lunedì 31 agosto 2020

La politica vista dal basso (P.Meaglia)

(Riceviamo dall'amico Piero Meaglia, e volentieri pubblichiamo. M.B.)


LA POLITICA VISTA DAL BASSO: DIFENDERSI DAL POTERE

Piero Meaglia


Una premessa: il principio di diffidenza come valore della democrazia

Sovente si legge che la democrazia si fonda sulla fiducia, e che “ha bisogno di fiducia” (Norberto Bobbio, La democrazia ha bisogno di fiducia, La Stampa, 31/10/1993. Avanzo una proposta: la democrazia si fonda, o meglio deve fondarsi, anche sulla “diffidenza”. Su molta diffidenza.

Propongo di assumere il principio di diffidenza come uno dei valori sui quali la democrazia deve fondarsi. Lo deve perché anche in una democrazia i cittadini debbono difendersi dal potere. Quindi, la diffidenza verso il potere come “molla”, come ressort che muove la democrazia e la conserva in buona salute.

Non bisogna confondere la diffidenza con la sfiducia. La sfiducia rende i cittadini disinteressati e passivi e, quali “cittadini non educati”, li consegna indifesi nelle mani del potere. La diffidenza invece, non sempre ma sovente, spinge i cittadini ad interessarsi, a cercare con fatica e rischio informazioni precise, a diventare “cittadini educati”, e soprattutto attivi, a rovesciare la precedente passività in lotta.  

Una lotta per “partecipare”, per tentare di influire sulle decisioni del potere, come richiede la democrazia. Ma anche e prima di tutto una lotta per difendersi dal potere, come vuole il liberalismo. Vorrei sottolineare questo punto: la diffidenza è puro liberalismo. Chi ha in mano il potere è portato ad abusarne e ad avanzare “fino a quando non trova dei limiti”: perciò è naturale e necessario diffidarne.  

Il principio di diffidenza è puro liberalismo. Ho citato Montesquieu. E Benjamin Constant ha scritto: “Ogni buona costituzione è un atto di sfiducia [defiance]”: essa “prescrive dei limiti all’autorità, che sarebbe inutile prescriverle se la supponessimo dotata di una infallibile saggezza e di una eterna moderazione” (citato da Mauro Barberis, Benjamin Constant, il Mulino, Bologna, 1988, p. 157). Nella lettera n. 38 il Federalist enuncia le massime della “diffidenza repubblicana” (Il federalista, Bologna, il Mulino, 1980, p. 292, che così traduce l’espressione republican jealousy). Thomas Jefferson afferma che “il governo libero è fondato sulla diffidenza [jealousy], non sulla fiducia” (Draft of Kentucky Resolution of 1798, che cito da F.A. Hayek, La società libera, Formello, RM, Seam, 1998, p. 317. Altre traduzioni rendono diversamente il termine jealousy).

 

La partecipazione attraverso i comitati locali di cittadini

Questi cenni sul principio di diffidenza sono solo una premessa al tema di queste note: i comitati locali di cittadini. O meglio, la partecipazione “dal basso” attraverso questi comitati. Ho fatto questa premessa perché è proprio il principio di diffidenza una delle molle della partecipazione attraverso i comitati. I cittadini che si uniscono in comitati fanno spesso l’esperienza del potere: del potere che occulta le informazioni, che colpisce con ritorsioni, che costringe i cittadini a enormi sforzi per ottenere informazioni. Il potere che non si riesce assolutamente a smuovere. Il muro di gomma con il quale si scontrano i cittadini. Le risorse del potere, contrapposte alle esigue risorse di cittadini, esigue in termini di tempo, soldi, competenza. I comitati fanno presto l’esperienza della potenza del potere e dell’inermità dei cittadini. Ne consegue spesso il sentimento di una disperata impotenza. Forse il sentimento più diffuso fra i comitati. Ma ne consegue anche il sentimento di diffidenza. Un sentimento che non induce a deporre le armi: suggerisce solo di adottare, nella propria azione, un realismo che prima questi cittadini non possedevano.

Partiti, movimenti e comitati

Molti studiosi e intellettuali ritengono che per rafforzare la democrazia e accrescere la partecipazione occorre ricostruire i partiti, i partiti di massa, più o meno pesanti. Quando si chiedono come aumentare la partecipazione, si rispondono: purtroppo negli ultimi decenni i partiti sempre meno sono luoghi e strumenti di partecipazione dal basso. Occorre dunque ricrearli, ricostituirli. Si veda, per un esempio recente, il libro di Valentina Pazè Cittadini senza politica, politica senza cittadini, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2016, dove l’autrice auspica la nascita del partito “rappresentativo-deliberativo”, che però è “qualcosa di simile [al] classico partito di massa novecentesco” (pp. 88-89).

Appunto il Novecento: il secolo durante il quale la partecipazione dei cittadini alla politica, l’attività per influire sul potere e prenderne parte si è manifestata come adesione a un partito e attività dentro il partito. Scrive Kelsen che “la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici. “.  I partiti raggruppano gli uomini di una stessa opinione “per garantire loro un effettivo influsso sulla gestione degli affari pubblici” (Kelsen, La democrazia. Bologna, il Mulino, 1981, p. 55), perché “l’individuo isolato non ha politicamente nessuna esistenza reale non potendo esercitare un reale influsso sulla formazione della volontà dello Stato” (ivi, p. 56).

Pare che gli unici luoghi della partecipazione siamo i partiti. Non è così. C’è un’altra e diffusissima forma di partecipazione: quella che si esprime attraverso i comitati locali di cittadini. Gli studiosi “non vedono” i comitati. Vedono e studiano i partiti, non i comitati. Eppure i comitati esistono e sono tanti. Così li definisce Donatella Della Porta: “gruppi organizzati, ma debolmente strutturati, formati da cittadini che si riuniscono su base territoriale e utilizzano prevalentemente forme id protesta per opporsi a interventi che ritengono danneggerebbero la qualità della vita sul territorio o chiedere miglioramenti di essa” (Comitati di cittadini e democrazia urbana, a cura di D. Della Porta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, p. 7).

Anche gli studiosi della partecipazione al di fuori dei partiti spesso non centrano l’obiettivo. Molti di loro studiano i “movimenti”. Nei loro studi la partecipazione pare svolgersi in due forme organizzative: da un lato i partiti, dall’altro i movimenti. Un esempio per tutti: ne La partecipazione politica, Bologna, il Mulino, 2002, Francesco Raniolo tratta nel capitolo V della parte seconda i partiti, e nel capitolo IV i “gruppi e movimenti”. Ma basta scorrere le pagine per comprendere che per l’autore la partecipazione di base avviene nella forma dei “movimenti”. Tipico di questa forma di partecipazione è il movimento “no global”. Ma i comitati non sono i movimenti. I comitati sono locali, si formano spesso in piccoli Comuni, sovente come reazione a qualche intervento che essi temono possa nuocere all’ambiente e alla loro salute: una discarica, una grande strada, una cava, ecc. Mentre i movimenti sono più ampi, sovente diffusi su tutto il territorio nazionale, e a volte sono internazionali proprio come fu il movimento antiglobalizzazione. E la loro azione è ampiamente seguita dai mass media.

Altri autori studiano sì i comitati, ma quelli urbani, che operano nelle grandi città. Gli autori del libro curato da Della Porta si concentrano infatti sui comitati di sette grandi città. Invece, ci sono moltissimi comitati di cittadini diffusi nei piccoli Comuni più o meno lontani dalle grandi città, nella prima o seconda cintura delle grandi città, spesso più lontano, nella “provincia” se non nella campagna. Le cave e le discariche non vengono realizzate nel centro di Torino, ma nei campi coltivati intorni a piccoli Comuni. Vivo a Chivasso, nella pianura della seconda cintura torinese, a venticinque chilometri da Torino. Scrivo da quindici anni su un giornale locale, diffuso fino a circa quaranta / cinquanta chilometri da Torino, in tanti minuscoli paesi di mille, duemila, tremila abitanti. In quindici anni non ricordo un solo paese nel quale non sia nato un comitato. In tutti, ma proprio tutti questi paesi, è stato tentato o realizzato qualche intervento ambientalmente impattante, che ha suscitato la reazione degli abitanti che per prima cosa hanno formato un comitato. Fin qui, nella “lontana” provincia, i giornalisti dei grandi giornali, anche quelli delle redazioni torinesi, fin qui non si spingono, forse temendo che hic sunt leones.

I mass media seguono inoltre con grande attenzione l’attività di soggetti chiamati movimenti ma che non sono movimenti: sono comitati cittadini, sorti in città capoluogo di Regione o di Provincia, come il No Mose di Venezia e il No Dal Molin di Vicenza, o reti di comitati locali, come il Movimento No Tav della Valsusa e il No Tap pugliese.  Sono le star dei movimenti, che televisioni, giornali e social portano all’attenzione di un pubblico nazionale. Sono ammirati ma anche un po’ invidiati dagli sconosciuti e trascuratissimi comitati di provincia.

L’impotenza dei comitati: risorse troppo scarse

Ho parlato di disperata impotenza dei comitati. Si può osservare questa impotenza da diversi punti di vista, esaminando le diverse attività dei comitati e gli ostacoli che essi incontrano. Ostacoli tutti riconducibili a un solo punto: essi si scontrano col potere, e il potere è immensamente più forte di loro. Non solo il potere politico o gli amministratori locali: più ancora pericoloso è il potere economico, vale a dire le aziende contro le quali i comitati combattono. Un comitato di poche persone non può farcela contro il grande gruppo industriale che vuole realizzare un impianto impattante nella zona. Né può farcela il piccolo Comune a volte condivide la battaglia dei comitati.

I comitati raramente hanno tra i propri membri tecnici e professionisti in grado di valutare il progetto presentato da un grande gruppo industriale. Mentre il gruppo industriale si è fatto elaborare il progetto da un rinomato e costoso studio di progettisti, composto da numerosi tecnici, geologi, ingegneri, chimici, ecc.; mentre il piccolo Comune può contare quasi solo sul proprio minuscolo ufficio tecnico, che si occupa per lo più di edilizia e urbanistica, e ha scarse risorse per pagarsi anche un solo tecnico esterno. Ancora peggio stanno i comitati. Le loro risorse economiche sostanzialmente non esistono. Sono costretti a fare collette per affittare un locale dove organizzare una serata informativa, per fare i volantini, per pagare al Comune il suolo pubblico sul quale collocare i banchetti per la raccolta firme. Per non parlare dei casi in cui i comitati dovrebbero presentare ricorso al TAR. È quasi sempre impossibile mettere insieme le 4 o 5 migliaia di euro per avviare l’azione legale. Dico “avviare” perché nel corso del procedimento le spese possono aumentare. Se il ricorso al TAR viene vinto, la società proponente e l’ente pubblico autorizzatore si appellano al Consiglio di Stato: i comitati dovrebbero allora affrontare ulteriori spese legali, e tante volte rinunciano.

C’è una ragione della povertà dei comitati: chi si attiva nei comitati è quasi sempre gente comune e che non dispone di grandi cifre. I cittadini facoltosi del luogo raramente si espongono. I professionisti tecnici che potrebbe aiutare i comitati non vogliono urtarsi con le amministrazioni pubbliche e con le società promotrici dei progetti.

Altrettanto scarsa è la risorsa tempo: i comitati sono generalmente composti da persona che lavorano e hanno famiglia. Per partecipare all’attività dei comitati devono sacrificare il loro poco tempo libero e trascurare la famiglia, che a sua volta finisce per imporre loro una pausa almeno temporanea, ma talvolta definitiva. Contro di loro, i membri dei comitati hanno persone che, nella società proponenti, operano retribuiti a tempo pieno per la redazione dei progetti, o persone che, negli enti pubblici autorizzatori, esaminano retribuiti a tempo pieno i progetti sottoposti loro.

I comitati contro il potere invisibile

Tanto per richiamare un grande tema come quello del potere invisibile: in proposito Bobbio ha aperto una strada, un capitolo di teoria della democrazia. Ma nemmeno Bobbio poteva arrivare a rendersi conto della realtà dei “piccoli posti”, del livello o piano “di sotto”.

Faccio un esempio. Un cittadino, o un gruppo di cittadini ritiene di subire un danno da un qualche intervento vicino a casa sua. Mettiamo un danno ambientale. Per prima cosa cerca di informarsi e presenta in Comune domanda di accesso civico generalizzato (se ne conosce l’esistenza: quanti di noi sanno che esiste?) per avere copia del progetto dell’intervento o opera. Passano i 30 giorni e il Comune non gli risponde. O gli risponde che non ha capito la domanda. O che il richiedente non ha diritto ad avere quei documenti. O che il “controinteressato” non è d’accordo.

Allora il cittadino presenta ricorso al Responsabile della Trasparenza e della Corruzione del Comune (se sa che esiste), che in genere è il segretario comunale scelto dal sindaco: nemmeno il Responsabile della trasparenza risponde nei successivi 20 giorni. Oppure rigetta il ricorso.

Allora il cittadino vorrebbe appellarsi al difensore civico provinciale, ammesso che ne conosca l’esistenza (quanti di noi sanno che esiste un difensore civico provinciale?), ma scopre che nello statuto di Città Metropolitana di Torino il difensore civico provinciale non c’è più: è stato abbattuto da destre e sinistra unite in sede di passaggio da Provincia a Città Metropolitana.

Resta il difensore civico regionale, ammesso che il cittadino ne conosca l’esistenza (nessun ufficio comunale lo informa dell’esistenza di tale istituto): il bravissimo difensore civico regionale, oberato di lavoro, fa quel che può, e in genere, bene che vada, manda una letterina con richiesta di chiarimenti al Comune, letterina che in genere non sortisce risultati.

Ai cittadini resta solo più una strada: il ricorso al TAR. Costa alcune migliaia di euro e tutto finisce lì: il cittadino non è nemmeno riuscito ad acquisire la documentazione, per avendo la volontà di ottenerla. Fine della storia.  Ma in realtà per gli attivisti dei comitati non ancora finita, e le sorprese a volte arrivano dopo, quando scoprono che non hanno fatto un buon affare a inimicarsi il sindaco di un piccolo Comune e la cricca che lo circonda. Se in futuro dovranno “andare in Comune” per chiedere un documento o per avviare una banale pratica edilizia, potrebbero scoprire che gli uffici tirano stranamente in lungo. Può apparire sorprendente, ma nei piccoli centri i cittadini non si vogliono esporre anche perché hanno paura.

 

Il rapporto fra partiti e comitati

Sovente i comitati chiedono aiuto ai partiti politici: al partito o ai partiti che sentono più vicini e sensibili alle loro istanze. Ai partiti i comitati chiedono di procurare informazioni che i propri membri non riescono a ottenere nonostante che ne abbiano diritto; che nei consigli comunali, provinciali, regionali e in parlamento trasmettano al potere le loro domande; che diano risonanza alle loro battaglie intervenendo nei mass media. Si forma così una sorta di alleanza fra comitati e partiti o partito.

Spesso l’alleanza inizia bene e soddisfa entrambi gli alleati. Ma altrettanto spesso la luna di miele non dura a lungo. I comitati cominciano ad accusare i partiti di appoggiare solo alcune battaglie dei comitati e altre no, di appoggiarle con troppa cautela, di tenere troppo conto delle alleanze politiche a discapito delle loro lotte, di privilegiare gli obiettivi politici e elettorali rispetto alle battaglie dei comitati che per un certo periodo i partiti avevano condiviso e combattuto insieme. In breve, i comitati accusano i partiti di tradimento. E così alla diffidenza verso il potere si aggiunge quella verso i partiti “traditori”.

A me pare che, quando adottano questo atteggiamento, i comitati mostrano di non comprendere le differenze fra partiti e comitati, fra la natura dei partiti e la natura dei comitati. Queste molteplici differenze sono riconducibili a una sola: i partiti lottano per conquistare il potere, i comitati no. I partiti vogliono conquistare il potere e se non vi riescono cercano almeno di influenzarlo. I comitati invece cercano solo di influenzarlo, non di conquistarlo: di influenzarlo per fargli prendere o non prendere un determinato provvedimento. E per conquistare il potere frequentemente i partiti fanno proprio che i comitati condannano. I partiti abbandonano un obiettivo molto importante per i comitati – ad esempio il contrasto a una grande opera - se non porta più voti, se ne porta troppo pochi rispetto all’impegno richiesto, se accantonarlo ne porta di più, se calcolano che abbandonarlo farà loro perdere solo un numero esiguo di voti; se abbandonarlo è necessario per conservare alleanze con altri partiti, a livello locale e / o nazionale; se metterlo da parte riduce l’opposizione del potere economico o di altri poteri che possono ostacolarne l’accesso al potere; se accantonarlo rende loro più facile ottenere il favore di finanziatori privati.

Intendiamoci, c’è una logica in questi comportamenti dei partiti, o almeno c’è una giustificazione alla quale i partiti possono appellarsi per rispondere alle critiche dei comitati. Per esempio, un partito con una forte ispirazione ambientalista potrà dire ai comitati: per realizzare in grande il nostro vasto programma ambientalista devo andare al potere, e per andare e restare al potere devo necessariamente dismettere ambizioni di purezza assoluta, da weberiana etica della convinzione (o dei principi come la chiama Bobbio), e adottare quella della responsabilità (o delle conseguenze, come la chiama sempre Bobbio), che impone di accedere a compromessi e sacrificare obiettivi parziali e locali per poter raggiungere quelli generali. C’è una logica in questa argomentazione utilizzabile e utilizzata dai partiti, una logica che non deve venire sottovalutata o giudicata un goffo tentativo di giustificare i “tradimenti”.

A volte i comitati delusi dai partiti li accusano di pensare solo alla “poltrona”. Anche questa critica è in parte sbagliata e ingenerosa. Per realizzare i loro obiettivi e programmi, compresi quelli che sono caldamente condivisi dai comitati, i partiti devono necessariamente conquistare le “poltrone”, in parlamento e nel governo, e una volta conquistate devono conservarle. Devono conquistarle e conservarle non solo per realizzare i loro programmi ma anche per impedire agli avversari di realizzare i loro. Kelsen scrive che i partiti raggruppano gli uomini di una stessa opinione “per garantire loro un effettivo influsso sulla gestione degli affari pubblici”. Ma per influire sulla gestione degli affari pubblici i partiti debbono riuscire a sedere sulle deprecate “poltrone”. Weber distingue due tipi di partito: quelli che sono “organizzazioni di patronato degli uffici, che mirano a conquistare i posti di potere, di governo, e da lì distribuiscono ai seguaci altri posti nell’apparato dello stato, e quelli che “sono fondati su un’intuizione del mondo, intesi cioè all’attuazione di ideali”. Ma, dopo aver fatto la distinzione, Weber riconosce che di regola i partiti “sono l’una cosa e l’altra cosa insieme”: perseguono degli ideali e al tempo stesso puntano a occupare posti di potere e al “patronato degli uffici”. Si comprende bene la ragione: per attuare i loro ideali i partiti devono impadronirsi del potere e conservarlo (Max Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1980, vol. IV, pp. 507-508).

Però resta il fatto che partiti e comitati hanno logiche diverse. I comitati mirano a raggiungere obiettivi, che consistono generalmente nel far prendere o non prendere al potere determinate decisioni. I partiti mirano al potere, e le decisioni su questo o quell’obiettivo diventano strumenti per la conquista e la conservazione del potere. Gli obiettivi divengono secondari rispetto alla conquista e alla conservazione del potere.

Naturalmente, in queste osservazioni sulla condotta degli uomini politici non c’è nulla di nuovo né di originale. Sono note le realistiche considerazioni di Schumpeter, secondo il quale le decisioni dei politici sono i “sottoprodotti” (by-products) della lotta per il potere: “la decisione dei problemi politici è, dal punto dell’uomo politico, non il fine ma solo la materia dell’attività parlamentare”. E’ vero che la funzione sociale dell’attività parlamentare è quella di produrre leggi, ma per comprendere come ciò avvenga “bisogna partire dalla lotta di concorrenza per il potere e riconoscere che la funzione sociale è assolta, per così dire, incidentalmente; nello stesso senso il cui la produzione è incidentale rispetto alla realizzazione di un profitto”. Più ancora incisivamente: “il metodo democratico crea legislazione e amministrazione come sottoprodotti della lotta di concorrenza per il potere politico” (p. 273) (Joseph A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, 1942, trad. id. Capitalismo, Socialismo e Democrazia, Milano, Etas Libri, 1994, pp. 266, 269, 273).

Le considerazioni di Schumpeter possono apparire rigide e unilaterali, bisognose di problematizzazioni. Ma se esse non bastassero, dovrebbe bastare una osservazione più decisiva: nei nostri sistemi politici i partiti sono il potere, mentre i comitati sono contropoteri. I partiti occupano i posti di comando nello Stato e delle amministrazioni locali, e se non hanno avuto pieno successo vi entrano come minoranze e opposizioni. Lì prendono decisioni o contribuiscono a prenderle.  I comitati sono sovente contrari a queste decisioni. Sono i contropoteri contro il potere. Partiti e comitati spesso si scontrano, anche se spesso collaborano.

 

I cittadini sono tutti disinteressati e passivi?

Bobbio ha elencato il “cittadino non educato” fra le promesse non mantenute della democrazia. Si tratta dei cittadini disinteressati e passivi, per i quali la scienza politica usava la categoria di “apatia”.

Ma Bobbio è in fondo indulgente. Ben più severe, persino un po’ sprezzanti, sono le descrizioni diffuse anche in serissimi libri di serissimi studiosi. In un’opera recente Gianfranco Pasquino dedica un paragrafo ai “cittadini deficitari”, quelli che non si interessano, non si informano, non partecipano: “il deficit democratico si trova anche nei cittadini. I disinteressati, i poco informati, gli astensionisti sono cittadini democraticamente deficitari… Non mi parrebbe corretto definire ‘deficit democratico’ questa situazione. I cittadini che non compiono le azioni necessarie per soddisfare le loro aspirazioni sono responsabili del deficit democratico persino più delle strutture del regime democratico e più dei comportamenti delle autorità (Minima politica, Torino, Utet, 2020, p. 95).

Caro professor Pasquino, ci provi lei… Provi a organizzare e guidare un comitato. Non nel centro di una grande città, dove si unirebbero professionisti, tecnici, professori, ingegneri, ex amministratori, ecc. Ma nei piccoli Comuni a quaranta chilometri dalle metropoli. Qui i cittadini che si informano e partecipano si trovano, certo che si trovano. Tra duemila o tremila residente una decina per formare un comitato si trovano. Poi però questi cittadini incontrano le difficoltà che ho ricordato, e che si riassumono nella loro disperata impotenza. Da un lato l’impotenza e la solitudine dei deboli, dei senza potere; dall’altro lo strapotere dei potenti, dei detentori del potere politico e di quello economico. Da un lato l’esiguità delle risorse dei comitati: poco tempo, pochi soldi, poca competenza, mancanza di tempo per studiare e diventare almeno un po’ competenti, grandissima difficoltà a trovare dei tecnici, degli esperti, dai quali farsi aiutare. Dall’altra, oltre al muro di gomma di amministratori e politici, lo strapotere delle grandi imprese capitalistiche, in grado di mobilitare, a sostegno dei loro progetti plotoni di avvocati, ingegneri, geologi, architetti, professori universitari compiacenti, e per le quali sborsare qualche migliaia di euro per un ricorso al TAR, oppure anche meno per depositare in tribunale una querela temeraria e una  domanda di risarcimento danni equivale a bersi un caffè al bar.

Non manca la partecipazione di cittadini. Non mancano i cittadini partecipanti. Manca l’efficacia della loro partecipazione. La verità è che i cittadini partecipanti sono anche impotenti, e non per colpa loro. Del resto, correttamente Pasquino scrive che non basta che il popolo voglia esercitare il potere: bisogna che “sia messo in condizione di esercitarlo”. Occorre che l’azione del popolo sia “efficace”. Però qui Pasquino pensa a come dare, attraverso opportuni meccanismi elettorali, “più potere agli elettori”. Mentre, a mio avviso, bisognerebbe cominciare a dare “più potere ai cittadini”. Cioè organizzare le istituzioni in modo tale da concedere ai comuni cittadini il potere di influire sulle loro decisioni. Questo potrebbe essere il compito di intellettuali e studiosi.

 “Nimby”: un pigro luogo comune

I comitati locali di cittadini sono nimby: è uno dei tanti luoghi comuni ripetuti da giornalisti intellettualmente pigri e abitudinari. Così come i titoli degli articoli di politica devono contenere sempre le parole “caos”, “scontro”, “tempesta”, ecc., così i comitati devono venire obbligatoriamente bollati come “nimby”.

L’accusa di nimbismo non è quasi mai vera. Quando nasce un comitato locale per opporsi a un intervento ritenuto pericoloso per l’ambiente e per la salute, all’inizio a volte la parola d’ordine è: “non qui”. Ma bisogna capire le ragioni del “non qui”. Occorre soprattutto capire il contesto ambientale e sanitario nel quale vivono i cittadini che dicono “non qui”. In molte parti del nostro paese - la provincia e la campagna della Pianura Padana è uno di queste - il territorio è già “pieno”. Non ci sta più nulla. Ci sono Comuni del Basso Vercellese e Biellese nei quali al di fuori del piccolo centro trovi tre, quattro, cinque grandi cave che col tempo si trasformano in discariche. E il Comune accanto, confinante? È la stessa cosa. E quello al di là del Comune confinante? È la medesima cosa. Dove dovrebbero andare a vivere gli esseri umani? Ecco perché chiedono: “non qui”.

In realtà, in questi territori è difficile rimanere a lungo nimby. Anche il cittadino inizialmente nimby si accorge presto che nel Comune accanto i cittadini si trovano nella medesima condizione, e che anche lì esiste un comitato. Per loro diventa difficile dire: quella discarica non fatela qui. Vorrebbe dire fatela là, cioè a qualche centinaio di metri di distanza dove vivono parenti e amici.  Non solo: la consapevolezza che anche nei Comuni vicini è la stessa cosa, spinge naturalmente i membri dei comitati a chiedersi il perché di questa situazione, a studiare i processi industriali e l’organizzazione istituzionale e sociale, in fine il “modello di sviluppo” che provoca i danni che essi subiscono. Cominciano a chiedersi: “non qui, ma dove?”. Poi: “Perché accade questo? Si potrebbe fare diversamente?”. Infine: “Studiamo e invitiamo degli esperti, degli studiosi, e organizziamo con loro dei dibattiti pubblici”. A questo punto i comitati sono andati molto oltre il nimbismo. Forse sono stato fortunato, ma, in un quindicennio di attività giornalistica e ambientalista, comitati nati e rimasti nimby non ne ho ancora incontrati.

Molte meglio di me hanno saputo esprimersi Marino Badiale e Massimo Bontempelli: “In Italia uno dei modi in cui si manifesta la nocività dello sviluppo è quello di progetti economici che tendono a invadere e distruggere il territorio con strutture e opere di vario tipo. Questa invasività e queste devastazioni sono inevitabili, all’interno dell’odierno meccanismo dello sviluppo. Infatti lo sviluppo non può fare a meno dell’accumulazione di realtà fisiche sul territorio (strutture produttive, infrastrutture edilizie come autostrade e aeroporti, strutture commerciali, mezzi di trasporto, rifiuti che occorre smaltire in qualche modo). Ma il territorio italiano è saturo (altrove la situazione può essere diversa): l’Italia è un paese piccolo e sovrappopolato, il cui territorio è stato da tempo invaso dalle realtà fisiche legate allo sviluppo. Non essendoci più spazio libero, le nuove strutture fisiche necessarie per lo sviluppo possono inserirsi solo in una realtà fisica e sociale già organizzata, mettendone in crisi gli equilibri. In parole povere, le nuove strutture devono invadere la vita quotidiana degli abitanti del territorio, sconvolgendola (Marino Badiale e Massimo Bontempelli, Per salvare la vita. 28 tesi contro la barbarie [tesi 26], 2008 ( http://www.rivistaindipendenza.org/Teoria%20nazionalitaria/tesi.htm  e   altri siti).

 

Che fare? Una proposta agli studiosi

Proviamo a tirare le fila e a avanzare una proposta. Per favorire e rinvigorire la partecipazione politica, molti studiosi rimpiangono il partito di massa, il partito pesante, e ne auspicano la rinascita.

Però anche i comitati di cittadini sono importanti strumenti di partecipazione, quindi soggetti della democrazia. Sono inoltre contropoteri che difendono il cittadino contro altri e più porti poteri, e come tali sono importanti istituti di liberalismo.

Ma i comitati di cittadini hanno pochissimo potere. Ne hanno poco non, o non solo, per eventuali limiti soggettivi, ma anche e soprattutto perché le istituzioni, l’ordinamento giuridico, la società nel suo complesso, concedono loro ben poco potere. Anzi, ne ostacolano l’azione: rendono loro difficile e costoso acquisire la documentazione in possesso degli uffici pubblici, rendono costosa in termini di tempo e denaro la loro azione sul territorio, rendono quasi impossibile l’accesso alla giustizia amministrativa, civile e penale.

Che cosa possono fare gli studiosi delle scienze sociali, giuristi, politologi, sociologi? Possono – se ritengono il tema importante - concettualizzare l’attività dei comitati, conferire loro dignità teorica, sotto il profilo della teoria politica e di quella giuridica. Un tentativo compiuto, ad esempio, da Salvatore Settis, che rinvia alla nozione di actio popularis del diritto rimano (Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, Einaudi, 2012, pp. 221-228). Possono – ripeto: se considerano il fenomeno dei comitati importante per la democrazia – concettualizzare il fenomeno come da oltre un secolo le scienze sociali e giuridiche studiano gli altri soggetti dell’azione collettiva, in particolare i partiti politici, e più recentemente i “movimenti”. Ricominciando forse delle osservazioni di Tocqueville sulla partecipazione locale negli Stati Uniti d’America di quasi due secoli fa: Tocqueville considerava le “associazioni civili” locali non solo come strumenti di partecipazione aggiuntiva a quelle nei partiti politici, ma anche “contropoteri” sostitutivi degli antichi poteri locali aristocratici (La democrazia in America, ad esempio: libro primo, parte seconda, capitolo IV, e Libro secondo, parte seconda, capitolo V).

Ma soprattutto gli studiosi possono studiare modifiche e innovazioni istituzionali e normative tali da favorire la partecipazione nei comitati: un facile, rapido, gratuito e completo accesso agli atti; la concessione ai comitati di locali per riunirsi gratuitamente o con poca spesa; l’accesso ai mezzi di comunicazioni delle istituzioni locali, come i siti e le pubblicazioni periodiche dei Comuni; l’azzeramento dei costi che incontra la loro attività (come il pagamento del suolo pubblico); il rafforzamento dei difensori civici e in generale degli istituti presso i quali i comitati possano far valere le loro ragioni; la protezione dalle querele temerarie e dalle domande intimidatorie di risarcimento danni; un effettivo accesso alla giustizia… e così via. Sembra poco: ma sarebbe già moltissimo per i comitati.  Gli studiosi potrebbero poi inoltrare le proposte ai politici, che vuole dire ai partiti: e qui si vedrebbe se i partiti vogliono favorire la partecipazione anche al di fuori di se stessi, o se non amano la concorrenza.



Sull'autore: 

Piero Meaglia vive a Chivasso, in provincia di Torino, e scrive sul settimanale locale “La Voce del Canavese”.

E’ socio di Pro Natura Torino e svolge attività ambientalista nel Basso Canavese.

Si è laureato in Storia del pensiero politico presso l’Università di Torino, dove ha conseguito il dottorato di ricerca nella medesima disciplina con una tesi sul pensiero politico di Tocqueville.

Oltre ad alcuni articoli, ha pubblicato due libri: Le regole del gioco. Bobbio e la democrazia, San Domenico di Fiesole (FI), Edizioni Cultura della Pace, 1994 e Il potere dell’elettore. Elezioni e diseguaglianza politica nel governo democratico, Troina (EN), Città Aperta Edizioni, 2006.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


sabato 29 agosto 2020

Sulla scuola dell'autonomia (P.Di Remigio)

 (Riceviamo e volentieri pubblichiamo M.B.)


ODIO DELLA CONOSCENZA E SUGGESTIONI TOTALITARIE NELLA SCUOLA DELL’AUTONOMIA

Paolo Di Remigio

La scuola nuova, e nondimeno da innovare, rifiuta lo studio delle discipline, rifiuta la didattica severa che le trasmette iniziando dalle lezioni frontali; il desiderio di liberarsi da questi residui la possiede con tale forza da soffocarle la coscienza di abbandonare gli alunni all’ignoranza. Senza saperlo, essa si colloca così nella lunga tradizione di atteggiamenti che, con tanta più energia quanto più ne ignorano il senso, svalutano la conoscenza rispetto ad altri interessi – pratici, religiosi, estetici o genericamente vitali. Il disprezzo della ragione teoretica è il segreto della popolarità filosofica. Conoscere comporta infatti il disagio di esporre il proprio io all’oggetto nella sua estraneità. Eppure solo chi si è prima rassegnato all’umile lavoro di familiarizzare con l’estraneo può poi scoprire la concordanza tra sé e l’oggetto, che definisce la verità, e procurarsi il terreno comune a tutti, che definisce la libertà. La conoscenza è dunque la costruzione progressiva dell’accordo del soggetto con l’oggetto e tra i soggetti. Qualora volesse farne a meno e ignorasse il diritto dell’oggetto, l’io rifluirebbe nel gioco con sé stessa dell’individualità privata. – Proprio l’apprendimento come un mero gioco della spontaneità dell’individuo, senza il contatto severo con l’estraneo, è l’eterna illusione della cattiva pedagogia. Essa scorge l’estraneo propriamente nell’astratto, da cui l’esposizione della conoscenza, in quanto è teorica, deve iniziare; indispettita dall’imperativo di separarsi dal mondo colorato delle immagini sensibili, cerca di eluderlo con espedienti a cui dà il nome pretenzioso di metodo; non comprendendo che l’astratto è l’universale da cui segue la stessa possibilità applicativa, lo diffama come arida nozione. Il rifiuto del nozionismo non esprime quasi mai l’esigenza che l’insegnamento superi le informazioni sconnesse e offra conoscenze integrate in un sistema scientifico e in grado di illuminare l’esperienza – per lo più esso è solo rifiuto della severità, quindi rifiuto del conoscere.

Il rifiuto della conoscenza che anima la scuola attuale ha il suo antecedente epistemologico nella conversione della pedagogia in scienza dell’educazione. Già nel suo nome la pedagogia dichiara di essere non una disciplina nomotetica, ma un insieme di consigli che genitori e insegnanti, secondo il loro carattere e le circostanze in cui operano, possono trovare utili e applicare a loro modo o inutili e ignorare – non diversamente da come fanno i cuochi con le ricette. Assunto il nome di scienza dell’educazione, la pedagogia si lega alla psicologia, pretende cioè di essere non arte, ma applicazione di una scienza naturale. Ma una scienza naturale si occupa dell’essere dei fatti per fissarne la regolarità, non del loro dover-essere per agevolare la loro trasfigurazione. Così alla pedagogia convertita in scienza dell’educazione il bambino non si presenta più come si presenta ai genitori e agli insegnanti, come chi non è ma deve essere cittadino, come un passaggio dalle leggi naturali alle leggi umane, ma come una natura compiuta, che anziché innalzata va lasciata ai suoi ritmi. La psicopedagogia cessa dunque di dare consigli di saggezza e pretende di formulare regole tanto rivoluzionarie quanto infallibili. A differenza delle leggi scientifiche, in grado di conservare per millenni la loro validità universale, le «leggi» psicopedagogiche durano però solo gli anni o i mesi in cui sono utili a chi le formula; non riescono dunque a uscire dalla routine dell’accademia e a entrare in programmi di studio elementare; in compenso diventano il contenuto sempre nuovo di corsi di aggiornamento di cui si raccomanda la frequenza assidua a chiunque eserciti per professione influenza sociale, e in quanto generate dall’ossessione del sempre nuovo assumono carattere sacrilego e potere di sovversione.

I danni di questa deriva epistemologica sono più d’uno. Innanzitutto la critica del paternalismo, che l’illuminismo esercitò contro i poteri feudali, è estesa dalla psicopedagogia alla famiglia e alla scuola: da un lato i padri e le madri, ignari delle sempre nuove conclusioni degli esperti, sono investiti dal sospetto di inettitudine educativa, dall’altro agli insegnanti si rimprovera di insegnare. – Inoltre, nella scuola una non-scienza diventa il paradigma della conoscenza e riduce le scienze vere, le odiate discipline, a condizioni della sua applicabilità. Le scienze hanno una forma: stabiliscono principi generali da cui derivano le conoscenze particolari; questa loro forma si fa valere nei programmi scolastici, che iniziano dal semplice e progrediscono al complesso. Con il trionfo della scienza dell’educazione la scuola assume il modello di clinica per le sperimentazioni psicopedagogiche, senza un proprio obiettivo, meno che mai l’acquisizione di conoscenza; il programma in cui si fa valere la natura della scienza è perciò soppiantato dalla programmazione che non innalza più gli alunni alla forma scientifica, ma la riduce alle loro esigenze naturali; poiché queste consistono nel gioco e nella chiacchiera, tutta la scuola regredisce al livello prescolastico e diventa un giardino d’infanzia.

Il congedo dalla conoscenza si è diffuso negli ambienti scolastici attraverso la celebre tassonomia di Bloom, che una generazione di insegnanti ha imparato per i concorsi, del cui successo si stupì lo stesso suo autore. È invece un successo quasi ovvio: ponendo gli obiettivi cognitivi nella successione di conoscenza, comprensione, applicazione, analisi, sintesi, valutazione, quella tassonomia commetteva due errori [1]fatali alla scuola, ma tali da creare un’immagine dell’apprendimento conforme alla prospettiva della psicopedagogia. Innanzitutto introduceva la nozione assurda di una conoscenza acquisibile prima della comprensione; la conoscenza, che non può in nessun caso essere considerata un grado, ma è il risultato complessivo dello sforzo di apprendimento, era umiliata come suo inizio. Nella prospettiva di Bloom, l’insegnante che la perseguisse nei suoi alunni come fine ultimo non adempirebbe il suo dovere, ma li graverebbe di monete false. In definitiva, come si è capito dopo quasi mezzo secolo di sua diffusione, la tassonomia aveva scambiato la conoscenza con la memoria; non la conoscenza, infatti, ma la memorizzazione può essere compiuta senza comprensione del contenuto – lo testimonia l’esistenza della mnemotecnica. Avere squalificato la conoscenza come inizio dell’apprendimento non solo è un errore catastrofico per sé stesso, ma porta con sé la conseguenza altrettanto devastante che la memoria è svanita del tutto dal processo di apprendimento. La memoria è però la condizione ineludibile di ogni esercizio intellettuale; rinunciare alla capacità della mente di assumere un contenuto estraneo e di conservarlo dapprima come tale equivale al ristagno della mente nelle sue fantasie – non costituisce in alcun modo un contributo positivo alla sua evoluzione.

Il secondo grave errore della tassonomia nasce dalla sua origine psicologica, estranea dunque alla determinazione filosofica della natura della conoscenza: essa ha posto la valutazione come culmine dell’apprendimento; ma la conoscenza compiuta è la conoscenza critica e la critica è molto di più della valutazione. Valutare è accettare o rifiutare qualcosa in base non tanto alla sua conoscenza, ma al suo corrispondere o meno a una esigenza esterna; criticare in senso scientifico è innanzitutto confrontare il qualcosa alla sua esigenza; la vera critica, cioè, è sempre immanente, conosce e prende sul serio l’essere e il dover-essere dell’oggetto e si limita al loro confronto senza aggiungere nulla di suo; il punto saliente è però che la critica in senso proprio non solo mostra la non-verità dell’oggetto, ma mostra come verità il negativo dell’oggetto stesso: se alla luce critica A risulta non-vero, allora non-A è una nuova verità, non un nullo privo di interesse. La nuova verità è dunque nella scia, nella tradizione, di quella precedente, non è pescata altrove. Per questo significato positivo della critica, nell’ambito della conoscenza l’oggetto criticato non svanisce mai del tutto, ma è anche conservato come elemento in un nuovo oggetto più complesso. Se non la si comprende come il moto dell’approfondirsi della verità, della critica si trascura la funzione conservatrice e si scade nello scetticismo. Solo questa critica che non solo dissolve l’oggetto, ma valorizza come nuovo oggetto di considerazione l’oggetto dissolto, è degna dunque di essere perseguita come obiettivo ultimo dell’apprendimento [2].

Le tendenze sacrileghe e sovvertitrici della psicopedagogia l’hanno resa un’alleata naturale di un nuovo totalitarismo, quello neoliberale. Il neoliberalismo è l’ideologia dei gruppi economici transnazionali che proclamano l’ideale della società aperta, non per l’antico amore liberale della differenza (ché anzi è ora ridotta a stereotipo), ma come mezzo per perseguire il perfetto adeguamento di ogni manifestazione della vita alle loro esigenze economiche. In questo sforzo essi tendono a sgretolare non solo gli Stati, che in realtà, per la loro natura non di comunità semplice, ma di comunità di comunità, sono la forma massima di società aperta, ma anche le comunità semplici concorrenti, la famiglia e la scuola. Non è dunque un caso che la scuola nell’epoca neoliberale emani lo stesso aroma di cui l’Italia ha già avuto sentore durante il ventennio fascista. Essa dichiara di poggiare sul principio dell’autonomia e con ciò stesso crede di potersi liberare dal sospetto di totalitarismo. Totalitario è però ciò che la tradizione filosofica indica con il termine di dogmatico: il progetto di assorbire l’intera realtà sotto un unico principio determinato, condannando all’estinzione il differente. È quindi un errore interessato credere che solo lo Stato possa diventare preda del partito unico; anche la religione dell’amore ha bruciato gli eretici, anche il principio dell’accumulazione del profitto può diventare esclusivo al punto da soffocare ogni altra esigenza [3]. Di fatto l’attuale autonomia scolastica consiste in una gerarchia ferrea per quanto dissimulata: essa è esercizio del potere (che la delusione impenitente della nuova scuola vorrebbe ancora più assoluto) dei dirigenti sul lavoro degli insegnanti; è esercizio del potere assoluto della burocrazia ministeriale sui dirigenti; la burocrazia ministeriale è ispirata infine da poteri transnazionali che coltivano, accanto ai loro interessi economici, il sogno totalitario di educare l’uomo nuovo, nella versione aggiornata di precario cosmopolita senza identità, senza famiglia, senza patria e senza conoscenza. Non stupisce dunque che la scuola dell’autonomia, che per il suo contenuto, il paludamento globalista di cui si ammanta, è quanto di più lontano dalla scuola fascista, condivida poi con questa significative affinità nella forma.

Si tende a identificare la riforma di Gentile con la scuola fascista, al punto che il sospetto sul Liceo classico sembra procurare un certificato di conformità politica. Nonostante i suoi filosofemi si prestino ottimamente a incorniciare la dittatura mussoliniana, Gentile ha ispirato la sua riforma alla tradizionale severità della conoscenza e al sicuro possesso dei suoi presupposti linguistici. Il regime fascista, fondato sull’opportunismo temerario di un giornalista che professava il relativismo volontaristico, non poté tollerare a lungo un’istruzione fondata sulla conoscenza. Così la riforma di Gentile fu prima sfigurata da una serie di ritocchi, infine considerata «un errore»; la conoscenza implica infatti la libertà e secondo Mussolini, «quando lo Stato si toglie dal piano della istruzione pura e semplice per salire al piano della educazione, la libertà dell’insegnamento torna di nuovo al tappeto»[4]. A differenza della scuola attuale che condanna la conoscenza e l’istruzione ma resta nel vago sulle conseguenze di questa condanna, il fascismo proclamò con perfetta chiarezza che la cultura doveva essere sostituita dall’indottrinamento ideologico e, cambiato il nome di ministero della Pubblica istruzione in ministero dell’Educazione nazionale, lo collegò all’Opera nazionale balilla. Così «l’educazione fisica, l’istruzione militare, la partecipazione alle vicende e alle manifestazioni del regime divennero… parte integrante della vita scolastica, che vide il suo momento tradizionale e fondamentale, quello dell’istruzione, costretto a far largamente posto a quello della cosiddetta educazione, dell’indottrinamento e della formazione politica cioè dei giovani» [5]. Nel senso dell’apologia dell’educazione, nel ’33 sul «Secolo fascista» G. A. Fanelli lanciò contro il poco innovatore ministro Ercole un’accusa rivelatrice: «La lotta contro l’analfabetismo è un pregiudizio democratico, a cui il ministero immola tre quarti di tutto il bilancio dell’educazione nazionale, quasi che il dovere dello Stato fosse quello di illuminare, con l’istruzione, l’intelletto individuale più che dirigere, con l’educazione, la volontà collettiva» [6]. La brutale sincerità di questa dichiarazione, così in contrasto con la tenace ma prudente pressione dell’attuale burocrazia ministeriale, può forse contribuire a spiegare perché, al contrario dell’attuale corpo docente quasi del tutto piegato a una rassegnata passività, quello degli anni Trenta sia stato capace di resistenza: «… persino tra gli insegnanti fascisti, relativamente pochi erano quelli che spingevano il loro consenso verso il regime sino ad accettare che la scuola perdesse la sua vera funzione, diventasse scuola di conformismo e non di spirito critico, di cronaca politica e non di cultura» [7]. Così la scuola del ventennio «finì per essere amministrata in una sorta di mezzadria di fatto tra insegnanti e ONB, che se, da un lato, non giovò certo alla serietà e all’impegno scolastico dei giovani, da un altro lato lasciò però agli insegnanti più seri e volenterosi la possibilità di continuare il loro insegnamento… secondo la loro coscienza e i loro metodi tradizionali e, da un altro lato ancora, rese di fatto impossibile il prevalere del momento attivistico-politico su quello culturale…» [8]. Di qui uno sforzo di ulteriore fascistizzazione durante gli anni ’30, che culminò nella Carta della scuola redatta da Bottai. Emergono in questo documento due ulteriori affinità tra scuola fascista e scuola dell’autonomia. Poiché con la rinuncia all’istruzione ci si priva del diritto alla severità, è fatale che la scuola educativa cerchi di recuperarla a suo modo: l’alternanza scuola/lavoro imposta a studenti e insegnanti delle superiori da Renzi e Giannini ha il suo sinistro precedente nella V Dichiarazione della Carta: «Dalla Scuola elementare alle altre di ogni ordine e grado, il lavoro ha la sua parte nei programmi. Speciali turni di lavoro, regolati e diretti dalle Autorità scolastiche, nelle botteghe, nelle officine, nei campi, sul mare, educano la coscienza sociale e produttiva propria dell'ordine corporativo» [9]. Inoltre la VII Dichiarazione volle fare della scuola uno strumento per irrompere nell’intimità delle famiglie: «Genitori e parenti partecipano alla vita della Scuola e vi apprendono quella comunione di intenti e di metodi che sorregge le forze dell'infanzia e dell'adolescenza sulle vie della religione dei padri e dei destini d'Italia»10; l’ossessione con cui nella scuola autonoma si sottrae il tempo all’istruzione per dedicarlo all’educazione (sentimentale, alimentare, igienica, sessuale, stradale…) ha esattamente la stessa portata invasiva nella vita familiare.

La riforma fascista della scuola espresse senza finzioni di volere non istruire cittadini liberi, ma educare membri della totalità nazionale; la riforma neoliberale della scuola, la cui realizzazione è stata affidata soprattutto all’abilità di un ceto politico ex stalinista, finge di esaltare l’individuo: la didattica per competenze vuole escludere la passività del discente, l’inclusione vuole impedire la selezione, l’autonomia vuole evitare l’autoritarismo dello Stato. La realtà di questi obiettivi è il tramonto dell’individuo: le competenze escludono la conoscenza, l’inclusività è un pretesto per impedire il lavoro e l’orientamento, l’autonomia dallo Stato è la genuflessione davanti all’ideologia globalista. La scuola che ne è sorta è non meno indottrinante di quella fascista, ma ancora più degradata sotto il profilo culturale.



[1] Parzialmente corretti dai suoi allievi mezzo secolo dopo, quando il danno era irreparabile.

[2] Si tratta della scoperta hegeliana del carattere determinato di ogni negazione, esposta con perfetta chiarezza nell’introduzione della Fenomenologia dello spirito.

[3] È doloroso notare come la scuola attuale non riesca a sottrarsi alla diffusione di una inquietante strumentazione informatica, nonostante l’esperienza quotidiana confermata dai risultati delle neuroscienze abbia accertato oltre ogni dubbio la sua pericolosità per lo sviluppo cognitivo.

[4] Cfr. Renzo De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, Torino 1996, p. 189 e n.

[5] Op. cit., p. 191.

[6] Op. cit., p. 191n.

[7] Op. cit., p. 189.

[8] Op. cit., pp. 191-192.

[9] Disponibile al seguente indirizzo: http://www.biblioarti.beniculturali.it/opencms/multimedia/BollettinoArteIt/documents/1410785833361_02_-_Carta_della_scuola_p._217.pdf

[10] Ibidem.


domenica 16 agosto 2020

Femminismo anticapitalista?

Femminismo anticapitalista?

(elementi di una critica del femminismo, 2)

Marino Badiale






I. Introduzione

Questo scritto parte dalla convinzione della fine relativamente vicina dell’attuale organizzazione economica e sociale, che a partire dal 1989 si è estesa al mondo intero [1]. Il collasso di questa forma sociale, il capitalismo, dipende dal fatto che essa è entrata in una fase di totale distruttività: sta ormai divorando natura e società, distruggendo in tal modo i fondamenti stessi della propria esistenza.

Se questo dato di fatto è già piuttosto preoccupante, ciò che veramente spaventa è rendersi conto della sostanziale assenza di ogni forma di opposizione o di resistenza al suicidio collettivo verso il quale il capitalismo sta portando l’umanità. Ciò dipende sicuramente da molti fattori, ma credo che uno di questi sia il fatto che chi arriva oggi a sviluppare, in un modo o nell’altro, una coscienza critica anticapitalistica, lo fa attraverso una serie di mediazioni culturali che sono in realtà completamente inadatte a costruire una resistenza effettiva. Anche qui, il discorso per essere completo dovrebbe toccare molti temi (di alcuni ho discusso recentemente [2]). Uno di questi è sicuramente la predominanza, all’interno delle minoranze anticapitalistiche, delle tesi del “politicamente corretto”. Nel breve spazio di questo scritto mi concentrerò su un punto specifico, quello del femminismo, e discuterò l’idea, molto radicata nelle piccole cerchie anticapitalistiche, che il femminismo debba essere parte essenziale di ogni progetto di superamento del capitalismo. Intendo quindi discutere le relazioni fra femminismo e anticapitalismo, e intendo criticare la tesi appena esposta. Porterò cioè argomenti a favore delle due tesi seguenti: (a) femminismo e anticapitalismo non hanno nulla di essenziale in comune; (b) il femminismo è diventato, negli ultimi decenni, uno dei pilastri ideologici di sostegno delle società capitalistiche.


II. Modo di produzione capitalistico e oppressione femminile

Se ci poniamo sul piano astratto della struttura logica del modo di produzione capitalistico, è chiaro che non c’è nessuna relazione fra tale struttura e la nozione di oppressione di un genere sull’altro. La struttura logica del modo di produzione capitalistico, nella sua essenza astratta, ha a che fare con due classi sociali (i proprietari dei mezzi di produzione e i produttori privi degli stessi mezzi) che interagiscono tramite l’acquisto, da parte dei primi, della forza lavoro dei secondi. In tutta la complessa analisi svolta da Marx di questa struttura astratta non entra in nessun modo la questione dell’oppressione di un genere, e in realtà neppure quella dell’oppressione razziale, appunto perché si tratta di una struttura astratta che esamina un tipo di relazione sociale nella sua essenzialità logica [3].

Naturalmente l’analisi storica delle concrete società capitalistiche non può fermarsi alla struttura astratta del modo di produzione, ma deve appunto “concretizzare” questa astrazione mostrando come la sua logica agisca e produca effetti storici nella realtà. Detto altrimenti, il modo di produzione capitalistico è descritto da una logica astratta che deve innervarsi nelle complesse articolazioni di una società concreta, per caratterizzare tale società come “capitalistica” e produrre effetti storici reali. Ciò significa che nelle diverse situazione l’interazione fra modo di produzione e realtà sociale può concretizzarsi in modi diversi, e questo vuol dire semplicemente che le società capitalistiche possono essere diverse fra di loro sotto svariati punti di vista, pur restando sempre società capitalistiche. È a questo livello, il livello delle interazioni fra logica del modo di produzione e concrete realtà sociali, che un’analisi di tipo marxista può articolare il tema dei rapporti fra i sessi, degli eventuali elementi di oppressione presenti in tali rapporti, e della relazione fra questo tipo di oppressione e l’organizzazione capitalistica della società, e può quindi eventualmente portare argomenti a proposito del carattere anticapitalistico della lotta di liberazione da una oppressione legata alla differenza sessuale. Ora, il punto fondamentale è che tutta questa articolazione di analisi dipende appunto dalla situazione concreta dei rapporti fra i sessi in una particolare situazione storica. Il fatto che la struttura del modo di produzione capitalistico non ha nulla a che fare col rapporto fra i sessi, implica che di per sé il capitalismo non è né maschilista né femminista: in astratto, è perfettamente pensabile una società capitalistica totalmente priva di qualsiasi forma di oppressione su base sessuale. Del resto, l’indipendenza logica fra capitalismo e oppressione di genere è implicita nella tesi femminista che l’oppressione delle donne sia un dato costante in quasi ogni società umana conosciuta, almeno da svariati millenni in qua: infatti, se è così, è evidente che l’oppressione femminile esiste da molto prima che si possa sensatamente parlare di “società capitalistica”.

Sulla base di questo argomenti, possiamo allora concludere che il modo di produzione capitalistico ha un legame solo contingente e non necessario con l’oppressione femminile, e di converso che il carattere anticapitalistico del femminismo è una contingenza storica, che in quanto tale può darsi oppure no.



III. L’oppressione femminile nella modernità

Proviamo allora ad esporre alcune brevi riflessioni sul modo in cui si sono evoluti i rapporti fra i sessi negli ultimi secoli, cioè nella fase storica in cui il modo di produzione capitalistico si è sviluppato fino a diventare la struttura sociale dominante nell’intero globo [4]. Non c’è dubbio che, in tutta la prima fase dello sviluppo delle società capitalistiche, i rapporti fra i sessi sono impostati secondo uno schema di divisione dei ruoli e dei compiti che relega la donna nella sfera famigliare e la rende, in modo formale o informale, sostanzialmente subalterna all’uomo. Osserviamo per prima cosa che tutto ciò non ha in sé nulla di “capitalistico”, e anzi deriva piuttosto da uno schema di relazioni sociali e di regole culturali tipiche dei periodi storici precedenti la modernità. In sostanza, il rapporto sociale capitalistico, nel momento in cui inizia la sua storia di sviluppo, trova nella società questo tipo di organizzazione dei rapporti fra i sessi, e la adatta alla propria logica. Si può anzi parlare, a mio avviso, di un reciproco adattamento: la famiglia tradizionale, premoderna, comincia a funzionare in un mondo sempre più plasmato dal rapporto sociale capitalistico, e quest’ultimo si adatta ad una società basata sulla famiglia tradizionale e sui suoi valori. Il meccanismo funziona perché le due sfere ricavano vantaggi reciproci: da una parte la famiglia tradizionale rappresenta un elemento di stabilità antropologica e sociale in un mondo in rapido mutamento, dall’altra lo sviluppo capitalistico offre nuove possibilità economiche ai padri di famiglia, che possono approfittarne perché liberati dai vincoli di dipendenza delle comunità premoderne e dal lavoro di cura famigliare, tradizionalmente delegato alle donne.

Questo adattamento reciproco funziona nella prima fase della modernità fino a tutto l’Ottocento, ma viene via via eroso, nel corso del Novecento, dallo stesso sviluppo capitalistico, che rende sempre più obsoleti e insostenibili i valori tradizionali, e in particolare la subalternità politica ed economica della donne. Questi sviluppi si radicano in ultima analisi nel passaggio dal capitalismo tradizionale, basato su risparmio e repressione del desiderio, al capitalismo attuale basato su consumismo ed esaltazione del desiderio [5]. Come è ben noto, a partire soprattutto dalla seconda metà del Novecento, si fanno sempre più forti ed estese le istanze di superamento dei valori tradizionali e le richieste di parità effettiva fra uomini e donne, nella famiglia e al di fuori di essa. Se si vuole scegliere una data simbolica (tenendo ovviamente sempre presente l’arbitrarietà di questo tipo di scelte) è abbastanza naturale indicare il ‘68 come il punto di svolta, il momento storico in cui le società capitalistiche iniziano ad abbandonare i valori tradizionali e ad assumere come punti di riferimento culturale quelli tipici del progressismo. Possiamo allora affermare che da svariati decenni viviamo in un mondo capitalistico nel quale la struttura culturale egemonica ha fatto proprie una serie di istanze tipiche del progressismo moderno, che le rivolgeva contro la cultura tradizionale, quella basata, per capirci, su “Dio, Patria e Famiglia”. Dovrebbe essere allora immediato rendersi conto che, se le società capitalistiche hanno potuto liberarsi di “Dio, Patria e Famiglia” e restare però società capitalistiche, questo dimostra appunto quanto dicevamo sopra, cioè che quei valori tradizionali non hanno nessun legame logico necessario col modo di produzione capitalistico. La lotta contro i valori tradizionali non era dunque di per sé una lotta anticapitalistica, era piuttosto la lotta contro una fase particolare dello sviluppo del capitalismo.

Questo ovviamente non implica in nessun modo che la lotta per l’emancipazione femminile, nella fase storica in esame, fosse superflua o sbagliata. In primo luogo, qualsiasi gruppo umano che subisca qualche forma di discriminazione ha il diritto di lottare per cambiare la propria situazione, che tale lotta sia anticapitalistica oppure no. In secondo luogo, anche dal punto di vista dell’anticapitalismo, occorre ricordare che, in ogni fase storica, ciò che si ha concretamente di fronte non è mai il modo di produzione capitalistico nella sua purezza, appunto perché si tratta di una astrazione. Si ha sempre di fronte una formazione economico-sociale determinata, e la lotta anticapitalistica è sempre lotta all’interno di una tale particolare formazione, e quindi è lotta contro la forma particolare e determinata nella quale si concretizza il modo di produzione capitalistico. In altri termini, se in una determinata fase storica il dominio del capitale si articolava attraverso “Dio, Patria e Famiglia”, allora la lotta contro tali valori tradizionali poteva avere un significato anticapitalistico. La tesi che sto sostenendo è che tale significato anticapitalistico non è dato per l’eternità, ma dipende appunto dalle caratteristiche della formazione economico-sociale nella determinata fase storica. Il problema è allora quello di capire quale sia il senso del femminismo nella società contemporanea, che ha interiorizzato la rivolta contro i valori tradizionali, e realizza quindi il dominio del capitale in forme diverse da quelle della società borghese tradizionale.



IV. La situazione attuale, ovvero l’elefante nella stanza

Da circa tre decenni la formazione economico-sociale capitalistica si è estesa all’intero pianeta ed è entrata in quella fase che è abitualmente chiamata “neoliberismo”. Le caratteristiche di questa fase storica sono state ampiamente esaminate e discusse, da una letteratura ormai amplissima. Senza ripercorrere questi dibattiti, ci basta qui ricordare alcuni aspetti molto evidenti, almeno per il pensiero critico nei confronti dell’attuale organizzazione sociale. La fase neoliberista rappresenta la risposta da parte dei ceti dominanti alla crisi degli anni Settanta, e in particolare rappresenta la sconfitta delle istanze anticapitalistiche che fermentavano nelle società occidentali (e nei movimenti di liberazione di quello che allora veniva chiamato Terzo Mondo). Nelle società occidentali si assiste a una drastico ridimensionamento del peso politico e sociale dei sindacati e del movimento operaio. A questo si accompagna una generale erosione delle conquiste ottenute dai ceti subalterni nella fase precedente: l’attacco ai diritti e ai redditi dei ceti subalterni è continuo e apparentemente inarrestabile. Il lavoro è sempre più precario, i salari stagnanti, le pensioni erose, i servizi pubblici come scuola e sanità sono sottofinanziati e sempre più in difficoltà. La strisciante crisi economica degli ultimi anni non fa che aggravare questa situazione. A tutto questo si aggiunge l’incipiente crisi ecologica, che, a partire dal riscaldamento globale, sta ormai minacciando, come dicevamo all’inizio, i fondamenti stessi dell’attuale civiltà. Il capitalismo neoliberista mostra quindi con ogni evidenza di essere entrato in una fase di totale distruttività, nei confronti di società e natura. Gli attuali ceti dirigenti sembrano del tutto incapaci di porsi all’altezza dei gravissimi problemi che oggi fronteggiano la nostra civiltà, e questo del tutto indipendentemente dalla loro collocazione secondo le categorie tradizionali di destra e sinistra.

Se tutto questo è chiaro, possiamo allora tornare al tema principale di questo scritto, e mettere in evidenza quello che a mio parere è un vero e proprio “elefante nella stanza”, cioè un dato di evidenza macroscopica che però viene sempre occultato, da parte di chi sostiene il carattere anticapitalista del femminismo attuale. Si tratta del fatto che gli ultimi trent’anni di storia, gli anni della vittoria planetaria del capitalismo neoliberista, se da un parte sono, come si è detto, gli anni della sconfitta dei lavoratori, dell’attacco riuscito a diritti e redditi dei ceti subalterni, della distruzione ecologica generalizzata, dall’altra parte sono anche gli anni in cui il femminismo vede una crescita continua di potere, di influenza, di risultati pratici (legislativi) nelle società occidentali. Il femminismo è ormai diventato il codice ideologico dominante: la scuola, i media, il cinema, l’accademia diffondono le tesi femministe in modo pressoché uniforme e senza reali opposizioni.

Questi fatti smentiscono in modo ovvio la tesi che la lotta femminista abbia oggi carattere anticapitalistico. Il fatto che il femminismo sia diventato il codice ideologico dominante del mondo attuale (almeno nei paesi occidentali) ci spinge però a qualche ulteriore riflessione sui rapporti fra femminismo e società capitalistica. Si potrebbe infatti sostenere che, se evidentemente il femminismo oggi non ha nessuna valenza anticapitalistica, esso sia però almeno “neutrale” rispetto all’anticapitalismo: sia cioè un’istanza autonoma di emancipazione che si sviluppa in maniera indipendente rispetto alle dinamiche del capitalismo e dell’anticapitalismo. Questa è, in astratto, una possibilità. Il fatto che il femminismo sia, come abbiamo detto, il codice culturale dominante della contemporaneità dei paesi occidentali induce però ad un certo scetticismo rispetto a questa tesi, almeno per chi crede ancora che “le idee della classe dominante sono, in ogni epoca, le idee dominanti” [6]. Si vuol dire che, se un tipo di visione del mondo viene diffusa con tutti i mezzi a disposizione dei ceti dominanti, essa debba essere in qualche modo funzionale a tali ceti. Questo ovviamente non nel senso di un “grande complotto pro-femminismo”, ma nel senso che vi deve essere un rapporto di funzionalità reciproca fra ideologie dominanti e organizzazione del dominio, altrimenti il dominio stesso entrerebbe in crisi. Ma quale potrebbe essere la funzionalità del femminismo rispetto ai ceti dominanti, in questa fase storica?



V. Femminismo funzionale

Per rispondere a questa domanda dobbiamo esporre quale sia, a nostro avviso, il problema fondamentale che si pone oggi ai ceti dominanti dei paesi occidentali. Riprendendo quanto già detto, la tesi di questo scritto è che il dato di fondo del nostro tempo è la prospettiva sempre più chiara di una fine prossima dell’attuale civiltà, e il problema di fondo degli attuali ceti dominanti è, di conseguenza, quello di mantenere il controllo dei ceti subalterni in una fase di crisi sempre più acuta. È abbastanza chiaro che si è avviato nei paesi occidentali un distacco fra élite e ceti subalterni, e questo distacco non potrà che accentuarsi. Non si tratta più solo del fatto che i ceti subalterni subiscono una continua erosione dei loro livelli di vita, dei redditi, dei diritti: questo è tipico dell’intera fase storica del neoliberismo. Si tratta ora del fatto che diventa sempre più chiaro come tutto questo, lungi dal portare a una crescita economica che avrebbe dato qualche briciola a tutti, come l’ideologia neoliberista ha finora millantato, porta invece a catastrofi sempre più gravi, e in prospettiva a una rovinosa crisi di civiltà. Quanto più crescerà la coscienza di tutto ciò, tanto più difficile sarà per i ceti dominanti continuare a gestire la protesta e la rabbia dei ceti subalterni.

Se questo inquadramento generale della situazione attuale è corretto, possiamo tentare alcune ipotesi sui motivi per i quali il femminismo risulta funzionale agli attuali ceti dominanti. Credo che gli elementi fondamentali a questo proposito siano due: da una parte il femminismo è parte di una politica di divisione dei ceti subalterni, dall’altra è un elemento di legittimazione ideologica dei ceti dominanti. Vediamo di esaminare questi due elementi nell’ordine indicato.



VI. Il femminismo come lobby delle donne

Per capire come il femminismo contemporaneo sia funzionale al capitalismo neoliberista, può essere utile ricordare il modo in cui le istanze di emancipazione femminile si articolavano all’interno dei movimenti socialisti e comunisti nella fase storica precedente il neoliberismo. In quella realtà la lotta per l’emancipazione femminile era parte di una lotta complessiva per il superamento del rapporto sociale capitalistico. Al centro di questa lotta vi era il rapporto fra capitale e lavoro, ed era compito della dirigenza politica articolare attorno a questo centro di gravità le lotte emancipative dei vari gruppi oppressi (donne, minoranze razziali). La visione generale era quella di un progresso (di tipo graduale o attraverso passaggi rivoluzionari, la questione qui non ha importanza) verso una società dove la fine dello sfruttamento capitalistico avrebbe creato le condizioni materiali per il superamento di tutte le altre forme di oppressione. Le lotte per l’emancipazione femminile erano viste come uno degli aspetti necessari di una lotta generale per il bene comune (la fine del capitalismo, il socialismo). Ovviamente questa impostazione generale poteva incontrare difficoltà nella sua applicazione pratica: potevano sorgere contraddizioni fra i vari piani della lotta, gli operai che lottavano generosamente per la propria dignità nella fabbrica potevano poi comportarsi come padri o mariti oppressivi; ma si trattava comunque, come si diceva all’epoca, di “contraddizioni in seno al popolo”, e l’abilità politica dei gruppi dirigenti dei partiti socialisti e comunisti si misurava anche nel riuscire a mediare queste contraddizioni.

Il femminismo moderno non ha evidentemente più nulla a che fare con questa impostazione del tradizionale femminismo socialista e comunista, che abbiamo qui ricordato appunto per meglio illuminare, per contrasto, le caratteristiche del primo. Le rappresentanti del femminismo moderno sono a tutti gli effetti membri dei ceti dirigenti del mondo capitalistico, e tutta la loro azione consiste in continue rivendicazioni a favore delle donne. Il femminismo attuale appare cioè come una specie di “lobby delle donne” che non fa altro che chiedere misure legislative, economiche, sociali a favore delle donne. Ora, una simile impostazione di tipo strettamente rivendicativo può avere senso quando un movimento difende gli interessi di un gruppo oppresso ed è totalmente esterno agli ambiti del potere. Ma nel momento in cui un movimento accede a tutte le sfere principali del potere (parlamento, governo, magistratura, mass media) ci si dovrebbe aspettare un’evoluzione che lo porti ad occuparsi non solo del gruppo di riferimento (le donne) ma in generale di tutte le persone: del bene comune. Non è evidentemente quello che succede. Il femminismo, una volta arrivato al potere, continua a parlare delle donne, a occuparsi delle donne, a fare rivendicazioni in favore delle donne. Funziona cioè, ripetiamoci, come la “lobby delle donne”. Il punto è che, avendo completamente rinunciato ad un’idea alternativa di organizzazione economica della società, per funzionare come lobby non deve ovviamente mettere in discussione l’assetto consolidato del potere. Se voglio ottenere finanziamenti, per gruppi o iniziative femministe di vario tipo, non posso contestare a fondo e mettere in crisi il potere economico dal quale, in ultima analisi, quei finanziamenti arrivano. Il femminismo attuale appare dunque solo come una delle tante lobby che lottano per spartirsi denaro e potere, all’interno della struttura sociale del capitalismo neoliberista. Ma l’organizzazione della politica come lotta fra le varie lobby per spartirsi denaro e potere, senza che nessuna metta in questione l’organizzazione sociale capitalistica, è esattamente la struttura più adatta alla riproduzione di tale organizzazione sociale, nella sua fase neoliberistica. Infatti se la politica si riduce a uno scontro di lobby significa che i ceti subalterni, per salvare qualche elemento di qualità della vita, hanno come unica possibilità appunto quella di organizzarsi come lobby dimenticando il bene comune e la lotta contro i ceti dominanti. Ma in questo modo inevitabilmente essi si frammenteranno secondo le varie possibili linee di divisione (donne contro uomini, bianchi contro neri, settentrionali contro meridionali, lavoratori autonomi contro lavoratori dipendenti), e finiranno per mettersi in concorrenza fra di loro. La situazione in cui i ceti subalterni sono divisi e in concorrenza fra di loro è ovviamente quella ottimale per i ceti dominanti.

Il femminismo attuale, che non mette in questione il capitalismo ma lotta per acquisire potere al suo interno, è dunque perfettamente funzionale alle caratteristiche della fase attuale del capitalismo stesso. Tutto ciò appare più evidente se si esaminano alcuni fatti concreti. Uno di questi è la richiesta, tipica del femminismo attuale, di maggiore presenza femminile nelle sfere più alte del potere, nelle “posizioni apicali”, come si dice oggi. Se la situazione contemporanea è quella di una prossima crisi di civiltà, come l’abbiamo delineata sopra, è evidente che per la maggioranza della popolazione (uomini e donne dei ceti subalterni), che subirà il peso maggiore di tale crisi, non fa nessuna differenza che il ceto dominante, incapace di fare qualcosa per fermare tale crisi, sia composto in maggioranza da uomini, o paritariamente da uomini e donne, o magari in maggioranza da donne. Mettere una simile questione al centro dei problemi significa evidentemente eludere e occultare la questione reale. Per fare un altro esempio, è significativo che il femminismo non parli mai del problema delle morti sul lavoro. Ciò dipende naturalmente dal fatto che i morti sul lavoro sono in stragrande maggioranza uomini. Il problema dei morti sul lavoro viene quindi tacitamente considerato “un problema degli uomini”, e con ciò cade la possibilità di impostare una lotta collettiva contro uno degli aspetti più oscuri dell’attuale organizzazione economica e sociale. In entrambi i casi, il risultato dell’azione del femminismo è quello di occultare ciò che potrebbe imbarazzare la narrazione dei ceti dominanti.

L’effetto pratico del femminismo è dunque di dividere i ceti subalterni contrapponendo uomini e donne, e di occultare i problemi reali che tali ceti affrontano e quelli sempre più gravi che si troveranno ad affrontare in un futuro non troppo lontano. Il fatto che il femminismo attuale risulti funzionale ai ceti dominanti si mostra con chiarezza.



VII. Il femminismo come strumento di legittimazione ideologica.

Esaminiamo ora il secondo aspetto di funzionalità del femminismo rispetto all’attuale struttura del dominio, cioè il fatto che esso funziona come strumento di legittimazione ideologica dei ceti dominanti. Si tratta, a mio avviso, dell’aspetto più significativo, e mettere in luce tale aspetto è il compito più importante che personalmente attribuisco al presente scritto.

Abbiamo sopra delineato quella che ritengo essere la situazione attuale: siamo entrati in una fase storica in cui diventeranno sempre più gravi e ingestibili i problemi della società attuale, sul piano ecologico, economico e politico. Avremo ripetute crisi, sempre più gravi, che si intrecceranno fra loro, portando a un continuo abbassamento dei livelli di vita, fino ad un crollo generalizzato dell’attuale organizzazione economica e sociale. Tale continuo peggioramento sta portando a un distacco sempre più marcato fra ceti subalterni ed élite. Il problema di fondo è che i ceti dominanti non dispongono di nessuna strategia per il superamento in senso progressivo di questa situazione. Non sono cioè in grado di offrire ai ceti subalterni nessuna prospettiva realistica, nessuna proposta di compromesso sociale che permetta da una parte la perpetuazione del loro dominio, dall’altra il soddisfacimento di almeno alcune delle richieste basilari dei ceti subalterni.

In questa situazione diventa fondamentale disporre di strategie di legittimazione ideologica. Ovviamente queste strategie fanno sempre parte degli ingredienti necessari di una egemonia sociale e politica, ma in condizioni di stabilità sociale esse si accompagnano a forme di compromesso che garantiscono un livello di vita accettabile ai ceti subalterni: e questo è esattamente quello che i ceti dominanti oggi non riescono più a fare. In tale situazione l’importanza della legittimazione ideologica è, evidentemente, molto accresciuta. La mossa ideologica fondamentale dei ceti dominanti, sostenuti dall’intero apparato della cultura e dei mass media, è quella di screditare i ceti popolari come moralmente inferiori e di accreditare se stessi come moralmente superiori. Il politicamente corretto, e in particolare il femminismo, sono una componente fondamentale di questa strategia. I ceti dominanti rappresentano se stessi come coloro che difendono valori moralmente superiori, appunto la liberazione femminile, i diritti LBGT, e in generale le istanze “politicamente corrette”, e rappresentano i ceti popolari, quando da questi ultimi emerge la protesta, come esseri moralmente inferiori: razzisti, misogini, omofobi, nazionalisti e così via, tutte caratteristiche spesso sintetizzate nel termine “fascista”. In questo modo il dominio viene rappresentato come moralmente necessario: c’è bisogno di noi, dicono in sostanza i ceti dominanti, per portare avanti le nobili cause sopra indicate, che l’orrido popolo farebbe arretrare.

Questa strategia di legittimazione ideologica può certo portare a qualche vantaggio per i ceti dominanti, nel breve periodo. Si tratta però di una impostazione che stravolge la realtà e rende ancora più difficile affrontare i problemi che la nostra società ha di fronte. I ceti popolari, infatti, non sono né fascisti né antifascisti, né misogini né femministi, né omofobi né filoLBGT: semplicemente, i ceti popolari hanno altri problemi, e chiedono a gran voce, quando protestano, che tali problemi vengano affrontati. La delegittimazione che li colpisce non fa che esacerbare la loro rabbia, e rendere più difficile la ricerca di un compromesso, che sarebbe l’unica strada sensata da percorrere. Il problema, come abbiamo già detto, è che i ceti dominanti non hanno nessun compromesso da offrire, e la loro strategia di autolegittimazione ideologica, sopra delineata, serve solo a guadagnare tempo. Ma il tempo guadagnato per il dominio è tempo perso per l’umanità, per la ricerca e l’organizzazione di strategie che possano alleviare i drammi che dovremo affrontare; è tempo che ci avvicina sempre di più al crollo di questa civiltà, con tutte le sofferenze e gli orrori che questo comporterà. Visti da questa prospettiva, gli attuali ceti dominanti possono quindi essere tranquillamente definiti come nemici del genere umano. È triste dover ammettere che il femminismo, nato per combattere una situazione di minorità della donna che andava a detrimento della dignità dell’essere umano, sia diventato una mera articolazione delle strategie di legittimazione dei nemici del genere umano. Ma questa è la realtà.



VIII. Le illusioni del femminismo di estrema sinistra.

Vi è naturalmente una obiezione agli argomenti finora sviluppati, che consiste nel distinguere fra varie forme di femminismo. Le critiche fin qui svolte colpirebbero il femminismo neoliberale ma non toccherebbero il femminismo marxista, o di estrema sinistra: infatti questa forma di femminismo è fortemente critico verso il capitalismo e il neoliberismo, e non può quindi essere accusata di farsi inglobare nelle strutture del potere attuale.

Questo obiezione appare fondata, almeno in prima analisi, se si fa riferimento alla produzione intellettuale, nella quale in effetti il femminismo marxista esprime, come il resto del marxismo accademico, interessanti punti di vista, che non possono certo essere classificati come capitalisti o neoliberisti.

Il punto è che, parlando di un mondo intellettuale di ispirazione marxista, è lecito chiedere al femminismo di estrema sinistra che ne è del rapporto con la prassi, cioè come si traducono le enunciazioni anticapitalistiche nella prassi politica. La tesi che intendo sostenere è che il femminismo di estrema sinistra vive in una situazione di falsa coscienza che è tipica dell’intero mondo dell’estrema sinistra, e che ho esaminato nel testo citato alla nota [2]. Riassumo brevemente le tesi di tale scritto, per gli aspetti che adesso ci interessano. L’estrema sinistra dei paesi occidentali, nell’intera sua storia che dura da circa un secolo, non ha mai avuto la capacità di incidere concretamente nella sfera della politica e dei suoi rapporti di forza, e questo per limiti intrinseci alla sua stessa natura. In tale situazione, chi aderisce all’estrema sinistra ha di fronte due possibilità. In primo luogo può ritirarsi dalla politica, e questo è il caso di tanti piccoli gruppi e partitini che sublimano la propria impotenza politica con la ripetizione di rituali rivoluzionari di altre epoche storiche. In secondo luogo, può scegliere di fare da supporto all’azione politica della cosiddetta “sinistra liberale” o “sinistra moderata”. Quest’ultima però è totalmente interna al mondo del capitale, è solo una delle sue articolazioni, e la sua azione politica, nella fase neoliberista, è appunto indirizzata a mettere in opera le istanze antipopolari del neoliberismo, totalmente opposte ai principi radicali che l’estrema sinistra a parole rivendica. L’evidente contraddizione è coperta dalla tesi che sia possibile influire in qualche modo sulla sinistra liberale, piegarne l’azione in senso più radicale, deviarla in direzioni più confacenti alle tesi di estrema sinistra. Ma questo è impossibile, perché per poterlo fare l’estrema sinistra dovrebbe avere quella forza politica e quel radicamento sociale che non ha e non può avere, per i suoi limiti intrinseci. Quello che succede allora, nella realtà, è che la sinistra radicale, quando collabora con la sinistra liberale, è solo un supporto a politiche capitalistiche e antipopolari, e si nasconde questa situazione con chiacchiere radicali prive di qualsiasi rapporto con la realtà. Mi sembra che la nozione di “falsa coscienza” sia quanto mai adatta a descrivere questa dinamica.

Se tutto questo è chiaro, è anche chiaro come il femminismo di estrema sinistra non faccia che ripetere questo schema: incapace di agire nella realtà, si riduce a supporto del femminismo di potere, decorando questo essere mero supporto con una fraseologia radicale.

Un esempio concreto di questa dinamica lo si è visto nel 2019, con la vicenda del Disegno di Legge 735 sulle separazioni (il cosiddetto “DDL Pillon”). Ho già discusso questo tema in un mio scritto [7], quindi non ripeto le analisi ivi svolte, per non appesantire il presente articolo, ma mi limito a riprendere le tesi che mi servono adesso, rimandando allo scritto citato per una analisi più approfondita. Per andare al nocciolo della questione, la realtà attuale delle separazioni in Italia presenta, specie in presenza di figli, una grave criticità di radice in ultima analisi economica: nella sostanza, con gli stessi redditi con i quali prima della separazione veniva mantenuta una famiglia, ora bisogna mantenerne due, e il peso di questa nuova situazione viene accollato, nella maggioranza dei casi, al padre. In presenza di persone benestanti questo comporta un deciso abbassamento del livello di vita, ma non ancora un dramma. Il dramma interviene quando si è in presenza di persone di reddito medio-basso o basso: in tal caso il netto impoverimento che viene scaricato sul padre può portare a situazioni di gravissima difficoltà, fino alla miseria vera e propria. L’unica soluzione al problema, a mio avviso, è un intervento statale che si faccia carico dell’aiuto economico alle madri separate, sollevando i padri dal peso economico oggi caricato su di loro.

Si tratta di una tematica che dovrebbe essere chiara al femminismo di estrema sinistra. Stiamo infatti parlando di lavoratori a basso reddito che vengono colpiti sul piano economico e messi in gravi difficoltà: se una persona di estrema sinistra non percepisce questo problema, che significato avrà mai il suo essere di estrema sinistra? Inoltre, l’attuale situazione crea migliaia di conflitti fra persone a basso reddito (i genitori in fase di separazione), crea cioè conflitti e contraddizioni all’interno di quel “popolo” sul quale l’estrema sinistra dovrebbe basare la sua azione politica. È chiaro che si tratta di una situazione del tutto negativa e da superare, se appunto l’essere di estrema sinistra ha qualche significato.

Su questa situazione problematica intendeva intervenire il “DDL Pillon”, stabilendo alcuni principi di equità (tempi paritari dei figli con i genitori, per esempio), ma non intervenendo però sul problema economico. Questo era chiaramente un grave limite, perché, come ho appena indicato, il punto non sta nel decidere quale dei due separati debba andare in miseria, ma sta nel prevedere un intervento pubblico per evitare che la separazione implichi la miseria. L’unica presa di posizione politica che potesse definirsi di sinistra, nel senso di preoccuparsi degli interessi dei ceti subalterni, doveva allora necessariamente prevedere i seguenti passaggi: in primo luogo, riconoscere che il sistema attuale delle separazioni va superato; in secondo luogo, valorizzare gli elementi di equità contenuti nel DDL Pillon; in terzo luogo, lottare perché esso venisse cambiato correggendo alcuni aspetti critici, in particolare per quanto riguarda il problema economico, come sopra accennato. Come è noto, non è quello che è successo. Il femminismo italiano, in tutte le sue componenti, ha scatenato un fuoco di sbarramento contro la prospettiva di eliminare l’iniquità della situazione attuale, ricevendo il sostegno quasi unanime dei media (una dimostrazione in più di come il femminismo sia ormai interno al potere). In questo modo il femminismo ha ottenuto di bloccare il DDL Pillon, e quindi di mantenere il sistema delle separazioni in Italia nella sua struttura attuale, iniqua in sé, e in particolare nei confronti dei padri di basso reddito. Il femminismo di potere ha cioè agito secondo la sua natura di “lobby delle donne”, di cui si è detto. Cosa ha fatto invece il femminismo di estrema sinistra? Esattamente quello che abbiamo descritto più sopra in astratto: si è accodato al femminismo di potere, e ha dato il suo contributo, piccolo o grande che sia, a mantenere una situazione iniqua e in contrasto con gli ideali proclamati dall’estrema sinistra. Non so se a questa azione, che è la sostanza, il femminismo di estrema sinistra abbia aggiunto qualche chiacchiera radicale per differenziarsi dal femminismo liberale. Se l’ha fatto, si tratta di pura e semplice falsa coscienza, come abbiamo spiegato sopra.



IX. Considerazioni finali. Verso una dittatura politicamente corretta, e oltre.

Per completare quanto fin qui detto, sono utili alcune considerazioni svolte da A.Zhok nel suo ultimo libro [8]. L’autore argomenta che il politicamente corretto è espressione di una egemonia all’interno dei ceti dominanti: “l’essenza del processo è quella di creare un’egemonia politico-morale presso i “ceti apicali” della società”[9]. Credo che Zhok sia nel giusto, e aggiungerei che questa egemonia è il risultato di uno scontro fra posizioni che potremmo grossolanamente definire come “destra” e “sinistra”, intese come frazioni diverse dei ceti dominanti, che differiscono su alcuni aspetti culturali ma non esprimono in nessun modo progetti alternativi di organizzazione economica e sociale. Il politicamente corretto (e quindi la cultura della frazione “di sinistra” dei ceti dominanti) appare vincente, in questa lotta per l’egemonia, probabilmente perché è quanto di meglio sia disponibile per assolvere la funzione di sostegno ideologico ai ceti dominanti e di sottomissione ideologica dei ceti subalterni, nei modi che abbiamo sopra indicato. In uno scritto recente [10] mi è sembrato di poter individuare, nell’egemonia del “politicamente corretto”, elementi di erosione di alcuni fondamentali diritti liberali degli individui: la libertà di parola e la presunzione di innocenza. Mi sembra che le tendenze di questo tipo si stiano accentuando, e non incontrino significative resistenze. Come ho sopra argomentato, ritengo che esse rappresentino una risposta dei ceti dominanti alla propria crisi di egemonia. A mio parere, tale crisi è destinata ad accentuarsi e a diventare sempre più grave, perché sempre più grave sarà lo sfaldamento dell’attuale organizzazione sociale. Di conseguenza, ritengo assai probabile che anche tali tendenze illiberali si accentueranno. Tutto questo mi porta a fare l’ipotesi che una delle direzioni di fondo del nostro tempo, nei paesi occidentali, sia quella che potrebbe portare ad una “dittatura politicamente corretta” [11]. Per quanto riguarda l’Europa, l’UE mi sembra un buon candidato per evolversi in una realtà di questo tipo. Una tale “dittatura politicamente corretta” non potrà però fermare i processi di disgregazione in corso. Di conseguenza, se si arriverà all’instaurazione di una tale “dittatura politicamente corretta”, assisteremo allo spettacolo di una base sociale sempre più colpita da disastri economici ed ecologici, con fenomeni diffusi di regressione sociale, e di un vertice che, invece di affrontare i drammi nei quali sarà coinvolta la massa della popolazione, si dedicherà a rituali politicamente corretti, come le acrobazie linguistiche per evitare ogni traccia di sessismo nel linguaggio. Si tratta della situazione tipica della decadenza di una organizzazione sociale: disgregazione sociale in basso e vuoti formalismi in alto. È probabile che una tale situazione porterà a forme di rivolta popolare, che inevitabilmente assumeranno una coloritura culturale “di destra”, dovendo contrapporsi all’egemonia del politicamente corretto. Può quindi darsi che la “dittatura politicamente corretta” venga, in qualche caso, sostituita da regimi che assumeranno la forma, per esprimerci in generale, del “populismo di destra”, e può darsi che la contrapposizione fra “dittatura politicamente corretta” e “dittatura populista di destra” continui per un certo periodo, con alterne vicende.

Il punto fondamentale è che destra e sinistra sono semplici sfumature culturali interne ai ceti dominanti, e sono entrambe incapaci di pensare una struttura economica e sociale che non sia il capitalismo: né destra né sinistra hanno in realtà nessuna idea di una organizzazione economica che superi l’evidente insostenibilità dell’attuale società. Di conseguenza, né la “dittatura politicamente corretta” né i “populismi di destra” saranno in grado di agire per prevenire il crollo traumatico dell’attuale civiltà, che colpirà in maniera particolarmente dura uomini e donne dei ceti subalterni. Quali saranno le forme sociali che l’umanità riuscirà a ricostruire dopo il crollo, è argomento sul quale non è possibile fare neppure delle congetture.

In conclusione, ritengo in questo scritto di aver portato qualche argomento a supporto delle tesi iniziali, secondo le quali la sostanziale mancanza di opposizione alla traiettoria suicida del capitalismo attuale è collegata al fatto che le poche e deboli forze che si dichiarano anticapitaliste condividono in realtà ideologie e visioni del mondo che funzionano come strategie di legittimazione del capitalismo stesso. In questo articolo ho cercato di provare questo assunto in relazione al femminismo, ma un analogo lavoro critico potrebbe e dovrebbe essere compiuto per gli altri aspetti del “politicamente corretto”. Può forse essere di consolazione osservare che tale lavoro sta iniziando, almeno in piccole cerchie [12]. Questo non sarà sufficiente a evitare il crollo della nostra civiltà, ma potrebbe fornire a chi verrà dopo alcuni elementi di razionalità e di legame con la realtà, di cui è evidente la mancanza nel mondo contemporaneo.


Genova luglio-agosto 2020.




[1] Ho sviluppato questa idea in vari scritti recenti:

http://www.badiale-tringali.it/2019/06/il-collasso.html

http://www.badiale-tringali.it/2019/09/siamo-vicini-al-collasso.html

http://www.badiale-tringali.it/2019/12/sulle-elite-contemporanee.html


[2] http://www.badiale-tringali.it/2020/06/riflessioni-su-sinistra-radicale-e.html


[3] Naturalmente Marx ha ben presente sia il tema dell’oppressione femminile, sia quello dell’oppressione di tipo razziale, ma quando interviene su questi temi non sta discutendo della struttura logica del modo di produzione capitalistico, ma di questioni ad un minore livello di astrazione.


[4] Per una esposizione precisa e sintetica delle vicende della famiglia nella modernità si veda: M.Bontempelli, La famiglia nell’attuale fase del totalitarismo neoliberista, in Id., Un pensiero presente, Indipendenza-Editore Francesco Labonia (2014), pp. 217-229. Il libro è una raccolta di articoli originariamente pubblicati sulla rivista “Indipendenza”.


[5] Non approfondiamo qui questo passaggio, studiato da una vastissima letteratura.


[6] K.Marx, F.Engels, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti 1975, pag.35.


[7] http://www.badiale-tringali.it/2019/09/noi-vogliamo-luguaglianza.html


[8] A.Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi 2020. Il libro è un tentativo, di grande interesse, di elaborare una “filosofia della storia corrente”, come indica il suo sottotitolo. Tutta la parte finale si collega strettamente ai temi che stiamo discutendo.


[9] A.Zhok, op.cit., pag.323.


[10] http://www.badiale-tringali.it/2020/03/la-commissione-dellamore-e-la-fine-del.html


[11] Una suggestione per la tesi di una “dittatura politicamente corretta” è venuta dalla lettura di G.Mann, J.Wainwright, Il nuovo Leviatano, Treccani 2019. Gli autori sono su posizioni di “sinistra accademica”, quindi ritengo altamente improbabile che possano condividere le analisi da me svolte.


[12] Un esempio è il libro di A.Zhok sopra citato. Altri esempi: J.Friedman, Politicamente corretto, Meltemi 2018; F.Marchi, Contromano, Zambon, 2018; R.Della Vecchia, Questa metà della terra (reperibile gratuitamente in rete:https://altrosenso.wordpress.com/qs-meta-della-terra/ ).