giovedì 13 luglio 2017

Sulla decadenza della scuola nel neoliberismo (P.Di Remigio)

(Riceviamo da Paolo Di Remigio e volentieri pubblichiamo. M.B.)



Il Fronte Sovranista Italiano e la scuola pubblica italiana

(Paolo Di Remigio)



1. Ciò che resta della scuola pubblica è uno dei risultati del programma di trasformazione sociale perseguito con lungimirante tenacia e studiata lentezza dalle oligarchie liberali anglosassoni: a partire dagli anni '80, esse hanno riavviato la guerra fredda contro l'URSS e in un decennio l'hanno spinta al tracollo; poi hanno imposto in tutto il mondo le liberalizzazioni, cioè l'abolizione delle leggi (lacci e laccioli) che frenavano l'iniziativa economica, e le privatizzazioni, cioè l'acquisizione dei beni pubblici da parte dei monopolisti privati. L'emarginazione dello Stato dall'economia che ha reso onnipotenti le grandi concentrazioni capitalistiche transnazionali è indicata con il nome asettico di globalizzazione. Soppresse le regole con cui gli Stati regolavano il mercato così da attutirne le asimmetrie e le disfunzioni, i capitali si sono precipitati dove il costo del lavoro era più basso; chiuse le aziende in Occidente e riaperte in Oriente, incoraggiata l'immigrazione dei lavoratori dal Meridione, i lavoratori relativamente garantiti in Occidente sono stati esposti alla concorrenza di quelli non garantiti in Oriente; la disoccupazione montante cancellando la loro forza contrattuale li ha condannati alla precarietà e al pauperismo.
In Europa artefici della globalizzazione sono state le burocrazie della UE. Nel documento del Fronte Sovranista Italiano dedicato alla scuola[1]  è riportata una dichiarazione della Commissione Europea secondo cui «la UE si trova di fronte a una svolta formidabile indotta dalla mondializzazione e dalle sfide relative a un'economia fondata sulla conoscenza». Si noti come la globalizzazione appaia qui non come un programma di un soggetto politico, non come storia, ma come una fase storico-filosofica, a cui non resta che adeguarsi. Si noti ancora l'oscurità del carattere della nuova fase: ‘economia fondata sulla conoscenza’. In realtà l'economia è sempre fondata sulla conoscenza: in ogni caso raccogliere, cacciare, produrre consistono nell'applicare tecniche e le tecniche implicano la disponibilità di conoscenze. Il contesto della delocalizzazione produttiva suggerisce il significato nascosto di questa espressione impropria: poiché la tecnica si divide in una fase ideativa e in una applicativa, in un sapere e in un fare, l'espressione rivela l'intenzione di mantenere in Occidente il sapere e di dislocare in Oriente il fare.
La frase successiva, per cui l'Europa deve diventare «l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura», intesa in riferimento esterno al mondo, oltre a denunciare la velleità imperialistica della UE, le attribuisce la volontà di un'asimmetria anziché l'obiettivo dell'equilibrio generale; ma l'asimmetria economica, lungi dal poter consentire la desiderata crescita duratura, induce le amarissime crisi. Intesa in riferimento interno, la frase annuncia la volontà di scatenare una concorrenza tra i lavoratori che producono conoscenza, per abbassare i costi delle loro retribuzioni, così da aumentare i profitti. La scuola deve provvedere al capillare assoggettamento al capitale dei lavoratori della conoscenza, così da perfezionare la proletarizzazione del ceto medio di cui sono parte.
Applicata alla scuola, la retorica dell’economia della conoscenza provoca però una contraddizione non meno grave dell'attendersi la crescita duratura dall'intensificazione della competitività. La scuola funzionale all'economia della conoscenza dovrebbe essere più licealizzata e meno professionalizzante, orientarsi, anziché all'applicazione particolare, alla teoria generale; è il generale infatti, in virtù della sua astrazione dal particolare, ad essere flessibile e applicabile ai più differenti ambiti empirici; dunque più grammatica per facilitare l'apprendimento delle lingue e procurare agilità logica, più matematica per sviluppare le capacità di astrazione e di rigore dimostrativo, più storia per sviluppare il senso della complessità, più filosofia per sviluppare il senso critico.
Nulla di tutto ciò. Ignorando il significato di ciò che dichiara, la Commissione europea pretende che il ruolo della scuola sia quello di «dare la priorità allo sviluppo delle competenze professionali e sociali, per un migliore adattamento dei lavoratori alle evoluzioni del mercato del lavoro (CEE 1997)». Una pretesa contraddittoria: se il mercato del lavoro si evolve, se ogni tecnica particolare diventa subito obsoleta ed è sostituita da un'altra tecnica particolare, è necessario insegnare meno tecniche particolari professionalizzanti condannate all'effimero, e più principi generali che restano stabili nell'evolversi della tecnologia: meno tornio, meno fresa, più matematica, più fisica, meno competenze concrete (professionali e sociali), più competenze universali, valide cioè in ogni situazione.


La UE vuole intelligenze flessibili, cioè universali, ma vuole educare i giovani europei irrigidendoli al particolare. La confusione aumenta al summit di Lisbona del marzo 2000. Racconta il documento FSI che vi «si invocano competenze di base relative alla tecnologia dell'informazione, alla comunicazione nella lingua madre e nelle lingue straniere, e una cultura tecnologica, allo spirito d'impresa e alle attitudini sociali e si precisa che non si tratta di discipline come le abbiamo conosciute a scuola, bensì di ‘vasti domini di conoscenze e di competenze, tutti interdisciplinari’». L'idea, in verità piuttosto totalitaria, è che ogni alunno deve diventare un imprenditore. Di quale forza lavoro? È ovvio: di quella del terzo mondo in cui è emigrato il fare. Ma è un errore credere che le capacità interdisciplinari possano essere conseguite prima e indipendentemente dalle capacità disciplinari, che in didattica la sintesi possa precedere le analisi. Saltare gli aridi elementi iniziali per affrettarsi al rigoglioso risultato definisce l'impazienza che impedisce l'apprendimento autentico e genera il dilettantismo improduttivo e imitativo.
Questo mettere il carro davanti ai buoi, questo volere il fine ultimo rifiutando i fini intermedi che ne sono i mezzi indispensabili manifesta il liberalismo dilettantesco di ogni riforma della scuola ispirata dalla UE – un po' come la stessa UE che impone alle economie europee il fine ultimo dell'unione monetaria prima del fine intermedio della loro convergenza, provocandone proprio per questo una disastrosa divergenza: nell'uno e nell'altro caso si è di fronte a dilettanti che mettono a repentaglio tutto ciò che toccano con le loro manacce maldestre. Si vogliono gli obiettivi tipici dell'educazione superiore: adattabilità, flessibilità, formazione permanente (chi aveva studiato nel liceo classico di una volta frequentava con successo ingegneria non meno di chi aveva studiato all'istituto tecnico – perché sapeva studiare), si raccomanda il mezzo loro contrario della professionalizzazione, che induce rigidità, esecutività, refrattarietà alla formazione continua.
Dietro questa contraddizione si agitano più pensieri latenti. C'è innanzitutto la grettezza del liberalismo come ideologia del grande capitale che rifugge dagli investimenti a lungo e a lunghissimo termine, perché ai loro pericoli preferisce i facili guadagni di borsa o quelli sicuri di monopolio. La formazione teorica e la scienza sono molto più di un investimento: non servono a fare soldi, anzi, il rapporto giusto è che il fine ultimo della vita activa è la vita contemplativa e che questa vada garantita innanzitutto per se stessa e solo secondariamente perché fornisce i mezzi del progresso della vita activa. Poiché sono al di là di ciò che si chiama ‘razionalità’ economica, cioè della cieca avidità, e sono da sempre il frutto della cultura interdisciplinare che Aristotele chiamava σχολή e i latini otium, la scienza e la teoria sono sempre state obiettivi dello Stato. Il liberalismo, orientato all'accumulazione della ricchezza, è talmente lontano dalla vita contemplativa da calunniarla come improduttiva quando vi si imbatte; viceversa, quando senza rendersene conto la raccomanda, la irrigidisce in una disciplina particolare insegnabile direttamente e in alternativa alle altre; così l'interdisciplinarità di cui parla la Commissione Europea, come disciplina da insegnare prima e in sostituzione delle discipline, è la sapienza dell'insipiente, il dilettantismo in cui si risolve da sempre l'essenza della didattica liberale.
Dietro la contraddizione di cogliere il frutto dell'interdisciplinarità senza arrampicarsi sui rami delle discipline, dietro l'ipocrisia di una didattica che promette altissimi obiettivi evitando la fatica dell'apprendere[2], riducendo quindi la scuola a paese dei balocchi, c'è però un secondo pensiero latente, propriamente un interesse. Il liberalismo consiste nel liberalizzare e nel privatizzare l'attività economica; liberalizzare significa abolire le leggi che frenano l'iniziativa del privato; ma le leggi sono il contenuto proprio della scienza; liberalizzare l'istruzione equivale dunque ad espellere la scienza dalla scuola, a umiliarla culturalmente e a sottometterla alla soggettività privata. Poiché privatizzare significa invece cedere una funzione pubblica ai privati così che sia finalizzata al loro profitto, ne segue che l'umiliazione del rigore scientifico della scuola pubblica tramite la sua liberalizzazione, annullandola come scuola e trasformandola in ospizio, stronca un agguerritissimo concorrente della scuola privata e permette di privatizzare l'istruzione. Con la distruzione scientifica e culturale della scuola pubblica il bisogno di istruzione di qualità è infatti costretto a trasformarsi in domanda solvibile, che genera a sua volta la relativa offerta e la relativa possibilità di profitto. La liberalizzazione della scuola, la cosiddetta autonomia, ha lasciato sbizzarrire lo sperimentalismo didattico più dilettantesco perché l'esito peggiore, il suo fallimento e il determinarsi di una situazione di sconsolato degrado culturale, era in fondo l'esito sperato, quello più in armonia con l'utopia liberale di una società in cui ogni attività pubblica è privatizzata. Poiché il fine ultimo dell'intervento liberale era il divaricarsi della scuola tra un'istruzione pubblica umiliata e un'istruzione privata d'eccellenza, il modello di ogni riforma scolastica è stato trovato nella scuola anglosassone, che da sempre è divisa in miserevoli scuole di stato e in costosissime public school, fonte di profitto per chi vi investe e di interessi per le banche che finanziano le famiglie del ceto medio che vi iscrivono i figli.
2. In Italia la scuola liberale con tutto il suo carico contraddittorio si afferma in modalità particolari e contestualmente a una cessione della sovranità che equivale al suo tramonto: ad attuarla non sono i moderati, ma personaggi venuti su dall'estrema sinistra rivoluzionaria, come Berlinguer e De Mauro, che aggrovigliano l'individualismo liberale e la sua retorica produttivista, di cui sono al servizio, con l'individualismo libertario nel contenuto e dogmatico nella forma, che forma la loro retorica.
Il groviglio di liberalismo e retorica rivoluzionaria è diventato inestricabile nel concetto di uguaglianza, attualmente radicalizzatosi nella retorica dell'inclusione, con cui si consentono ridimensionamenti degli obiettivi a chi certifichi particolari difficoltà cognitive. Gli esseri umani sono uguali nella loro umanità, nella loro essenza, che si procurano riconoscendosi; per il resto sono disuguali. E non soltanto nel senso che sono diversi e magari complementari, ma anche nel senso quantitativo dell'essere più o meno intelligenti, più o meno laboriosi, più o meno forti, più o meno favoriti dalle circostanze. Di fronte a questa doppia realtà Aristotele osserva che la giustizia consiste nel trattare in modo uguale gli uguali, in modo disuguale i disuguali. Così la legge, che pure è uguale per tutti, riconosce ai più deboli maggiori protezioni. Nella scuola il principio dell'uguaglianza non ha applicazione sensata: le differenze tra gli alunni all'inizio dell'azione didattica impongono di dare di più a chi o per natura o per circostanze sociali ha più difficoltà, in modo che sia soddisfatto l'interesse di ciascuno di acquisire almeno le competenze teoriche minime e l'interesse sociale alla diffusione della conoscenza e dell'educazione. In questo senso la scuola agisce in modo da accorciare le distanze nella situazione iniziale. Proprio il contrario fa la prassi dell'inclusione: anziché dare di più, essa consente di chiedere meno a chi affronta più difficoltà.
L'ideale dell'uguaglianza non ha senso neanche rispetto ai risultati dell'azione didattica. È una tautologia che chi è più dotato arriva ad obiettivi più elevati in meno tempo e con meno fatica; la scuola non ha alcun diritto di rallentarlo perché gli altri non si sentano umiliati: tutti devono incoraggiare chi può raggiungere risultati eccellenti e capire che il raggiungimento di questi risultati è un vantaggio per ognuno.
La scuola viola dunque giustamente il principio dell'uguaglianza sia all'inizio, quando si adopera in favore dei meno capaci affinché raggiungano gli obiettivi essenziali, sia alla fine, quando ha accresciuto la distanza tra chi è più capace e chi lo è meno. La scuola di un tempo era in torto in quanto trascurava la prima violazione, mirava dunque a escludere i meno favoriti, anziché ad incoraggiarli ed aiutarli; ma la scuola dell'autonomia è in torto su entrambi i fronti, in quanto nel nome dell'uguaglianza rinuncia ad insegnare e fa torto tanto ai meno dotati, che lascia uscire indisciplinati e privi di mezzi intellettuali, quanto ai più dotati, che fa uscire sostanzialmente ignoranti, scettici se non presuntuosi; differenziando inoltre gli obiettivi didattici rilascia un attestato di studi che equivale a un attestato di frequenza.
Le aporie del principio di uguaglianza caro ai rivoluzionari li rendono un alleato decisivo in favore della disuguaglianza liberale. Se infatti l'uguaglianza diventa il criterio ultimo ed essa può essere raggiunta soltanto attraverso la rinuncia alla didattica, chi frequenta la scuola pubblica ugualitaria, dotato o meno che sia, è privato di istruzione. Per procurarsela dovrebbe frequentare la scuola privata, ma può farlo solo se dispone di un reddito elevato. L'uguaglianza scolastica diventa blocco di chi è povero ma capace e meritevole, e una serrata dell'oligarchia a cui le scuole migliori e i migliori posti che esse procurano diventano accessibili in base non alla capacità e al merito ma alla ricchezza. È quanto accade nei paesi anglosassoni dove la scuola pubblica è profondamente degradata: non vi si studia e non vi si impara nulla; chi voglia istruirsi e avere accesso alla classe dirigente deve iscriversi alla scuola privata (in Inghilterra le public school) e pagare rette intorno ai 25000 € annui. Queste scuole sono dunque precluse al ceto medio, a meno che non si indebiti.
Il ministro Berlinguer presentò la sua riforma come finalizzata all'«esigenza di ciascun individuo di cambiare più volte la sua attività nel corso dell’esistenza»; «… di fronte a queste necessità – sosteneva il ministro – la scuola non deve più porsi con la pretesa di consegnare saperi abilità e capacità definitive, ma puntare invece sullo sviluppo di requisiti quali la capacità di apprendere, di scegliere, di cooperare, di risolvere problemi». Nella retorica di Berlinguer il dilettantismo della pedagogia liberale che scambia i fini ultimi dell'educazione per mezzi e dunque rifiuta i mezzi per raggiungere i fini, acquisisce tratti di grottesco irrazionalismo: le categorie, le leggi universali, che sono il contenuto della scienza e che permettono l'orientamento in ogni situazione, dunque il dominio di ogni cambiamento, sono scambiate per effimeri espedienti pratici. Se non esistesse scienza, se le regole grammaticali, i teoremi della matematica, le leggi della fisica e della chimica, le norme dell'etica fossero non la base stabile di ogni cambiamento e di ogni creatività ma materiali trascinati via dall'alluvione del divenire, insegnare sarebbe impossibile, quindi propriamente non ci sarebbe neanche l'esigenza di una riforma della scuola, resterebbe soltanto la necessità di sopprimerla. In effetti la liberalizzazione che Berlinguer ha imposto alla scuola pubblica, la riforma dell'autonomia già introdotta in Francia un decennio prima con esiti catastrofici, equivale all'averla distrutta come scuola.
Gli insegnanti italiani, tutti gli insegnanti, sono stati squalificati perché, chiusi nella loro scienza, non saprebbero insegnare – ma è evidente che conoscere la scienza è condizione minima dell'insegnarla, e non implica affatto che non la si sappia insegnare con efficacia. I riformatori volevano però liberalizzare la scuola pubblica, escluderne cioè i lacci e laccioli delle scienza; perciò volevano sopprimere l'insegnante scienziato e creare un insegnante nuovo, che sapesse insegnare ignorando la scienza, che cioè fosse, come alcuni pedagogisti lo chiamano senza arrossire, ‘animatore’. D'altra parte, squalificare un'intera generazione di insegnanti inducendoli alla sfiducia in se stessi era in armonia tanto con la diffamazione liberale del settore pubblico quanto con la critica ‘rivoluzionaria’ del potere statale. Berlinguer riformava infatti una scuola pubblica in cui l'onda libertaria del Sessantotto aveva già soffocato l'esigenza del rigore nello studio delle discipline decisive sul pi­ano delle competenze superiori: il greco, il latino, persino la grammatica; per questo nella sua riforma la contraddizione liberale di volere il fine della competenza senza il mezzo dello studio viene a coincidere con la contraddizione plebea di volere il fine della promozione sociale senza il mezzo della disciplina.
La liberalizzazione ha costretto lo Stato a rinunciare alla determinazione dei programmi delle scuole e a limitarsi alla semplice indicazioni di contenuti non vincolanti. Soppressi i programmi,  le competenze, che sono il risultato ultimo delle faticose esercitazioni disciplinari necessarie a innalzarsi allo spirito delle scienze, sono diventate l'obiettivo facile e diretto di minime unità didattiche che abborracciavano pochi contenuti ridotti a pretesti. La nullificazione della didattica è stata mascherata con la diffusione della cura ossessiva dei procedimenti e la cinica negligenza dei risultati. Nessuno ha più voluto verificare se i programmi fossero stati completati e se gli alunni avessero effettivamente acquisito le conoscenze e le competenze implicate: come diceva Eduard Bernstein, «il fine, qualunque esso sia, è nulla; il movimento è tutto»[3]. Innovazioni, sperimentazioni, laboratori, strumenti informatici, uscite didattiche, viaggi d'istruzione si risolvono dunque in attività ricreative animate dagli insegnanti, e assumono l'apparenza dell'attività didattica soltanto nella documentazione con cui sono proposte e relazionate. Così l'autonomia didattica, mentre voleva far esplodere i lacci e i laccioli scientifici e burocratici che irrigidivano la creatività didattica, si è ridotta a un'esplosione di ipocrite incombenze burocratiche.
All'insegnante come animatore doveva corrispondere una nuova figura di studente che imparava ad imparare prima di aver imparato qualcosa. Se è evidente l'importanza di imparare ad imparare, se è questo propriamente l'habitus scientifico che è obiettivo ultimo dell'insegnamento e che Aristotele, concependolo come massima virtù dianoetica, identificava con la felicità, è altrettanto evidente che non si tratta di un obiettivo da cogliere direttamente, bensì del sovrappiù che si aggiunge a chi ha imparato molto: chi ha risolto molti problemi ha a disposizione un ampio ventaglio di risorse (fiducia in sé, capacità di orientamento, intuito, ispirazione, strategie, tecniche) che gli consentono di porsi in modo efficace rispetto a tutti i problemi. Per risolvere i molti problemi non c'è però altro mezzo che la fatica dell'imparare: memorizzare, esercitarsi, dapprima guidati, poi da soli. La scuola liberalizzata è però la scuola che ha in odio ogni fatica, a partire dalla memoria. Così nasce il paradosso di una generazione di italiani ed europei completamente estranea allo spessore storico dell'ambiente in cui vive – come se fosse dispersa tra le Montagne Rocciose.
Quest'odio per la fatica dell'imparare, così in contrasto con il moralismo liberale che non si fa scrupolo di raccomandare ai poveri la ‘durezza del vivere’, è un effetto secondario della liberalizzazione. L'autonomia scolastica è stata introdotta secondo l'ideologia che la concorrenza tra gli istituti li costringa ad aumentare la qualità dell'offerta formativa. Anche a voler trascurare che un'effettiva concorrenza si poteva instaurare solo nella scuola primaria, in cui ci sono istituti omogenei, non nelle scuole secondarie che hanno curricoli diversi, e che essa si risolve sempre in pubblicità ingannevole, la concorrenza tra gli istituti implica che essi si trasformino in venditori di formazione e gli alunni in loro clienti. Proprio la trasformazione dell'alunno in cliente, ciò che la sinistra scambia per esaltazione della sua libera spontaneità, comporta tuttavia la fine del rapporto didattico. Chi si vuole istruire cerca un docente autorevole, che non racconta le sue opinioni, ma espone i contenuti della scienza di cui è competente, li espone secondo la propedeutica necessaria, assegna le esercitazioni, le corregge e le valuta. Rispetto a questo docente il discente ha e vuole avere sempre torto. Mentre è nella natura del discente avere sempre torto rispetto al docente, è però della natura del cliente avere sempre ragione. Lo studente-cliente è dunque un tiranno che va divertito e approvato, che ha sempre ragione, che non può essere costretto a studiare, ma impara giocando, senza accorgersene, che non può essere umiliato da una valutazione negativa. Meno che mai può essere costretto a ripetere l'anno. La situazione della scuola dell'autonomia su questo punto è imbarazzante. Il mezzo valido nella maggioranza dei casi per evitare di far ripetere l'anno è permettere una mobilità tra gli istituti. Proprio la concorrenza tra loro lo impedisce: poiché restano aperte e sono finanziate secondo il numero degli iscritti, le scuole concorrono con i mezzi più miserevoli per massimizzare i clienti; adescatili, per nessun motivo al mondo consentirebbero loro di proseguire la carriera scolastica mal indirizzata in un istituto più adatto alle loro capacità e ai loro interessi. Così chi va male in greco e latino al ginnasio è senz'altro spinto al liceo; chi va male in matematica nel biennio scientifico è mandato senz'altro al triennio, dove prosegue per il semplice motivo che è incluso tra i clienti dell'offerta formativa. Facile valutare cosa resti della serietà della valutazione in questo contesto. Così si compie la distruzione della scuola pubblica in favore di quella privata.
Che non ci sia stata resistenza all'abbandono degli studenti alla loro pigrizia naturale è però un frutto della convergenza tra retorica liberale e retorica rivoluzionaria. Nel Novecento l'illusione rousseauiana di una soggettività spontaneamente socievole e creativa, che il ‘Potere’ reprime in modo brutale o subdolo, che dunque va liberata dai vincoli e inibizioni perché esprima le sue insondate potenzialità, si è ripresentata nell'armamentario della guerra fredda psicologica organizzata dalla CIA, la cui propaganda opponeva la libertà occidentale al totalitarismo orientale. La contestazione del Sessantotto se n'è appropriata inconsapevole della sua origine e l'ha insinuata in ogni settore della società, dalla cultura accademica a quella di massa. È stato dunque facile ai contestatori invecchiati insinuarsi nel ‘Potere’ e lavorare per conto delle oligarchie liberali: un identico feticismo della soggettività spinge liberali e contestatori a mettere in discussione la legittimità stessa dell'educazione e tollera soltanto l'insegnante che non insegna nulla. Già la contestazione aveva messo insieme il prototipo di insegnante quale lo raccomanda il liberalismo, quello che nella scuola dell'autonomia deve animare i discenti, stimolarli, discutere, sommergerli di rinforzi positivi per svilupparne l'autostima, riconoscere la validità della loro cultura spontanea, magari non scolastica, ma proprio perciò più calata nell'attualità, più utile; quello che non dà lezioni, né compiti, che non semina, innaffia il terreno con le lodi e osserva crescere le erbacce.
3. Come gran parte dei piani sulla scuola, soprattutto quelli provenienti da ‘sinistra’, il documento del Fronte Sovranista Italiano vuole una scuola pubblica che fornisca a tutti gli alunni gli strumenti minimi necessari all'esercizio della cittadinanza e al lavoro e li promuova verso i massimi obiettivi raggiungibili da ciascuno. A differenza di ogni altro gruppo, il Fronte Sovranista Italiano ha però individuato con chiarezza nel liberalismo la causa prima della corruzione della scuola; dunque crede che per attuare gli obiettivi su cui tutti possono dichiararsi concordi siano necessari la fine dell’autonomia scolastica e il ritorno delle competenze didattiche allo Stato costituzionale e democratico. Lo Stato dovrà garantire ampi finanziamenti per l'edilizia scolastica ormai fatiscente e insicura, per la strumentazione didattica, per la remunerazione del personale scolastico; dovrà fissare i programmi minimi, le competenze minime, lasciando agli insegnanti il compito di integrarli a partire dalla loro preparazione e di attuarli secondo i metodi loro congeniali; dovrà infine verificare il raggiungimento degli obiettivi fissati e sostenere le situazioni di criticità. Senza queste trasformazioni la scuola e la società italiana sono condannate a una triste regressione umana e culturale.



[2] Aristotele, Politica, 1339 a: «ο γρ παίζουσι μανθάνοντες· μετ λύπης γρ μάθησις».
[3] Citato in Bontempelli, Bruni, Storia e coscienza storica, Milano 1983, p. 419.

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