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sabato 29 agosto 2020

Sulla scuola dell'autonomia (P.Di Remigio)

 (Riceviamo e volentieri pubblichiamo M.B.)


ODIO DELLA CONOSCENZA E SUGGESTIONI TOTALITARIE NELLA SCUOLA DELL’AUTONOMIA

Paolo Di Remigio

La scuola nuova, e nondimeno da innovare, rifiuta lo studio delle discipline, rifiuta la didattica severa che le trasmette iniziando dalle lezioni frontali; il desiderio di liberarsi da questi residui la possiede con tale forza da soffocarle la coscienza di abbandonare gli alunni all’ignoranza. Senza saperlo, essa si colloca così nella lunga tradizione di atteggiamenti che, con tanta più energia quanto più ne ignorano il senso, svalutano la conoscenza rispetto ad altri interessi – pratici, religiosi, estetici o genericamente vitali. Il disprezzo della ragione teoretica è il segreto della popolarità filosofica. Conoscere comporta infatti il disagio di esporre il proprio io all’oggetto nella sua estraneità. Eppure solo chi si è prima rassegnato all’umile lavoro di familiarizzare con l’estraneo può poi scoprire la concordanza tra sé e l’oggetto, che definisce la verità, e procurarsi il terreno comune a tutti, che definisce la libertà. La conoscenza è dunque la costruzione progressiva dell’accordo del soggetto con l’oggetto e tra i soggetti. Qualora volesse farne a meno e ignorasse il diritto dell’oggetto, l’io rifluirebbe nel gioco con sé stessa dell’individualità privata. – Proprio l’apprendimento come un mero gioco della spontaneità dell’individuo, senza il contatto severo con l’estraneo, è l’eterna illusione della cattiva pedagogia. Essa scorge l’estraneo propriamente nell’astratto, da cui l’esposizione della conoscenza, in quanto è teorica, deve iniziare; indispettita dall’imperativo di separarsi dal mondo colorato delle immagini sensibili, cerca di eluderlo con espedienti a cui dà il nome pretenzioso di metodo; non comprendendo che l’astratto è l’universale da cui segue la stessa possibilità applicativa, lo diffama come arida nozione. Il rifiuto del nozionismo non esprime quasi mai l’esigenza che l’insegnamento superi le informazioni sconnesse e offra conoscenze integrate in un sistema scientifico e in grado di illuminare l’esperienza – per lo più esso è solo rifiuto della severità, quindi rifiuto del conoscere.

Il rifiuto della conoscenza che anima la scuola attuale ha il suo antecedente epistemologico nella conversione della pedagogia in scienza dell’educazione. Già nel suo nome la pedagogia dichiara di essere non una disciplina nomotetica, ma un insieme di consigli che genitori e insegnanti, secondo il loro carattere e le circostanze in cui operano, possono trovare utili e applicare a loro modo o inutili e ignorare – non diversamente da come fanno i cuochi con le ricette. Assunto il nome di scienza dell’educazione, la pedagogia si lega alla psicologia, pretende cioè di essere non arte, ma applicazione di una scienza naturale. Ma una scienza naturale si occupa dell’essere dei fatti per fissarne la regolarità, non del loro dover-essere per agevolare la loro trasfigurazione. Così alla pedagogia convertita in scienza dell’educazione il bambino non si presenta più come si presenta ai genitori e agli insegnanti, come chi non è ma deve essere cittadino, come un passaggio dalle leggi naturali alle leggi umane, ma come una natura compiuta, che anziché innalzata va lasciata ai suoi ritmi. La psicopedagogia cessa dunque di dare consigli di saggezza e pretende di formulare regole tanto rivoluzionarie quanto infallibili. A differenza delle leggi scientifiche, in grado di conservare per millenni la loro validità universale, le «leggi» psicopedagogiche durano però solo gli anni o i mesi in cui sono utili a chi le formula; non riescono dunque a uscire dalla routine dell’accademia e a entrare in programmi di studio elementare; in compenso diventano il contenuto sempre nuovo di corsi di aggiornamento di cui si raccomanda la frequenza assidua a chiunque eserciti per professione influenza sociale, e in quanto generate dall’ossessione del sempre nuovo assumono carattere sacrilego e potere di sovversione.

I danni di questa deriva epistemologica sono più d’uno. Innanzitutto la critica del paternalismo, che l’illuminismo esercitò contro i poteri feudali, è estesa dalla psicopedagogia alla famiglia e alla scuola: da un lato i padri e le madri, ignari delle sempre nuove conclusioni degli esperti, sono investiti dal sospetto di inettitudine educativa, dall’altro agli insegnanti si rimprovera di insegnare. – Inoltre, nella scuola una non-scienza diventa il paradigma della conoscenza e riduce le scienze vere, le odiate discipline, a condizioni della sua applicabilità. Le scienze hanno una forma: stabiliscono principi generali da cui derivano le conoscenze particolari; questa loro forma si fa valere nei programmi scolastici, che iniziano dal semplice e progrediscono al complesso. Con il trionfo della scienza dell’educazione la scuola assume il modello di clinica per le sperimentazioni psicopedagogiche, senza un proprio obiettivo, meno che mai l’acquisizione di conoscenza; il programma in cui si fa valere la natura della scienza è perciò soppiantato dalla programmazione che non innalza più gli alunni alla forma scientifica, ma la riduce alle loro esigenze naturali; poiché queste consistono nel gioco e nella chiacchiera, tutta la scuola regredisce al livello prescolastico e diventa un giardino d’infanzia.

Il congedo dalla conoscenza si è diffuso negli ambienti scolastici attraverso la celebre tassonomia di Bloom, che una generazione di insegnanti ha imparato per i concorsi, del cui successo si stupì lo stesso suo autore. È invece un successo quasi ovvio: ponendo gli obiettivi cognitivi nella successione di conoscenza, comprensione, applicazione, analisi, sintesi, valutazione, quella tassonomia commetteva due errori [1]fatali alla scuola, ma tali da creare un’immagine dell’apprendimento conforme alla prospettiva della psicopedagogia. Innanzitutto introduceva la nozione assurda di una conoscenza acquisibile prima della comprensione; la conoscenza, che non può in nessun caso essere considerata un grado, ma è il risultato complessivo dello sforzo di apprendimento, era umiliata come suo inizio. Nella prospettiva di Bloom, l’insegnante che la perseguisse nei suoi alunni come fine ultimo non adempirebbe il suo dovere, ma li graverebbe di monete false. In definitiva, come si è capito dopo quasi mezzo secolo di sua diffusione, la tassonomia aveva scambiato la conoscenza con la memoria; non la conoscenza, infatti, ma la memorizzazione può essere compiuta senza comprensione del contenuto – lo testimonia l’esistenza della mnemotecnica. Avere squalificato la conoscenza come inizio dell’apprendimento non solo è un errore catastrofico per sé stesso, ma porta con sé la conseguenza altrettanto devastante che la memoria è svanita del tutto dal processo di apprendimento. La memoria è però la condizione ineludibile di ogni esercizio intellettuale; rinunciare alla capacità della mente di assumere un contenuto estraneo e di conservarlo dapprima come tale equivale al ristagno della mente nelle sue fantasie – non costituisce in alcun modo un contributo positivo alla sua evoluzione.

Il secondo grave errore della tassonomia nasce dalla sua origine psicologica, estranea dunque alla determinazione filosofica della natura della conoscenza: essa ha posto la valutazione come culmine dell’apprendimento; ma la conoscenza compiuta è la conoscenza critica e la critica è molto di più della valutazione. Valutare è accettare o rifiutare qualcosa in base non tanto alla sua conoscenza, ma al suo corrispondere o meno a una esigenza esterna; criticare in senso scientifico è innanzitutto confrontare il qualcosa alla sua esigenza; la vera critica, cioè, è sempre immanente, conosce e prende sul serio l’essere e il dover-essere dell’oggetto e si limita al loro confronto senza aggiungere nulla di suo; il punto saliente è però che la critica in senso proprio non solo mostra la non-verità dell’oggetto, ma mostra come verità il negativo dell’oggetto stesso: se alla luce critica A risulta non-vero, allora non-A è una nuova verità, non un nullo privo di interesse. La nuova verità è dunque nella scia, nella tradizione, di quella precedente, non è pescata altrove. Per questo significato positivo della critica, nell’ambito della conoscenza l’oggetto criticato non svanisce mai del tutto, ma è anche conservato come elemento in un nuovo oggetto più complesso. Se non la si comprende come il moto dell’approfondirsi della verità, della critica si trascura la funzione conservatrice e si scade nello scetticismo. Solo questa critica che non solo dissolve l’oggetto, ma valorizza come nuovo oggetto di considerazione l’oggetto dissolto, è degna dunque di essere perseguita come obiettivo ultimo dell’apprendimento [2].

Le tendenze sacrileghe e sovvertitrici della psicopedagogia l’hanno resa un’alleata naturale di un nuovo totalitarismo, quello neoliberale. Il neoliberalismo è l’ideologia dei gruppi economici transnazionali che proclamano l’ideale della società aperta, non per l’antico amore liberale della differenza (ché anzi è ora ridotta a stereotipo), ma come mezzo per perseguire il perfetto adeguamento di ogni manifestazione della vita alle loro esigenze economiche. In questo sforzo essi tendono a sgretolare non solo gli Stati, che in realtà, per la loro natura non di comunità semplice, ma di comunità di comunità, sono la forma massima di società aperta, ma anche le comunità semplici concorrenti, la famiglia e la scuola. Non è dunque un caso che la scuola nell’epoca neoliberale emani lo stesso aroma di cui l’Italia ha già avuto sentore durante il ventennio fascista. Essa dichiara di poggiare sul principio dell’autonomia e con ciò stesso crede di potersi liberare dal sospetto di totalitarismo. Totalitario è però ciò che la tradizione filosofica indica con il termine di dogmatico: il progetto di assorbire l’intera realtà sotto un unico principio determinato, condannando all’estinzione il differente. È quindi un errore interessato credere che solo lo Stato possa diventare preda del partito unico; anche la religione dell’amore ha bruciato gli eretici, anche il principio dell’accumulazione del profitto può diventare esclusivo al punto da soffocare ogni altra esigenza [3]. Di fatto l’attuale autonomia scolastica consiste in una gerarchia ferrea per quanto dissimulata: essa è esercizio del potere (che la delusione impenitente della nuova scuola vorrebbe ancora più assoluto) dei dirigenti sul lavoro degli insegnanti; è esercizio del potere assoluto della burocrazia ministeriale sui dirigenti; la burocrazia ministeriale è ispirata infine da poteri transnazionali che coltivano, accanto ai loro interessi economici, il sogno totalitario di educare l’uomo nuovo, nella versione aggiornata di precario cosmopolita senza identità, senza famiglia, senza patria e senza conoscenza. Non stupisce dunque che la scuola dell’autonomia, che per il suo contenuto, il paludamento globalista di cui si ammanta, è quanto di più lontano dalla scuola fascista, condivida poi con questa significative affinità nella forma.

Si tende a identificare la riforma di Gentile con la scuola fascista, al punto che il sospetto sul Liceo classico sembra procurare un certificato di conformità politica. Nonostante i suoi filosofemi si prestino ottimamente a incorniciare la dittatura mussoliniana, Gentile ha ispirato la sua riforma alla tradizionale severità della conoscenza e al sicuro possesso dei suoi presupposti linguistici. Il regime fascista, fondato sull’opportunismo temerario di un giornalista che professava il relativismo volontaristico, non poté tollerare a lungo un’istruzione fondata sulla conoscenza. Così la riforma di Gentile fu prima sfigurata da una serie di ritocchi, infine considerata «un errore»; la conoscenza implica infatti la libertà e secondo Mussolini, «quando lo Stato si toglie dal piano della istruzione pura e semplice per salire al piano della educazione, la libertà dell’insegnamento torna di nuovo al tappeto»[4]. A differenza della scuola attuale che condanna la conoscenza e l’istruzione ma resta nel vago sulle conseguenze di questa condanna, il fascismo proclamò con perfetta chiarezza che la cultura doveva essere sostituita dall’indottrinamento ideologico e, cambiato il nome di ministero della Pubblica istruzione in ministero dell’Educazione nazionale, lo collegò all’Opera nazionale balilla. Così «l’educazione fisica, l’istruzione militare, la partecipazione alle vicende e alle manifestazioni del regime divennero… parte integrante della vita scolastica, che vide il suo momento tradizionale e fondamentale, quello dell’istruzione, costretto a far largamente posto a quello della cosiddetta educazione, dell’indottrinamento e della formazione politica cioè dei giovani» [5]. Nel senso dell’apologia dell’educazione, nel ’33 sul «Secolo fascista» G. A. Fanelli lanciò contro il poco innovatore ministro Ercole un’accusa rivelatrice: «La lotta contro l’analfabetismo è un pregiudizio democratico, a cui il ministero immola tre quarti di tutto il bilancio dell’educazione nazionale, quasi che il dovere dello Stato fosse quello di illuminare, con l’istruzione, l’intelletto individuale più che dirigere, con l’educazione, la volontà collettiva» [6]. La brutale sincerità di questa dichiarazione, così in contrasto con la tenace ma prudente pressione dell’attuale burocrazia ministeriale, può forse contribuire a spiegare perché, al contrario dell’attuale corpo docente quasi del tutto piegato a una rassegnata passività, quello degli anni Trenta sia stato capace di resistenza: «… persino tra gli insegnanti fascisti, relativamente pochi erano quelli che spingevano il loro consenso verso il regime sino ad accettare che la scuola perdesse la sua vera funzione, diventasse scuola di conformismo e non di spirito critico, di cronaca politica e non di cultura» [7]. Così la scuola del ventennio «finì per essere amministrata in una sorta di mezzadria di fatto tra insegnanti e ONB, che se, da un lato, non giovò certo alla serietà e all’impegno scolastico dei giovani, da un altro lato lasciò però agli insegnanti più seri e volenterosi la possibilità di continuare il loro insegnamento… secondo la loro coscienza e i loro metodi tradizionali e, da un altro lato ancora, rese di fatto impossibile il prevalere del momento attivistico-politico su quello culturale…» [8]. Di qui uno sforzo di ulteriore fascistizzazione durante gli anni ’30, che culminò nella Carta della scuola redatta da Bottai. Emergono in questo documento due ulteriori affinità tra scuola fascista e scuola dell’autonomia. Poiché con la rinuncia all’istruzione ci si priva del diritto alla severità, è fatale che la scuola educativa cerchi di recuperarla a suo modo: l’alternanza scuola/lavoro imposta a studenti e insegnanti delle superiori da Renzi e Giannini ha il suo sinistro precedente nella V Dichiarazione della Carta: «Dalla Scuola elementare alle altre di ogni ordine e grado, il lavoro ha la sua parte nei programmi. Speciali turni di lavoro, regolati e diretti dalle Autorità scolastiche, nelle botteghe, nelle officine, nei campi, sul mare, educano la coscienza sociale e produttiva propria dell'ordine corporativo» [9]. Inoltre la VII Dichiarazione volle fare della scuola uno strumento per irrompere nell’intimità delle famiglie: «Genitori e parenti partecipano alla vita della Scuola e vi apprendono quella comunione di intenti e di metodi che sorregge le forze dell'infanzia e dell'adolescenza sulle vie della religione dei padri e dei destini d'Italia»10; l’ossessione con cui nella scuola autonoma si sottrae il tempo all’istruzione per dedicarlo all’educazione (sentimentale, alimentare, igienica, sessuale, stradale…) ha esattamente la stessa portata invasiva nella vita familiare.

La riforma fascista della scuola espresse senza finzioni di volere non istruire cittadini liberi, ma educare membri della totalità nazionale; la riforma neoliberale della scuola, la cui realizzazione è stata affidata soprattutto all’abilità di un ceto politico ex stalinista, finge di esaltare l’individuo: la didattica per competenze vuole escludere la passività del discente, l’inclusione vuole impedire la selezione, l’autonomia vuole evitare l’autoritarismo dello Stato. La realtà di questi obiettivi è il tramonto dell’individuo: le competenze escludono la conoscenza, l’inclusività è un pretesto per impedire il lavoro e l’orientamento, l’autonomia dallo Stato è la genuflessione davanti all’ideologia globalista. La scuola che ne è sorta è non meno indottrinante di quella fascista, ma ancora più degradata sotto il profilo culturale.



[1] Parzialmente corretti dai suoi allievi mezzo secolo dopo, quando il danno era irreparabile.

[2] Si tratta della scoperta hegeliana del carattere determinato di ogni negazione, esposta con perfetta chiarezza nell’introduzione della Fenomenologia dello spirito.

[3] È doloroso notare come la scuola attuale non riesca a sottrarsi alla diffusione di una inquietante strumentazione informatica, nonostante l’esperienza quotidiana confermata dai risultati delle neuroscienze abbia accertato oltre ogni dubbio la sua pericolosità per lo sviluppo cognitivo.

[4] Cfr. Renzo De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, Torino 1996, p. 189 e n.

[5] Op. cit., p. 191.

[6] Op. cit., p. 191n.

[7] Op. cit., p. 189.

[8] Op. cit., pp. 191-192.

[9] Disponibile al seguente indirizzo: http://www.biblioarti.beniculturali.it/opencms/multimedia/BollettinoArteIt/documents/1410785833361_02_-_Carta_della_scuola_p._217.pdf

[10] Ibidem.


1 commento:

  1. Ringrazio l'Autore e la redazione per avere messo a disposizione questa analisi che pur approfondita, viene resa fruibile anche a chi, come me, non ha eccessivi mezzi culturali ma interesse sincero per l'argomento. importanti a tal proposito i riferimenti espliciti ad autori e teorie che possono essere ricercati, volendolo. Grazie

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