PIL; che dunque la sostenibilità può essere ottenuta non dai risparmi di spesa pubblica ma dai suoi aumenti in quanto comportano un aumento più che proporzionale del PIL[27]. Si sorvola e si trascura, perché il debito dello stato è un pretesto; in realtà si vuole il taglio della sua spesa; solo l’austerità consente infatti di avvicinare il vero scopo: l’aumento della disoccupazione che ridefinisce a favore del capitale i suoi rapporti col lavoro. Inoltre, si vuole inibire ogni intervento dello stato nell’economia che non sia di assistenza alle follie del mondo finanziario. Secondo la formula del presidente Reagan: il governo non è la soluzione, anzi è il problema, – che si risolve se lo stato cessa di mettere becco nell’economia per sostenere gli investimenti e l’occupazione, taglia le tasse e le spese e svende il suo patrimonio per pagare i creditori; e non dimentica infine di abolire le regole che, per difendere l’economia nazionale e i diritti del lavoro, limitano la libertà delle oligarchie.

     Il neoliberalismo apre così l’epoca in cui patrimonio e servizi pubblici sono svenduti e i fattori produttivi sono posti in libero movimento, l’epoca della globalizzazione. I capitali si muovono ora dai paesi ricchi per investire nei paesi poveri, dove trovano un costo del lavoro irrisorio; le merci si muovono dai paesi poveri ai paesi ricchi distruggendo con il fuoco del loro prezzo irrisorio le produzioni locali; e accanto alle merci si muovono i poveri. I lavoratori nei paesi ricchi, esposti per un verso alla concorrenza del lavoro nei paesi poveri, esposti per l’altro alla concorrenza dell’immigrazione, che il crimine organizza e i politici globalizzanti apprezzano, subiscono l’annientamento del loro potere contrattuale sul mercato del lavoro, tanto che i loro sindacati sono ridotti a corporazioni fasciste.

     Finisce così l’epoca del posto di lavoro sicuro e degli alti salari completati dai servizi sociali e dalle pensioni. Tutti gli umani, non meno delle merci, dei servizi e dei capitali, devono ora assoggettarsi a una mobilità sconfinata. Il migrante che vive nella zona grigia tra inclusione ed esclusione, o addirittura in quella tra legalità e illegalità, lì dove è facile essere ricattati, è ora celebrato come archetipo del nuovo lavoratore. A officiarlo non sono mancati sociologi entusiasti della fine delle tutele, della fecondità dell’ozio, del rifiuto del salario come nuovissima arma di lotta operaia. La sovversione oligarchica non sarebbe però stata così irresistibile se essa non avesse vestito i panni dell’antico sovversivismo progressista, se la sinistra non si fosse prestata a mascherare un disegno reazionario con la sua retorica internazionalista, illuminista o rousseauiana.

     La morsa del doppio sovversivismo ha stritolato l’Italia ancora popolata dei fantasmi degli anni Settanta. Il nostro paese vive la storia mondiale in ritardo, perché la fine della guerra non ha segnato la pace, ma solo la tregua. Contro il comunismo gli anglo-americani hanno reclutato nella NATO anche gli ex fascisti: una trama nera, secondo l’espressione di Togliatti[28], capace di logorare il ricamo sul tessuto costituzionale della repubblica democratica. Dall’altra parte, nonostante sapesse che il terrore era parte integrante dell’utopia realizzata nel mondo orientale, il PCI ha conservato il suo sovversivismo rivoluzionario, coniugato secondo la strategia gramsciana della guerra di posizione, oppure, nella sua componente massimalista più avventata, secondo il modello leninista dell’insurrezione.

     In un clima di conflitto latente, i settori progressisti della Democrazia Cristiana hanno aperto l’economia italiana alle politiche keynesiane, in misura più timida con De Gasperi, in misura più decisa con Fanfani. È anche questa apertura ad aver determinato il grandioso successo economico dell’Italia a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Il messianismo comunista vi ha perso la sua ragione storica: il progresso materiale dei lavoratori italiani è stato superiore a quello dei lavoratori dell’Unione Sovietica, e, ciò che importa essenzialmente, si è realizzato senza rinnegare la persona. D’altra parte, la crescita inaudita dell’influenza dell’Italia nel Mediterraneo ha svuotato di senso ogni nostalgia fascista: quanto Mussolini cercava con la sua guerra sciagurata, l’audacia di Enrico Mattei lo ha realizzato con la pace. La guerra civile latente non aveva più una base oggettiva; tanto è vero che il suo riesplodere negli anni Settanta è contestuale alla crescita economica e a importanti riforme della vita civile.

     Già negli anni Sessanta, invece, la politica keynesiana, che Fanfani e poi Moro hanno cercato di stabilizzare con la formula politica del centro-sinistra, ha incontrato gli ostacoli del vincolo esterno, eredità della sconfitta nell’ultima guerra: un apparato dello stato in cui si annidano fascisti, fedeli non alla Costituzione ma alla NATO, che esasperano il conflitto di classe; alcune potenze straniere preoccupate per il dinamismo mediterraneo dell’Italia e pronte a favorirne la destabilizzazione, l’ostilità delle superpotenze all’avvicinamento dei comunisti al governo.

     In questo contesto, ma senza comprenderne nulla, si inserisce la protesta studentesca alla fine degli anni Sessanta. Quale appare in un documento significativo come le «Tesi della Sapienza», essa soffre una profonda contraddizione, quella tra il considerare lo studente un lavoratore produttivo e il considerare il suo studio finalizzato all’autonomia culturale[29]. Gli studenti vi incorrono per il desiderio di avere un salario come se lavorassero produttivamente[30]. La pretesa assurda di essere già lavoratori produttivi, la cesura del miracolo economico che ne fa dei consumisti viziati in rotta con genitori e docenti vissuti in epoche difficili [31], un marxismo rozzo che riveste un elementare sovversivismo messianico, tutto ciò li porta a rifiutare il lavoro proprio dello studente: lo studio. Essi lo condannano come trasmissione di un passivo nozionismo[32] e vorrebbero sostituirgli un nuovo metodo attivo: la «co-ricerca» insieme agli insegnanti, che ne annulla l’autorità e li riduce a collaboratori. Per quanto il termine di co-ricerca possa oggi sembrare ridicolo, si tratta della stessa contorsione pedagogica che poi si è manifestata come scuola delle competenze: è sempre l’intolleranza messianica della realtà che, scavalcata la conoscenza, atterra sulla cieca prassi e a scuola reclama immer wieder la didattica attiva. E quell’innovazione è finita allora esattamente dove finisce quella odierna: nell’ignoranza spaventevole coperta dai voti esuberanti, che allora furono nobilitati con la qualifica di ‘politici’, oggi si potrebbero chiamare ‘inclusivi’.

     Solo una visione interessata potrebbe ignorare che le «Tesi della Sapienza» sono state scritte da una minoranza violenta. Non solo perché la loro controparte vi è definita in stile manicheo, come una classe dominante tutta d’uno pezzo, come il capitale[33], ma anche perché ai docenti e all’intero Ministero della Pubblica Istruzione è negato l’onore di essere controparte; le tesi li considerano semplici comparse, la cui opposizione non merita ascolto, non può dunque essere superata discorsivamente[34]. Inoltre la minoranza di facinorosi esercita una coazione sulla maggioranza degli studenti: «Il movimento sono le assemblee e gli studenti che contribuiscono al dibattito e all’azione pratica promossa dalle assemblee»[35]; la maggioranza, che a buon diritto non intende partecipare alle assemblee illegali, è assoggettata in modo dittatoriale alle azioni che esse promuovono. Il partito armato degli anni Settanta non è dunque una degenerazione imprevedibile e malaugurata, ma il ricorso alle chiavi inglesi e alle armi da fuoco di una protesta studentesca violenta fin dagli inizi.

     Perché al tempo si sia lasciato devastare la scuola italiana a pochi facinorosi incapaci di scrivere due frasi senza contraddirsi, può essere spiegato in parte con la protezione loro assicurata dalle famiglie borghesi di provenienza[36], in parte con l’esitazione di alcuni a usare contro di loro la forza di uno stato traboccante di fascisti, ma soprattutto con l’intento di strumentalizzarli coltivato da chi all’estero aveva già pianificato la strategia della tensione[37]. Essa consisteva nell’aiutare i neofascisti a fare strage di cittadini inermi per poi incolparne la sinistra, con due obiettivi: fermare lo scivolamento verso sinistra[38] dell’Italia e rintuzzarne i successi mediterranei. I pianificatori del terrore devono aver visto come una fortuna insperata che la contestazione studentesca, abbagliata da una prospettiva rivoluzionaria del tutto inesistente, si insinuasse nelle fabbriche e diventasse «partito armato». Il volontarismo messianico dei contestatori precludeva loro la conoscenza, tanto più quella del presente: essi capiscono che a piazza Fontana si è consumata una strage di Stato, ma non sanno di che stato si tratti. Così reagiscono alla cieca, sulla base dell’indignazione[39],  proprio contro lo stato aggredito, anziché contro lo stato aggressore, di cui si ritrovano complici. Inizia qui, con l’indignazione, l’abitudine della nuova sinistra a tradire lo stato.

     I tanti servitori del vincolo esterno che inquinavano lo stato hanno lasciato incrudelire il terrorismo fino a quando i loro padroni hanno considerato raggiunto lo scopo che si erano prefissi. Liquidata l’apertura a sinistra di Moro con la sua uccisione, l’Italia era pronta anche alla liquidazione neoliberale dell’interventismo economico dello stato e a saldarsi con un cerchio ferreo al vincolo esterno. Avviata negli anni ’80 da Andreatta con il divorzio dalla Banca d’Italia e da Craxi con la soppressione della scala mobile, la liquidazione dell’interventismo economico è stata completata negli anni Novanta da una sinistra tutta confluita nel neoliberalismo; essa ha anche cercato di renderla definitiva cedendo la sovranità nazionale all’asse franco-tedesco sotto la bandiera della UE. Dopo che un suo settore ha servito senza accorgersene gli interessi stranieri, tutta la nuova sinistra è passata a servirli con consapevolezza, come sempre in nome del messianismo, ora quello che anima il sogno europeo[40].

     Devastata dal basso dalla protesta studentesca degli anni Sessanta, la scuola non si è più liberata dall’odio attivistico della conoscenza; da una parte il PCI ha dato un’eco alla devastazione avanzando nel 1974 l’esigenza assurda di una scuola democratica, cioè di una scuola senza maestri; dall’altra, l’ideologia neoliberale già incombente voleva una scuola che fornisse forza lavoro flessibile. Così negli organigrammi del Ministero dell’Istruzione sono arrivati i vecchi eroi della lotta al nozionismo che, liberatisi dal frasario marxista e da tanti ricordi imbarazzanti, hanno completato dall’alto la devastazione della scuola con riforme ispirate agli stessi equivoci coltivati impunemente in gioventù. ­Sono dunque stati ministri di sinistra quali Bassolino e Berlinguer a imporre agli istituti l’autonomia dallo stato, agli insegnanti la riconversione in animatori (co-ricercatori, avrebbero detto venti anni prima) [41] e a stabilire nella scuola il nuovo principio: non più la conoscenza, né scienza né cultura, perché la continua rivoluzione tecnologica sembra rendere inutile la «scienza astratta»[42], ma il cambiamento.

     Il nuovo principio genera nella scuola una condizione inaudita. Il sensato è utile e tende a conservarsi uguale a sé; è l’insensatezza che, essendo inutile o dannosa, non dura, e può conservarsi solo assumendo panni sempre nuovi. Poiché si ispira al mito del cambiamento continuo, la scuola attuale è l’apoteosi dell’insensatezza: un dispiegamento di esperimenti senza esito, di mezzi senza scopo, di procedure senza risultato, in una palude di rassegnata passività in cui infine l’attivismo didattico si rovescia e manifesta la sua essenza.

     La sinistra si lega al cambiamento perché le consente di rivestire le tendenze schiaviste della sovversione neoliberale con i panni del suo antico umanitarismo, di nobilitarle e di nascondere così ciò che il suo sovversivismo è diventato. Prolifera così nella scuola italiana una selva di coincidenze tra struttura e sovrastruttura. La pedagogia progressista scopre che i docenti devono stimolare la creatività proprio quando nel mondo neoliberale i lavoratori devono rispondere alla disoccupazione inventandosi un lavoro; scopre che i docenti devono avviare il lifelong learning proprio quando l’ideologia neoliberale decide che devono saltare da un lavoro all’altro. Mentre le oligarchie fanno dell’occupabilità il nuovo paradigma di vita, i pedagogisti progressisti raccomandano ai giovani i videogiochi e considerano un fattore di corruzione la conoscenza con le sue riprovevoli esigenze di sicurezza e di σχολή. Mentre le oligarchie dispongono che si viva nella precarietà, i progressisti scoprono che l’insegnamento deve essere improvvisato e le loro riforme esasperano a tal punto la flessibilità didattica che ogni scuola ripianifica la sua attività ogni anno ed è premiato chi sperimenta progetti e innova didattiche. Mentre gli industriali fanno della scuola un mero preludio al mondo del lavoro, la sinistra unisce l’antica centralità socialista del lavoro all’antico rifiuto della proprietà privata, così gli attuali studenti lavorano senza retribuzione. Mentre gli oligarchi dichiarano aboliti i legami stabili, in primo luogo quello della famiglia, la sinistra riscopre la sua antica diffidenza verso questo istituto e apre la scuola all’educazione affettiva in cui gli esperti esterni si diffondono sull’erotismo sterile e relegano la fecondità sessuale a un imbarazzante residuo animale. Mentre l’avidità di lavoro a costo infimo trasforma ogni società in un andare e venire di migranti, il progressismo esalta la società multiculturale in cui coesistono diverse culture, vale a dire diritti incompatibili; dunque esige che la scuola abolisca la sua specificità culturale[43] e diventi una zona neutra in cui i contrasti non emergano dalla latenza.

 

IV.   Prospettive.

     Sciogliere il cappio della doppia sovversione, oligarchica e progressista, che soffoca il senso della realtà; dissolvere la maledizione dell’attivismo didattico che riduce la scuola a un manicomio; ricostituire la scuola come educazione attraverso la conoscenza: porsi questi obiettivi non può essere iniziativa di un progetto politico di parte; nasce prima o poi da una preoccupazione generale per la civiltà, dallo stupore che la verità sia ignorata nel nome del volontarismo distruttivo, dalla noia per le novità sempre identiche. Su noi tutti incombe dunque il compito di ricostituire la scuola della conoscenza, la scuola della verità, liberando la non-scuola attuale dall’ingorgo attivistico che ne soffoca la vita.

     1) Occorre liberare la scuola dai compiti direttamente educativi, che non le competono. La scuola educa attraverso le conoscenze e la severità legata alla conoscenza; l’educazione diretta è compito della famiglia e delle leggi dello stato. Occorre eliminare ogni educazione dalla scuola, la stessa educazione civica, e sostituirla con lo studio diretto del diritto e dell’economia. Trascurarli è stato uno degli errori più gravi della scuola antica, perché la loro ignoranza ha favorito come null’altro il proliferare del sovversivismo palingenetico.

     2) Occorre eliminare consigli, assemblee, consulte, perché la scuola non è regolata dal principio democratico della maggioranza, ma dal principio scientifico dell’accordo con la cosa. Nell’impossibilità di ottenere la prevalenza elettorale e l’accesso al potere di governo, il PCI negli anni ’70 adottò la strategia gramsciana di avanzamento lento nelle strutture dello stato e ottenne la costituzione di una complessa quanto inutile macchina di organismi elettivi nella scuola. Essi furono subito disertati da chi lo poteva, cioè dai genitori, al punto che da sempre i consigli di classe sono spesso privi della loro rappresentanza, mentre le assemblee di classe e di istituto assumevano lo scopo di alleggerire l’orario e di creare ponti aggiuntivi tra le festività. La loro sopravvivenza è deducibile solo dal principio dell’insensatezza che regola la non-scuola attuale. I fossili di questi organismi sono punti d’accesso alla vita della scuola per un sindacato del tutto indifferente alla qualità della scuola pubblica, sensibile soltanto agli interessi della sua burocrazia e che non ha mai mancato di apporre la sua firma a quanto è stato perpetrato dai governi della seconda repubblica, anzi di ispirare il peggio. I rapporti scolastici sono tra individui: ci sono questi alunni e questi genitori; hanno rapporti significativi non con la struttura generale dell’istituto scolastico, ma con questi insegnanti. Alunni e genitori non sono gruppi sociali con interesse comuni da tutelare contro gli insegnanti; è insensato che abbiano una rappresentanza stabile nell’istituzione scolastica. L’autorità degli insegnanti non è politica, è culturale, non contrasta interessi legittimi, ma soltanto l’ignoranza e gli ignoranti hanno un solo interesse, cessare di esserlo. A scuola le azioni collettive possono avere carattere solo occasionale, non istituzionale.

     3) Gli istituti vanno liberati dal falso aziendalismo: deve cessare ogni incoraggiamento o assillo alla concorrenza reciproca; deve finire lo sforzo di sottrarsi gli alunni a vicenda. Non solo nelle scuole superiori esso porta al cinismo di ignorare le attitudini degli alunni, che provoca loro gravi danni, in generale costringe a una penosa corsa al ribasso. Nessun istituto può infatti sperare di aumentare i propri iscritti promettendo insegnanti rigorosi, studio severo, controllo sistematico dello svolgimento dei compiti, verifiche frequenti, correzioni accurate, valutazioni esatte – tutto al contrario! La concorrenza tra le scuole le spinge inesorabilmente a ridimensionare gli obiettivi didattici e a trasformarsi in un parco giochi; le energie degli insegnanti vi sono dilapidate in attività pubblicitarie; gli alunni vi diventano clienti da adulare.

     4) Occorre liberare la scuola dai controlli ossessivi sulle procedure che causano la dispersione di enormi energie in attività burocratica. Occorre che gli insegnanti insegnino e che non si riducano a segretari di sé stessi. La scuola attuale è ossessionata da una quantità inestinguibile di adempimenti finalizzati a documentare l’applicazione delle procedure imposte dalla burocrazia ministeriale. Non solo, però, la compilazione dei documenti non attesta l’effettiva attuazione delle procedure, ma, soprattutto, l’attuazione delle procedure è il riscontro più sicuro dell’indifferenza al loro risultato. Di fatto si è finiti nell’abbruttimento generale, e il prezzo della dissimulazione dell’ignoranza degli alunni è pagato con la moneta falsa delle valutazioni esagerate. Il miglioramento radicale della scuola deriverà dal fissare ragionevoli obiettivi statali di apprendimento disciplinare, dal non impedire l’insegnamento agli insegnanti, dal chiedere loro non di innovare ma di preoccuparsi che i loro alunni apprendano. – Quanto al controllo del risultato, gli insegnanti delle fasi successive sono i giudici naturali del lavoro degli insegnanti precedenti. È sufficiente non ignorare questo dato di fatto per avere il miglior sistema di valutazione interna senza ricorrere a enti di valutazione esterna che insinuano nella scuola interessi non legittimati.

     5) Occorre porre fine alle chiacchiere sugli obiettivi trasversali. Essi sono direttamente perseguiti nei gradi inferiori di scuola (inferiore qui significa più vicino al fondamento, più importante) mediante lo studio grammaticale; sono presupposti, quindi perseguiti indirettamente da ogni disciplina. Perseguirli direttamente nei gradi superiori significa dunque rassegnarsi al fatto che nei gradi inferiori si sia fatta innovazione didattica e sia mancato l’apprendimento. Poiché nella particolarità delle discipline è implicata l’universalità perseguita invano dagli obiettivi trasversali, le discipline devono tornare ad essere perseguite nella loro autonomia. Lo sguardo sintetico che non voglia ridursi a un delirio di associazioni fantastiche (tante prove d’esame sono soltanto questo) nasce dal fatto che ogni disciplina è articolazione di uno stesso contegno teoretico rivolto all’essenza delle cose, e dall’approfondimento filosofico di cui ogni disciplina è suscettibile qualora sia coltivata con passione.

     6) Compito della scuola non è affatto mettere gli alunni di fronte al singolo caso concreto infinitamente determinato, osservabile dunque da infiniti punti di vista, ma insegnare loro a elevarsi ai punti di vista universali, contenuti nelle discipline principali e nelle loro principali leggi astratte, e ad applicarli ai casi esemplari. La scuola non disperde gli alunni in una città sconosciuta, dà loro la mappa e insegna a usarla. Quest’ordine dall’astratto al concreto non può essere rovesciato; l’astratto, benché più difficile per l’intuizione e l’immaginazione, è l’inizio per il pensiero, vero attore della conoscenza. Non è un caso che i bambini abbiano sempre iniziato la scrittura dalle singole lettere per poi passare alle sillabe e infine alle parole, e che il procedimento contrario sia causa di difficoltà.

     7) La scuola è ciò per cui il competente differisce dal dilettante; solo essa consente di acquisire le conoscenze universali in cui è contenuto il perché delle leggi, che consentono dunque la sicura interpretazione dei casi concreti. La creatività, ossia il rapporto con il caso concreto, senza aver acquisito le conoscenze universali e la capacità di applicarle, è dunque dilettantismo, proprio il male di cui la scuola è il rimedio. È dunque del tutto inopportuno che la scuola si proponga di alimentare la creatività degli alunni. Se si vuole aiutare il futuro poeta occorre assegnargli la composizione di sonetti e canzoni in rima, non applaudire le sue libere prove immature. Il compito della scuola è la conoscenza universale (cioè astratta) e la sua applicazione ai casi esemplari; l’attività propria dell’allievo è capire ed esercitarsi nell’applicazione delle regole, solo marginalmente la creatività. Questa spetta all’adulto.

     8) L’insegnante non è in relazione con l’alunno perché lo usa come cavia su cui verificare ipotesi pedagogiche, ma perché è cultore della propria disciplina. Innanzitutto alla disciplina vanno la sua passione e il suo rispetto; se egli non è esempio di vita teoretica, il suo insegnamento allontanerà gli alunni dallo spirito della verità anziché attrarveli. In secondo luogo, l’insegnante ha simpatia per la gioventù, fiducia nelle sue capacità, propensione a incoraggiarla, pazienza per i difetti che le sono propri e desidera il progresso cognitivo di tutti gli alunni che gli sono affidati. Sa però che il progresso può essere ottenuto solo con lo studio personale, quindi lo chiede, lo controlla, lo valorizza. Questa valorizzazione non equivale affatto alla valutazione, consiste invece nell’accuratezza della correzione di ciò che l’alunno elabora. Senza correzione non c’è aiuto individualizzato al progresso. Occorre che la correzione degli elaborati scritti, in quanto momento essenziale e di massima fatica dell’insegnamento, sia compensata da un’apposita indennità.

     9) L’attuale non-scuola pone un accento sconsiderato sulla valutazione; come se presupponesse lo schema marxista che l’insegnante sia il nemico di classe dell’alunno e volesse correggerlo, al primo essa impone procedimenti tanto umilianti quanto controproducenti per rendere trasparente l’attribuzione del voto. Oggi si valuta (meglio, si finge di valutare) con griglie di decine di indicatori, in decimi, in quindicesimi, venticinquesimi, quarantesimi e via delirando. La scuola non è però un concorso in cui la valutazione deve determinare la posizione relativa dei concorrenti; la valutazione scolastica deve parlare al singolo alunno e deve farlo in un linguaggio semplice. Che un tempo si valutasse dal 3 all’8 è un chiaro indice dell’eccesso della stessa valutazione decimale. Poiché i numeri hanno una determinatezza qualitativa tanto più pronunciata quanti meno sono, la scuola ricostituita valuterà in quinti o in sesti.

     10) Mentre si tenta di abolire le discipline, ciò che ne resta si è sempre più allontanato dalle fonti originarie, tanto che oggi i manuali sono riassunti di terza, quarta mano, che a ogni passaggio si sono svuotati di contenuto intellettuale e si sono caricati di errori. In compenso sono diventati un labirinto di foto, di mappe, di inserti, di figure dozzinali, come se volessero mettere al cimento le capacità di attenzione dei lettori. È necessario promuovere nelle discipline, in particolare in quelle a carattere idiografico, un’attenuazione dell’attuale carattere enciclopedico e ripristinare il contatto diretto con i classici. Occorre che ogni libro di testo recuperi la sobrietà dell’aspetto e abbia una ricca parte antologica; occorre che le antologie siano compilate con gusto, che i loro racconti siano innanzitutto belli[44], non ipotecati da ideologie.

     11) L’alunno, non più cliente, torna a essere uno studioso. All’insegnante spetta suscitargli l’amore o almeno il rispetto della disciplina; a lui spetta però la fatica dell’apprendimento: nessuno può infatti farlo al suo posto, nessuno può apprendere per un altro. È l’alunno che deve riempire, sì, riempire, la sua memoria di nobili contenuti, cioè di conoscenze universali, è lui che deve acquisire l’agilità mentale esercitandosi, è lui che deve imparare l’attenzione, l’ascolto, la lettura e i procedimenti cognitivi per afferrare l’essenza dell’oggetto.

     12) Occorre non solo che la burocrazia ministeriale sia contenuta nei suoi interventi ma che il suo linguaggio recuperi concisione e sobrietà, che esprima con chiarezza gli adempimenti della scuola senza volerle insegnare il mestiere, che cessi di intimidire i docenti ricorrendo ai neologismi, tanto meno ai termini stranieri che creano l’atmosfera deprimente di una nazione colonizzata[45]



[25] Alcuni sociologi si mostrano terrorizzati dal diffondersi inarrestabile della disoccupazione, effetto, a loro dire, dello sviluppo tecnologico – come se non ci fosse una risposta ovvia all’aumento della produttività del lavoro e su questa risposta non poggiasse l’umanità stessa! Se la tecnica rende il lavoro umano più produttivo, gli uomini possono passare meno tempo a lavorare. Non è una prospettiva catastrofica né disumana: gli animali esauriscono il loro tempo a procacciarsi cibo e a digerirlo, gli uomini sono tali per la σχολή. Il terrore dei sociologi è un’astuzia con cui il mezzo più efficace della rivoluzione conservatrice, la disoccupazione, è camuffato da inconveniente indesiderato della tecnica.

[26] È tra i meriti del prof. Bagnai e del prof. Borghi la rivelazione dell’abisso teorico o morale in cui si gettano i tanti economisti disposti a sostenere che il denaro sia una merce scarsa in sé, contro le smentite degli stessi presidenti delle banche centrali che, interrogati, confessano senz’altro, a volte attoniti a volte divertiti per l’ingenuità della domanda, di creare ex nihilo montagne di denaro per consentire agli stati di fronteggiare le crisi finanziarie in cui si infila il mercato.

[27] Un rapporto non aumenta e diminuisce in modo così semplice come l’aumento e la diminuzione di un numero: ogni rapporto diminuisce sia se diminuisce il numeratore, sia se aumenta il denominatore, e viceversa. Ne segue che una diminuzione della spesa pubblica al numeratore, in quanto provoca una contrazione dell’attività economica che riduce ancora di più il PIL al denominatore, fa aumentare il rapporto e come una spada a doppio taglio rende non solo l’economia più povera ma anche il debito più insostenibile. E viceversa.

[28] Cfr. Miguel Gotor, L’Italia nel Novecento, Einaudi, Torino 2019, p. 205.

[29] «Il diritto allo studio appare, se rettamente inteso, come un caso particolare del diritto al lavoro; esso si configura quindi come diritto ad una formazione culturale autonoma…». Cfr. Progetto di tesi del sindacato studentesco, più noto come «Tesi della sapienza», p. 17, disponibile al seguente indirizzo: tesidellasapienza.pdf. Il “quindi” traveste da rapporto di conseguenza un rapporto di opposizione: o lo studio è finalizzato al lavoro produttivo, quindi ha un carattere particolare per cui può inserirsi in una nicchia della divisione del lavoro, o è indirizzato alla formazione culturale autonoma, perciò ha un carattere universale.

[30] «… lo studente è un lavoratore e, come tale, se produce, ha diritto al salario, e, se non produce non ha diritto di restare all’interno dell’università». Ibidem, p. 21. La sottolineatura è degli autori.

[31] Il consumismo, più del comunismo, degli studenti è evidente nel Progetto di tesi: a p. 22 si chiede la «… creazione, in ambito cittadino e non esclusivamente universitario [così possono andare a zonzo], di infrastrutture culturali, sportive e ricreative (teatri, biblioteche, sale di riunione, stadi, palestre, parchi attrezzati) adeguate alle necessità degli studenti».

[32] Una terminologia intollerante della teoresi che si è conservata immutata per mezzo secolo. Cfr. ibidem, p. 19: «…c. studi in istituti scolastici a carattere liceale anche essi scarsamente formativi perché basati su di una trasmissione passiva di una cultura di carattere nozionistico, e perché tutti incentrati sulla verbalità e sulla razionalità di tipo scientifico astratto, che sono soltanto una delle tante possibilità di sviluppo aperte allo spirito umano». In contrasto con questa sentenza di condanna sommaria, poco dopo gli autori osservano che all’università si accede quasi esclusivamente dai licei perché «…la preparazione che si riceve negli istituti professionali non trova adeguata rispondenza nei metodi e nelle forme della istruzione universitaria», quindi la preparazione ricevuta nei licei, quella scientifica astratta, non è così scarsamente formativa come il termine nozionismo vorrebbe insinuare. La contraddizione inavvertita è la regola della protesta studentesca.

[33] Ibidem, p. 11.

[34]Ibidem, p.11: «Il governo e il ministero della pubblica istruzione, i rettori ed i professori di ruolo, non si identificano mai con la controparte. Tutto ciò che fanno… non è che l’espressione mediata di un piano organico del capitale. In questa luce si spiega la debolezza concettuale e la contraddittorietà dei documenti citati».

[35] Ibidem, p. 10.

[36] Pasolini non si lasciò ingannare dalla retorica marxista degli studenti e non ebbe difficoltà a riconoscere il privilegio sociale dietro la loro arroganza. Cfr. la poesia «Il Pci ai giovani» al seguente indirizzo: http://temi.repubblica.it/espresso-il68/1968/06/16/il-pci-ai-giovani/?printpage=undefined

[38] L’espressione è del gen. Maletti. Cfr. l’articolo citato nella nota precedente.

[39] Così il brigatista Enrico Fenzi, citato in Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano. Einaudi, Torino 2020, p. 444.

[40] La vicenda alla base di questo passaggio si svolge nella cornice dello scontro tra Andreotti e Cossiga nel 1990. Dalla ricostruzione di Gotor risulta che all’invito di Cossiga a «farla finita con i fantasmi del passato» legati alla guerra fredda, «prevalse nel segretario del Pci-Pds Occhetto la convinzione che il vento dell’antipolitica e la critica del sistema dei partiti avrebbe gonfiato le vele della nuova formazione da lui diretta, conducendola dritta al governo dopo oltre quarant’anni di opposizione. Senza colpo ferire. Sarebbe bastato negare a se stessi di essere stati comunisti italiani, riconvertirsi a nuovi verbi azionisti, radicaleggianti e kennediani e fare finta che il Pci non fosse mai esistito con le sue luci e ombre. In questi giorni decisivi Occhetto e i suoi più stretti collaboratori, fra cui l’ex militante trockijsta Paolo Flores D’Arcais, commisero un errore gravido di conseguenze, giacché si mostrarono privi di… senso della storia… Sarebbe prevalso il senso della comunicazione come tecnica di trasmissione di un messaggio genericamente nuovo, languido e autorigeneratore». Ibidem, p. 143.

[41] A p. 5 della lettera premessa alla raccolta dei pareri della commissione dei saggi riunitasi nel 1997, il prof. Berlinguer si chiedeva «come deaccademizzare l’insegnamento, rendendolo vivo e partecipato, conservandone rigore e qualità?» –come se l’insegnamento accademico non possa essere vivo e partecipato, come se il rigore e la qualità non suscitino mai per sé stessi partecipazione vitale, come se questa possa destarsi solo davanti al culinario. Che personaggi così compenetrati di materialismo volgare abbiano riformato la scuola è uno degli aspetti più umilianti delle sue sciagure. La lettera è consultabile al seguente indirizzo: https://www.orientamentoirreer.it/sites/default/files/norme/1997%20conoscenzefondamentali%207878.pdf

[42] Versato anche in epistemologia, il prof. Berlinguer sostiene che la scienza stessa non abbia nulla di definitivo, ma sia agitata da una continua rivoluzione. A p. 4 del documento citato, scrive: «Ma è il mondo che, messosi a camminare con tempi e stili sempre più impetuosi, nel corso di questo secolo, ci ha condotto a modificare l’idea stessa di conoscenza e di esperienza, quindi di formazione. Nel giro di pochi decenni si è rivoluzionato il territorio delle scienze, delle arti, delle tecniche ed è cambiato il modo stesso di stare nel mondo, da parte degli individui e dei gruppi». Non si rende conto, il professore, che puntare tutte le carte dell’epistemologia sul cammino impetuoso del mondo, sul modificare, sul rivoluzionare, significa ridurla al più squallido scetticismo, quello che lascia che tutto finisca nella pattumiera del passato senza aver degnato nulla di uno sguardo.

[43] Nella nuova scuola si evita perfino il presepe di Natale.

[44] Non può essere un intento estetico quello che ha indotto Rosetta Zordan a includere nella sua antologia «Autori e lettori» una modernizzazione della fiaba di Cappuccetto Rosso, in cui la bambina si accorge che è il lupo ad essere coricato nel letto della nonna e lo fredda a colpi di pistola automatica. È un esempio tra tanti.

[45] Cfr. l’articolo del prof. Di Biase, Prolegomeni per un vocabolario Itanglianish-Italiano, al seguente indirizzo https://telegra.ph/Prolegomeni-per-un-vocabolario-Itanglianish-italiano-11-29


sabato 26 dicembre 2020

Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, parte 2 (P. Di Remigio)

(Seconda parte del saggio di Di Remigio. La prima parte la trovate qui. La terza parte la trovate qui. M.B.)

 


Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, 2

Paolo Di Remigio


II  La lezione della storia

 

a) Il mondo greco

     Quanto accade allo stato e alla conoscenza sotto i nostri occhi increduli non accade per la prima volta; anzi la maggior parte della storia è segnata dall’esistenza di stati imperfetti, offensivi della persona, e dalla difficoltà degli uomini ad assumere il contegno della libera teoresi. Interi mondi non sono andati al di là del mito e del timore. Il distacco decisivo dal pensiero desiderante e l’inizio della considerazione oggettiva risalgono alla cultura ellenica. Per quanto ci appaiano ingenue, le prime filosofie della natura sono i primi tentativi di spiegare il mondo senza mito. Il contegno teoretico come forma di vita inizia però con Socrate – che fu sentito come novità assoluta dai suoi stessi contemporanei[11]. Tre sono i caratteri di Socrate che determinano l’essenza della teoresi: innanzitutto, il compiuto dominio degli impulsi, tale da consentirgli non solo di rifiutare con garbo le avances del bellissimo Alcibiade ma anche di preferire la morte alla fuga, – in altri termini l’essere libero dalla limitatezza delle passioni; poi, il dialogo in cui gli interlocutori esercitano la critica reciproca delle loro opinioni; infine, il risultato negativo, ossia il rifiuto del cosiddetto pensiero di gruppo: per Socrate è essenziale che gli interlocutori non si accordino tra loro a danno della cosa, è essenziale che, se è fallito il tentativo di armonizzare le diverse determinazioni della cosa di cui ognuno si faceva portavoce, gli interlocutori riconoscano con serenità il fallimento. Da Socrate in poi conoscere non è ridurre l’oggetto al progetto soggettivo, ma è trovare la verità, cioè l’accordo del soggetto con l’oggetto, un abbraccio corrisposto che non può essere sostituito dall’accordo dei pensanti contro l’oggetto. Mentre il gruppo che si coordina per agire deve comunque raggiungere un accordo su come farlo, altrimenti vi rinuncerebbe, e questo, se ci fosse necessità di agire, sarebbe il peggio, il gruppo che si confronta per conoscere non ha bisogno di raggiungere una conclusione positiva entro un tempo dato, può sempre apprezzare la constatazione che manca ancora il concetto in cui si compongono le differenze emerse, e ripromettersi ulteriori sforzi per raggiungerlo. Un tratto essenziale del contegno teoretico inaugurato da Socrate è l’operosità, esplicitamente richiamata nel Menone[12].

     Alla sobria eroicità della teoresi Platone sacrifica la sua produzione poetica, riconoscendo così la forma logica superiore alla forma dell’immaginazione. La sua teoria delle idee è il risvolto positivo dell’atteggiamento socratico: l’idea è l’universale in senso dialettico, la figura in cui si compongono i contrasti nella cosa e la pluralità dei punti di vista che ne derivano e su cui i sofisti avevano soltanto giocato[13]. Del primato del contegno teoretico il Simposio offre il documento definitivo. Il suo tema è il desiderio erotico. Mentre gli elogi a Eros dei commensali riflettono sugli effetti e sulle cause delle diverse forme di piacere erotico, Socrate fa suo un punto di vista femminile, raccontando i discorsi ascoltati da una donna di Mantinea, Diotima: la bellezza, il piacere sono soltanto un allettamento a riprodursi; il sesso ne ha bisogno perché il suo fine è l’immortalità e i viventi possono raggiungerla solo attraverso i dolori del parto e le fatiche e i pericoli dell’allevamento della prole. Negli umani la fatica del produrre l’immortalità non si limita tuttavia alla generazione di figli di nuovo mortali; negli umani Eros si rivolge a bellezze sempre più astratte, universali, così da generare verità immortali[14]. Per chi cerca di determinare la forma logica dell’accordo con l’oggetto, l’oggetto è bello e la verità generata è universale; si può e si deve dunque vivere per la conoscenza – è questa la conclusione del Simposio platonico.

     Il primato del contegno teoretico si conserva in Aristotele. Se il piacere è l’accordo tra la nostra particolarità e la particolarità dell’oggetto, allora l’esercizio del pensiero in vista della conoscenza disinteressata, essendo accordo tra l’io universale e la cosa universale, è il bene supremo, la stessa felicità di cui Dio gode eternamente[15]. L’agire è invece servizio (λειτουργία), che permette agli altri la σχολή giacché gli altri la permettono a noi.

     In definitiva, per il pensiero greco del V e del IV secolo il contegno teoretico non è solo indispensabile come presupposto della tecnica, ma è ciò che la vita umana ha di divino. La grande fioritura scientifica di epoca ellenistica sarebbe impensabile senza i risultati filosofici di Socrate, Platone e Aristotele.

    È qui la spiegazione del nesso evidenziato dal prof. Galli Della Loggia[16] tra cultura classica ed educazione delle classi dirigenti finché in Europa c’è stata una scuola pubblica. È la cultura ellenica che per prima si è resa conto della confusione tra desiderio e pensiero nel mito[17] e ha declassato quest’ultimo a semplice similitudine, che può anticipare il percorso logico, ma non sostituirlo. Il mondo ellenico, unico, ha fissato il nesso tra libertà e verità e ne ha dedotto la superiorità della σχολή sull’ἀσχολία. Inoltre, per Platone solo chi è abbastanza libero da conoscere l’in sé delle cose nella sua complessità, solo chi è amante del sapere, filosofo, può essere un buon governante; secondo Aristotele sa dirigere solo chi è in grado di prevedere, dunque di conoscere i nessi necessari dell’oggetto, senza lasciarsi sedurre dal desiderio; non solo, dunque, la teoresi è vita libera, la stessa etica dell’agire è fondata sulla conoscenza e sulla disciplina che essa richiede. La scelta della scuola europea di immergere la futura classe dirigente nel mondo classico è quindi guidata non solo da una predilezione letteraria, non tanto da passioni imperialiste, ma da istinto scientifico, è scelta del paradigma che privilegia la teoresi come vita libera e felice e come condizione dell’agire. La capacità di astrarre dall’utilità immediata per dedicarsi all’oggetto in tutta la sua complessità, da una parte, realizza l’essenza umana, perché la verità è la forma logica, dunque libera e universale, della corrispondenza tra soggetto e oggetto, di cui il piacere è la forma soltanto particolare; dall’altra, si rivela della massima utilità, perché sul piano individuale assicura la saggezza necessaria a determinare la giusta misura in cui consistono le virtù etiche, e sul piano collettivo prepara a fronteggiare la contraddittorietà dell’oggetto politico.

 

b) Il mondo cristiano

     Il pratico afferma la superiorità sul teoretico per effetto dell’affermarsi del cristianesimo in quanto è erede del messianismo ebraico. Mentre per la visione ellenica il mondo è tutto e contiene anche i suoi dei, per la visione ebraica il mondo è il nulla[18] e Dio lo ha abbandonato al male finché non decide di redimerlo, cioè di ripristinare l’innocenza paradisiaca, per mezzo di figure ispirate, gli unti del Signore, i messia. Poiché è al di là del mondo e si manifesta non tanto nella sua forma quanto infrangendola con il miracolo, Dio è imperscrutabile, cioè si sottrae alla conoscenza. Impotente, la conoscenza diventa una volontà di conoscere che non può essere appagata nel presente, diventa fede. Messianismo è dunque il rifiuto del mondo presente e l’urgenza del ritorno all’innocenza; messianismo è il congedo dalla conoscenza e il privilegio accordato alla fede «che smuove le montagne». Messianismo è ciò che dal XIX secolo in poi si chiama spirito sovversivo. Filosofi come Hegel, come Comte, lo videro all’opera nell’incapacità della Rivoluzione francese di appagarsi di ogni ordine comunque costituito e ne conclusero che la sovversione rivoluzionaria esiste solo come distruzione dell’esistente.

     L’esigenza di negare l’impulso determinato è, come si è visto, la radice della libertà dell’io. In quanto vuole anche altro da sé, l’io puro entra nell’esistenza, si determina; nel determinarsi può restare fedele a sé stesso – ad è propriamente questa la libertà e, rispetto agli altri, la giustizia – o può contrastarsi – eteronomia e ingiustizia. Ma può anche rifiutare di determinarsi e restare nella propria astrazione. Mentre l’io che si realizza nell’esistenza vuole che le sue scelte conservino il modo della possibilità, l’io che vuole restare nell’astrazione apprezza soltanto la propria uguaglianza pura, senza contenuto, e respinge la differenza in generale. Riferendosi al mondo e alle sue differenze, l’indeterminatezza soggettiva assume quindi l’aspetto di aspirazione all’uguaglianza[19].

     Che il messianismo ignori il diritto della differenza non autorizza a ignorare il diritto dell’uguaglianza. Dal semplice punto di vista logico identità e differenza sono un’unica riflessione: l’identità è solo tra i differenti e i differenti devono essere identici in qualcosa. Respingere l’uguaglianza non è dunque meno vano che respingere la differenza. In particolare, l’aspirazione del cristianesimo all’uguaglianza si rivelò infinitamente feconda, in quanto pose il problema dello schiavismo, che il mondo classico non aveva percepito in tutta la sua abissalità: ammettere la figura dello schiavo nel diritto riduce l’universalità della persona a un privilegio casuale che si può acquisire o perdere; il quid iuris è ridotto a un semplice quid facti, la sostanza a un accidente. Il superamento di questa contraddizione promosso dal cristianesimo è il diritto moderno. Nondimeno l’uguaglianza è l’astratto, la differenza è il concreto, è l’esistenza; la stessa uguaglianza degli individui come persone, nel realizzarsi, si cala nelle differenze delle loro esistenze. Nel volere l’uguaglianza dell’esistenza stessa, l’io puro rifiuta di fatto l’esistenza; dunque si degrada in fanatismo che inseguendo l’ideale disdegna la conoscenza del reale e lo condanna all’indegnità. Con questa svolta la fede cieca diventa l’ultima parola, e la nozione stessa di verità sembra ora indicare non più la sobria concordanza di soggetto e oggetto, ma una trascendenza sublime che è lo stesso io puro tradotto in forma oggettiva.

     Il cristianesimo ai suoi inizi concepisce come inferno la realtà del mondo classico; alla sua sapienza antepone l’assurdo della rivelazione. Gli inizi messianici si conservano fin nel cuore dell’elaborazione teologica, in quanto essa immagina che il mondo sia destinato a essere abbandonato da ogni vita; e sono avvertibili perfino nelle prove dell’esistenza di Dio: la prova cosmologica giunge all’essere divino dall’insufficienza del mondo, dalla sua nullità costitutiva; la prova ontologica attribuisce l’esistenza alla nozione di Dio, cioè all’atto con cui il soggetto lo intenziona; vale a dire la nullità del mondo si associa al ritrarsi dell’essenza nel soggetto. A differenza però del messianismo moderno, a differenza della sovversione rivoluzionaria fiduciosa nell’invincibilità dell’alleanza tra storia e coscienza di classe, l’Epistola ai Romani concepisce la volontà umana come schiava della carne e la sua liberazione come un atto trascendente legato alla fede nel Cristo. Il primato della pratica stabilito dal cristianesimo contro il mondo classico non va dunque inteso come potenza della volontà umana, ma come primato dell’iniziativa della volontà divina. Né la fede nell’iniziativa divina si riduce a semplice attesa del miracolo. A differenza dello gnosticismo che si spezza tra gli estremi di un ascetismo esasperato fino alla morte di inedia e l’eccesso orgiastico, ben presto il cristianesimo recupera l’ideale di libertà come dominio degli impulsi, per quanto con la riserva Deo adiuvante. Così, pur assoggettandola alla teologia, la Chiesa non elimina la filosofia; né getta nell’abisso del male la fecondità sessuale, anzi le riconosce natura sacramentale, pur stabilendone l’inferiorità messianica rispetto alla verginità. In definitiva il cristianesimo assoggetta la teoresi alla fede; quando con Agostino esprime l’invito: «Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas»[20], trascura che la verità abbraccia gli estremi opposti, res e intellectus, non è un contenuto della mera interiorità; ma non si inganna sulla finitezza della ragione pratica; di qui la sua capacità di temperare il messianismo delle origini con l’idea ellenica e di conservare la virtù della saggezza.

 

c) Il mondo moderno: la doppia secolarizzazione del cristianesimo

 

La nascita dello stato moderno

     Dal XV secolo i rapporti di dipendenza personale tipici del paternalismo feudale fanno lentamente posto alla sfera pubblica, allo stato e alle sue leggi, mentre dalla riscoperta degli antichi rinasce, dapprima in Italia, il sentimento del primato della teoresi. La costituzione dello stato moderno è però risultato delle guerre di religione del XVI e del XVII secolo. Lutero, Calvino hanno scorto nella Chiesa non più l’argine al peccato ma la sentina della peggiore corruzione, e nel papa l’Anticristo che annuncia la fine dei tempi; la loro esigenza messianica di purezza è intollerante: le altre confessioni sono opera del demonio; poiché le radici stesse del mondo sono inquinate dalla presenza satanica, esso deve essere purificato con ogni mezzo. È, questa, l’epoca terrificante della caccia alle streghe, che colpisce la donna, depositaria della conservazione della vita, dunque dell’essere del mondo. Dilaniata in sette che cercano la reciproca distruzione, la religione dell’amore e della pace è ora causa delle guerre più atroci. Lo stato ne è trasformato; considerato prima uno strumento imperfetto dell’apparato ecclesiastico, acquista ora indipendenza dalla religione, diventa cioè laico, e il suo primo scopo rispetto agli individui diventa per la prima volta chiaro: garantire l’integrità della loro persona e della loro proprietà.

     Ancora nel Settecento, tuttavia, lo stato è una commistione tra elemento borghese ed elemento aristocratico, tra il principio dell’intangibilità della persona e il principio paternalista della dipendenza personale. La confusione induce una rinascita dello spirito messianico su una nuova base, non più religiosa ma mondana. Rassicurato dagli stupendi progressi che il rinato spirito teoretico ha impresso alla conoscenza della natura, l’illuminismo ha certezza che la volontà umana, guidata dall’intelligenza dei fatti, possa fare della terra il paradiso. La fiducia che il perseguimento individuale della felicità contemperi i diversi interessi e procuri il progresso generale, pone l’illuminismo in contrasto inesorabile con il principio cristiano del peccato originale, per il quale la volontà non fortificata dalla grazia è preda del peccato e fomentatrice di discordia. La religione gli appare dunque come superstizione delle masse semplici tratte in inganno da preti astuti al servizio di tiranni viziosi: un passato da cui liberarsi. Aperta dall’illuminismo la strada al rifiuto del peccato originale, l’ideale della purezza della volontà umana si manifesta in tutta la sua aporia in Rousseau.

 

Secolarizzazione del messianismo nell’idea di rivoluzione

     La polemica illuminista contro il cristianesimo può essere da una parte intesa come la giusta affermazione dell’innocenza della natura: nessuno degli impulsi naturali è in sé colpevole; colpevole è solo la volontà se nel dare loro soddisfazione offende la libertà della persona. Ma negli sviluppi che Rousseau dà al tema dell’innocenza naturale emerge un più radicale messianismo, un disperato gesto di rifiuto, che non aspira al progresso, come l’illuminismo, o all’aldilà, come la religione, ma a un passato perduto per sempre e recuperabile solo in parte. L’innocenza, la semplicità attribuite ai primordi non sono per Rousseau al di qua del bene e del male, non sono moralmente neutre, sono esse stesse virtù, sono il bene; il separarsi dall’innocenza, l’artificio, la scienza in generale sono allora il male, il vizio. Con la sua promessa di sgravare l’uomo dalla fatica del pensiero, l’identificazione paradossale dell’innocenza con la bontà e del male con la scienza non abbandonerà più l’occidente, da quel momento di nuovo nostalgico dell’immagine paradisiaca di una socievolezza semplice entro una natura amica.

     Mentre nella natura hobbesiana domina la violenza, nella condizione di natura di Rousseau simpatia e semplicità realizzano l’ideale messianico dell’uguaglianza; viceversa, l’artificialità della cultura esaspera la differenza, genera la bramosia per cui i ricchi sfruttano i poveri e la prepotenza per cui i forti umiliano i deboli. L’accento sull’uguaglianza mostra come nella stessa borghesia si sia determinata una frattura: la proprietà privata si accumula nelle mani di pochi e l’accumulazione porta con sé l’espropriazione dei molti. Mentre per l’illuminismo la proprietà privata, come emanazione della persona sulle cose, è il presidio della libertà, Rousseau vi scopre la causa di una nuova forma di asservimento, non più il paternalismo del signore sul vassallo, ma la differenza di classe. Questo doppio conflitto, illuministico tra borghesia e feudalesimo, rousseauiano tra grandi e piccoli, definisce la Rivoluzione francese.

     L’avere affidato il principio dell’uguaglianza alla natura, che è sempre differenza, e l’avere attribuito la differenza alla cultura, che invece, come dispiegamento della ragione, è la capacità di comporre la differenza, comporta un drastico rovesciamento delle parti, un gigantesco equivoco dagli effetti paradossali sulla politica e sulla pedagogia. ‒ Poiché ha identificato la libertà personale alla spontaneità naturale, Rousseau non sa collocare la costituzione dello stato all’interno dell’individuo, nella sua essenza; perciò si riduce a inventare un mito[21]: all’inizio gli uomini vivevano liberi e sereni nella condizione di natura, poi vi incontrarono sempre maggiori difficoltà, tanto da essere esposti al pericolo di estinguersi, e ne dovettero uscire; da allora formano comunità, che sono legittime se stringono un patto sociale: ognuno aliena tutto sé stesso alla comunità, così sparisce la pluralità discorde delle libere volontà di ciascuno, si forma un’unica volontà, la volonté générale, materializzata nell’assemblea a cui ogni associato partecipa. Poiché ognuno vi è legislatore, obbedendo alle sue decisioni ognuno obbedisce a sé stesso e resta libero.

     Come si vede, Rousseau crede che si diano una libertà naturale, quella del singolo, e una libertà convenzionale, quella nella comunità, che il loro rapporto sia negativo, ossia che la libertà naturale debba essere annullata perché si generi la libertà convenzionale, la volontà generale. Sono solo circostanze esterne che costringono gli uomini ad alienare la loro libertà naturale, e d’altra parte il corpo dello stato può sempre essere dissolto e ciascuno riprende allora sé stesso. Poiché considera la volontà generale negazione della volontà singola, Rousseau vede per un verso un’opposizione insuperabile tra il singolo e il generale, dunque una necessità ineludibile del singolo di sottomettersi allo stato; per altro verso egli lenisce questa opposizione identificando lo stato con l’assemblea in cui il singolo, pur suddito, è anche legislatore.

     Che il singolo sia legislatore è però una magra consolazione; egli infatti partecipa all’assemblea in quanto ha alienato la sua libertà naturale, vi legifera dunque non come singolo, ma come singolo generalizzato, come semplice organo dell’universale. Il singolo sembra essere non soltanto suddito, ma anche legislatore, perché obbedisce a sé; in effetti, però, obbedisce a sé come ad associato, e poiché l’associazione è un’alienazione della libertà, obbedisce a un sé alienato, dunque ad altro; in questo senso il singolo resta soltanto suddito. Poiché si produce dalla negazione della libertà naturale, la libertà convenzionale resta comunque un danno; Rousseau può solo tentare di limitarlo permettendo al singolo di stare non solo dalla parte di chi lo subisce, ma anche dalla parte di chi lo infligge. L’aver falsamente identificato libertà e spontaneità naturale non gli consente di uscire dal rapporto di opposizione tra singolo e universale, di giungere all’identità tra persona e stato di diritto.

     La contraddizione è nel doppio significato di natura nella nozione di libertà naturale. Per Rousseau la libertà naturale non ha il senso del diritto naturale, non è affatto l’io puro che nega l’impulso animale presente nell’individuo così che egli è libero, ma è la spontaneità degli impulsi. La quale non può però in alcun modo essere qualificata come libertà, ma è bisogno, limite. Ciò che Rousseau considera libertà naturale e a cui non sa rinunciare, è di fatto necessità naturale; dunque quella negazione, che a lui appare una rinuncia dolorosa ma inevitabile per godere i vantaggi della comunità, non è affatto rinuncia alla libertà; al contrario, è liberazione, è propriamente l’educazione con cui il singolo supera la sua innocenza e giunge alla libertà. Lungi dall’essere rinuncia, l’educazione è il primo interesse, la prima aspirazione del singolo: il bambino ha urgenza di crescere, e non perché voglia abbandonarsi ai suoi piaceri e ai suoi terrori, ma perché vuole governarsi come fanno gli adulti. Platone ha compreso tutto ciò. La struttura gerarchica del suo stato, il dominio dell’universale sul particolare, ripete, non nega, la struttura intima del singolo, le è identica; già nel singolo, infatti, la mente domina il desiderio. Poiché è un piccolo stato, nello stato in grande il singolo è a casa sua; l’universalità che guida lo stato è identica all’universalità dell’io con cui il singolo guida sé stesso. Vale a dire, come obbedisce alla propria universalità, al proprio io puro, così il singolo obbedisce all’autorità pubblica in quanto è universale, cioè in quanto si esprime in leggi, senza che la sua libertà sia soffocata. Poiché il singolo compie l’alienazione totale dei suoi impulsi naturali, non, come vuole Rousseau, della sua libertà naturale, poiché la sua intima natura è assoggettare la sua animalità alla convenzione, la libertà convenzionale, sua come della città, è anche l’unica vera.

     Il disprezzo della convenzione per l’essenza dell’uomo è alla base della pedagogia di Rousseau. Il riconoscere dignità morale alla spontaneità innocente comporta però già a priori l’impossibilità della pedagogia: se il bambino fosse libero perché spontaneo, e l’adulto fosse in catene perché convenzionale e differenziato, allora dovrebbe essere il bambino a dirigere l’adulto – un paradosso che non solo ispira molti insegnanti quando pretendono di aver imparato dagli alunni più di quanto gli alunni abbiano imparato da loro, ma è lo specchio su cui tenta di arrampicarsi ogni pedagogia attiva. Inaugurata da Rousseau, essa offre un anestetico alla sofferenza di chi non si rassegna a essere cresciuto, adora la spontaneità infantile e non vorrebbe superarla. Il precettore di Rousseau si preclude l’intervento diretto, traveste da natura il suo educare perché l’allievo passi dalla libertà naturale a quella convenzionale senza accorgersene, senza subire offesa alla sua spontaneità. La salvezza della spontaneità è però offesa alla libertà: non solo il precettore di Rousseau disattende l’urgenza infantile di diventare adulto, ma avendo sostituito l’intervento diretto con la predisposizione segreta dell’ambiente educativo, da un lato impone un controllo totale sull’allievo, e ciò viola il germe della sua personalità, dall’altro fa apparire all’allievo la libertà convenzionale, ossia il diritto, come legge naturale. Una conseguenza molto grave; infatti gli uomini sono tali precisamente perché non solo si assoggettano alle leggi naturali come fanno gli animali, ma ne creano di loro, le conoscono come tali e nella loro universalità convenzionale riconoscono il proprio io. L’attivismo di Rousseau degrada l’educazione dell’uomo in ammaestramento dell’animale; l’abitudine che il precettore insinua approfittando dell’ingenuità dell’allievo sostituisce il controllo consapevole di sé in cui consiste l’io libero.

     Che la pedagogia rovesciata di Rousseau abbia avuto effetti moralizzanti nel contrastare l’odiosa brutalità degli insegnanti («… memini quae plagosum mihi parvo / Orbilium dictare…») nulla toglie alla sua assurdità interna che si trasmette a tutte le didattiche attive. Esse ostentano orrore per la passività dell’allievo; di fatto provano orrore per l’attività che è propria della conoscenza. Questa non è attiva nel senso della manipolazione dilettantesca dell’oggetto – come vorrebbe l’attivismo didattico, ma lo è comunque, in un suo senso determinato: dovendo dare spazio alla complessità dell’oggetto e alla molteplicità delle prospettive che lo studiano, la conoscenza è attiva sul soggetto, è superamento del suo impulso particolare. Non è possibile conoscenza senza attenzione, senza che il soggetto astragga dalle sue infinite intuizioni e immagini estranee all’oggetto, dalla noia, dalla stanchezza, dai propri rancori, timori, predilezioni. L’attività propria della conoscenza, che l’attivismo non vede, consiste nel dimenticare il particolare e tenersi fermi all’ascolto delle determinazioni della cosa. Nell’acquisizione della conoscenza, quanto più essa è astratta, tanto più l’alunno impara il valore dell’attenzione. Che l’insegnante offra un contenuto che ne sia degno è un’esigenza ineludibile, ma non identica alla richiesta che l’alunno resti entro la sua esperienza e impari divertendosi: divertire significa infatti allontanare dal pensiero e dall’oggettivo. L’alunno non deve essere sempre allettato con immagini e giochi, è essenziale che gli si chieda lo sforzo di liberarsi dalle immagini e di librarsi nel grigio delle astrazioni, perché l’astrazione è l’elemento dell’universalità, e il nucleo della realtà, le sue leggi, sono esprimibili solo in termini universali.

 

     Il messianismo alla rovescia di Rousseau, diretto a un passato che è una sentenza di condanna del presente, nel comunismo resta immanente, ma si volge al futuro. Scandalizzato dal destino di miseria dei lavoratori in un’economia capace di produrre il benessere generale, anche il comunismo, analogamente a Rousseau, ha visto nella proprietà privata l’origine della contraddizione. Mentre però Rousseau sopprime la singolarità per salvare la proprietà di ognuno, il comunismo sopprime la proprietà quasi a voler salvare la persona. Dal momento che la proprietà è alienabile, mentre la persona non lo è, sembra che tra le due determinazioni ci sia una radicale diversità, per cui sia possibile volere la persona senza volere la proprietà. Così non è: poiché la forma di contratto, con cui la proprietà è alienabile, implica che chi lo stipula resti persona, ci sono non solo proprietà alienabili, ma anche proprietà inalienabili dalla persona stessa che ne è proprietaria, – tanto è vero che si può violare il proprio diritto non meno di quello delle altre persone. La proprietà, inalienabile e alienabile, copre dunque tutta la sfera di esistenza della persona, non solo le sue cose, ma il suo corpo, il suo tempo, le sue abilità. Con ciò è posto un legame indissolubile tra proprietà e persona. Il comunismo che lo ha reciso non solo in teoria, ma anche con la pratica, nell’abolire la proprietà privata ha abolito anche le persone. Come rivoluzione permanente, il comunismo è guerra civile inestinguibile tra il proletariato industriale (o la cricca che se ne proclama avanguardia) e le altre classi (non solo la borghesia, ma anche i contadini), combattuta secondo la tecnica dell’assalto frontale, nella prassi leninista e nella sua esasperazione staliniana, secondo la tecnica della guerra di posizione, secondo l’idea di Gramsci.

     Nell’irreggimentare la società per la guerra civile, il comunismo non consente la persona. Ne segue che il pedagogista sovietico più noto, Makarenko, ispira la sua comunità educativa all’Armata Rossa e mantiene all’educazione il carattere manipolativo già previsto da Rousseau, limitandosi a dargli forma sociale: «Che vuol dire ‘azione pedagogica parallela’? Noi abbiamo a che fare soltanto con il reparto, non con i singoli che lo compongono. Questa è la definizione ufficiale. In realtà, si tratta di un modo per influire proprio sull’individuo. Tuttavia, la definizione si accorda in un certo modo con la sostanza. Sebbene si affermi che non abbiamo a che fare con le persone, in realtà ci occupiamo proprio di loro»[22]. Il potere pedagogico non agisce attraverso leggi universali, omogenee all’universalità della volontà pura e fatte valere direttamente come limiti dell’arbitrio, ma si nasconde dietro al collettivo, esercitandovi condizionamenti che si risolvono in pressioni occulte sul singolo. Il fatto poi che Makarenko consideri i suoi alunni la prima incarnazione dell’uomo nuovo sovietico non lascia dubbi sulla volontà del potere sovietico di assorbire senza residui l’individuo nel suo apparato burocratico.

     A differenza di Rousseau o Feuerbach, Marx non si è fatto illusioni naturalistiche: il comunismo non è ritorno alla sobrietà ugualitaria, ma, ereditando dal capitalismo la scoperta della potenza del lavoro umano, è ugualitarismo dell’abbondanza, mediato dalla fase socialista della presa dittatoriale del potere e dello scatenamento tecnico. Il comunismo apprezza la tecnica; quindi, come già Bacone, non può rifiutare la scienza. Ma il rifiuto della persona non è impune, comporta il disprezzo dell’astrazione. Questo disprezzo emerge in Gramsci, che prende le distanze dallo spirito astratto, sente la filosofia inutile per la sua natura francamente teoretica, la sostituisce con lo storicismo e la propaganda permanente: «Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i ‘veri’ intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale… Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, ‘persuasore permanentemente’ perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane ‘specialista’ e non si diventa ‘dirigente’ (specialista + politico)» [23].

Pur credendo di aver rovesciato Hegel, Marx pensa che la rottura della dialettica materialistica con la dialettica idealista contenga anche una continuità, che la dialettica materialista sia la dialettica idealista rimessa sui piedi. Così non è; la differenza tra i due filosofi è più profonda: a dispetto del suo nome, il socialismo scientifico è stato la più potente eruzione messianica del mondo moderno; invece Hegel è il filosofo della verità. Il suo motto: «Ciò che è effettivo è razionale, ciò che è razionale è effettivo» non fa altro che esplicitare nella sua completezza la definizione tomista di verità come adaequatio rei et intellectus. Sotto il profilo politico, Hegel individua nel concetto di persona e di proprietà quale si configura nel diritto un culmine, non dell’etica, certo, ma della storia del mondo. La persona esiste come proprietaria del suo corpo e delle cose. Nella protezione della proprietà da parte dello stato, Hegel constata la raggiunta sacralità del libero volere, la conciliazione tra l’esigenza singolare e quella universale. Hegel sa bene che la proprietà può celare ottuso egoismo, avarizia, avidità; ne segue che la sua quantità è tutt’altro che sacra, ma è limitata dallo stato; mai però può essere abolita sulla base di principi morali, perché, ricorda il filosofo, la moralità stessa non è infrangere il diritto, ma agire rettamente solo per amore del diritto. Compito dello stato è dunque che tutti siano in qualche misura proprietari, non l’espropriazione generale. Così il confronto tra Marx e Hegel non è quello tra materialismo e idealismo – materialismo è peraltro un termine privo di significato filosofico – ma tra riconoscimento, per quanto difficile, della verità del presente e tensione messianica al futuro: al motto di Hegel che tiene ferma l’esigenza della verità, l’effettività del razionale, Marx risponde con un diverso motto: «Apparirà chiaro come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente». Vale a dire: il termine di idealismo, qualora esso indicasse il primato del dover-essere e l’onnipotenza della coscienza, potrebbe essere applicato con migliore approssimazione a Marx anziché a Hegel. Come nota Benjamin nella sua prima tesi di filosofia della storia, nell’automa del materialismo storico è nascosto il nano della teologia[24].

 



[11]Cfr. Simposio, 221 c-d.

[12] Menone, 81 d-e.

[13] Filebo, 23 c-e.

[14] Simposio, 201 d - 213 c.

[15] Cfr. Etica nicomachea, 1097 b 22 ‒ 1098 a 20.

[16] Cfr. E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia 2019, p. 85.

[17] Senofane intuì che gli Elleni si servivano degli dèi per evitare il senso di colpa. La tragedia greca, in cui l’eroe rivendica ogni responsabilità, di quanto sapeva e di quanto non sapeva, purifica il mito e i suoi dei e li rende disponibili alla filosofia.

[18] Non solo in quanto creato dal nulla; in Genesi, 3, 17 è la libertà dell’uomo che rende maledetta la terra; la sua indifferenza al desiderio umano inaugura il lavoro.

[19] Isaia, 11, 6-9: «Il lupo abiterà con l’agnello ecc.». Lettera ai Galati, 3, 28: «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna ecc.»

[20] Agostino, De vera religione, XXXIX, 72.

[21]Cfr. il capitolo VI del primo libro del «Contratto sociale». Il ricorso a un mito nel quale le cose andavano dapprima così poi successe qualcosa e da allora le cose vanno altrimenti, è sempre sintomo dell’incapacità di tenere insieme i pensieri discordi.

[22] A. Makarenko, Pedagogia scolastica sovietica, Armando, Roma 1960, p. 68. Traduzione modificata.

[23] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, p. 1551.

[24] In Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 72.