sabato 20 aprile 2019

Continuazione del dialogo (Paolo Di Remigio)

(Paolo Di Remigio continua il dialogo i cui passaggi precedenti sono qui e qui)



Continuazione del dialogo

Paolo Di Remigio


Il ritardo di questa risposta, di cui mi scuso, non è dovuto al venir meno dell’interesse, ma alla difficoltà di trovare la calma necessaria per riflettere con serenità su argomenti così incalzanti. Sul primo punto siamo d’accordo nella sostanza[1]. Vorrei però riflettere sulle convenzioni terminologiche per tentare di collocare filosoficamente l’ecologismo. La mia tesi è che esso, oltre a radicarsi in prospettive politiche conservatrici, abbia una notevole affinità con la corrente antiumanistica del pensiero del Novecento.




Per tutti noi è ormai ovvio immaginare la natura come equilibrio armonico e l’uomo come perturbatore, senza avvertire che si tratta di una visione rovesciata della realtà. L’equilibrio armonico è un sentimento che nasce non dalla natura, la cui azione ci si fa avvertire ormai soltanto nelle catastrofi, ma dall’esperienza dell’ordine sociale. Senza il lavoro, che non solo è il fondamento della società, ma si riversa sulla natura così da renderla abitabile, la natura, più che l’idillio, desta il terrore di essere divorati: l’uomo brucia o seppellisce i propri morti perché non siano il pasto degli animali. Così, mentre l’inesorabilità del mito nasce dall’uomo ancora in balia del capriccio naturale, la compassione religiosa è la visione dell’uomo che abita la natura umanizzata. Se si perdona a Leopardi l’accento esagerato sull’ostilità della natura, è difficile considerare superficiale la concezione espressa nella Ginestra nei vv. 126-135:

                                    … e incontro a questa
                                    congiunta esser pensando,
                                    siccom’è il vero, ed ordinata in pria
                                    l’umana compagnia,
                                    tutti fra sé confederati estima
                                    gli uomini, e tutti abbraccia
                                    con vero amor, porgendo
                                    valida e pronta ed aspettando aita
                                    negli alterni perigli e nelle angosce
                                    della guerra comune.

La visione positiva del lavoro è propria di tutta la filosofia prima del Novecento, pur con accenti diversi tra chi, come Aristotele, Platone, ma anche Hegel e Marx, considera il lavoro come fatica necessaria e quindi come semplice condizione della vita felice, cioè della vita teoretica, e chi, come il positivismo, mette l’accento sul lavoro tecnicamente agguerrito come potere in grado di sottomettere la natura e assicurare direttamente la felicità.
Il sospetto nei confronti del lavoro inizia nel Novecento, propriamente dal più serio dei suoi filosofi, da Edmund Husserl e dalla sua polemica contro il mito positivista della tecnica. Egli ha constatato la tecnicizzazione delle scienze, il fatto che le scienze particolari siano un repertorio di potenti tecniche di soluzione dei loro problemi, ma perse in questa strumentalità, cieche perciò di fronte al senso ultimo.
Non si trattava affatto di una constatazione nuova; già Platone si era accorto del dogmatismo delle scienze di fronte ai loro presupposti più generali e l’aveva imputato al carattere assiomatico dei loro principi. Mentre però Platone ha osservato che la considerazione puramente logica, la dialettica, sana il limite dell’assiomaticità delle scienze legandole all’idea del bene, Husserl prende la strada opposta: vuole riscoprire il senso filosofico delle scienze tecnicizzate non con il dispiegamento dialettico della loro logica, ma riguadagnando, con l’epoché sulle scienze, l’accesso a un’esperienza primigenia dei fenomeni, quando non hanno sofferto ancora la semplificazione che la scienza-tecnica infliggerebbe loro. Anziché indagare gli assiomi e recuperarne il senso con la dialettica, Husserl cerca il senso delle scienze negli atti soggettivi corrispondenti all’esperienza primigenia.
Husserl dà così per scontato che le scienze, nel sollevarsi tramite l’astrazione sopra l’esperienza primigenia per accedere all’elemento logico, la tradiscano, che non ne conservino l’essenza, ma ne perdano il meglio. Poiché l’astrazione appare non il primo passo per raggiungere il senso, ma lo sviarne, e non può esserci scienza senza astrazione, importa poco che Husserl continui a cercare il senso delle scienze negli atti del soggetto trascendentale: sulla stessa scienza, per il fatto che essa non lascia l’esperienza com’è ma astraendo ne enuclea le essenze, aleggia ormai il sospetto che le sue verità siano insensate.
Heidegger, l’allievo di Husserl, trae questa conclusione con irresponsabile cinismo: la logica scientifica sarebbe incapace di giunge al senso ontologico, è tecnica fine a sé stessa, violenza, è dunque relegata nell’ontico, tra le cose-strumenti a disposizione dell’esserci inautentico; la sua pretesa di conoscere l’essere ontologico, la metafisica occidentale, ne sarebbe anzi l’oblio. Ma escludere lo strumento dal senso ha effetti rilevanti sul senso stesso: senza logica scientifica, lontana dalla metafisica, l’ontologia stessa diventa vicinanza a un essere indeterminato, che si nasconde nel suo manifestarsi, la cui estraneità alla logica può essere compensata soltanto dall’allusione etimologica. La tecnicità delle scienze, che Platone, Aristotele, Hegel hanno sanato attraverso il dispiegamento dialettico della loro logica, mostrando cioè la pienezza del senso nello stesso strumento logico, diventa in Heidegger il pretesto per escluderle dal senso e per genuflettersi all’estraneo.
Qualcosa di simile accade nell’ideologia ecologica: a dispetto della sua etimologia, che allude al discorso sulla casa dell’uomo, essa trae dai difetti storicamente determinati della tecnica la concezione della tecnica stessa come violenza inflitta alla generosità naturale, e come animalismo considera l’uomo come specie vivente tra le tante specie viventi: la vita naturale nel suo ottuso riprodurre sé stessa diventa il senso stesso.
Così però è tutto perduto: come nell’heideggerismo sono perdute scienza e filosofia e l’antiumano è spacciato come senso, così nell’ecologismo vanno perduti il lavoro e lo sviluppo produttivo: non è più uno specifico sviluppo e uso della tecnica, quello capitalistico diretto al profitto anziché al consumo, a costituire una minaccia per l’ambiente degli uomini e a esigere quindi una severa regolamentazione statale, ma è il lavoro in sé, la tecnica in sé, che vanno abbandonati affinché l’armonia naturale sia salvata.
Accolto questo presupposto antiumano, l’ecologismo non può che restare inerme contro l’inumanità capitalista, contro il suo malthusianesimo, contro l’idea che le risorse siano limitate e che molti debbano dunque essere eliminati. È questo il senso del penoso spettacolo offerto dai media, in cui si combinano allarmismo e inazione programmata: ci si vuole abituare all’idea che i meccanismi dell’economia diretta al profitto siano intoccabili e che si possa intervenire soltanto sul numero e sul tenore di vita del numero.



[1]     Quanto al secondo punto, riconosco che si diano casi in cui la diminuzione dei consumi interni sia compensata ad abundantiam dall’aumento delle esportazioni; ma a me sembra che si dia anche il caso diverso, quello della semplice recessione economica, per cui si vuole la decrescita complessiva. La crisi economica non è un inconveniente per i grossi capitalisti, ma è l’occasione per fare tante cose: guerre per eliminare rivali geopolitici, esclusione dal mercato delle imprese rivali in difficoltà, umiliazione dei lavoratori e dei ceti medi e vanificazione della democrazia. I capitalisti, come padroni delle banche centrali, dunque della politica economica, sanno benissimo come non si entri e come si esca da una recessione; se vi si entra e si tarda a uscirne, lo si vuole. Il New Deal di Roosevelt trovò a Wall Street nemici irriducibili: i banchieri preferivano la recessione all’alterazione dei meccanismi che assicuravano i loro privilegi. Ribadisco poi che la crescita a cui mira il capitale è crescita del valore, e la crescita del valore può non implicare direttamente la crescita dell’impronta ecologica.

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