domenica 1 maggio 2016

Confini. Un elogio dialettico (P.Di Remigio)


(Riceviamo questo scritto da Paolo Di Remigio, e lo pubblichiamo volentieri. E' apparso anche su "Appello al popolo". M.B.)


Le barriere sono un sinonimo di divisione e la divisione lo è del male. Forse per questo, abolire i confini tra le nazioni è diventato un obiettivo per amore del quale si dimenticano i confini tra le ideologie: contro i governi che li ripristinano a dispetto della Commissione Europea e dei poteri retrostanti si mobilitano ormai non solo questi poteri e le loro legioni di giornalisti, ma anche le potenze celesti e le impotenze terrene, il papa e i centri sociali. Nella posizione della chiesa cattolica non solo si indovina il legittimo desiderio di evitare atteggiamenti interpretabili come ostili dal mondo islamico, si avverte anche la sopravvalutazione della potenza dell’amore nel risolvere i problemi degli uomini; dietro la posizione dei centri sociali c’è non solo una psicologia maschile primitiva che accorda la preferenza al caos pur di rifiutare l’ordine paterno, ma anche l’incapacità intellettuale di difendersi dai pregiudizi. E il pregiudizio universalmente diffuso, contro cui solo la cultura umanistica potrebbe qualcosa, è l’idea positivistica di progresso storico. È sufficiente che la propaganda dei poteri finanziari qualifichi un loro piano come «nuovo» perché scatti il riflesso condizionato dell’evoluzionismo storico, questa versione moderna del fatalismo per cui in ogni caso è vano opporsi a ciò che «la storia» ha decretato; e «la storia», nel suo progresso verso il meglio, mostra di voler spianare le barriere e dissolvere i confini, perché l’umanità dispersa dal fallimento babelico torni a riunirsi.

Se si guarda il contesto storico in cui cade questo progetto di ecumenismo laico non è difficile accorgersi della sua natura del tutto illusoria: gli unici confini da cancellare sul globo terrestre risultano essere quelli tra gli Stati europei, perché confluiscano negli Stati Uniti d’Europa. Della natura di questi nuovi Stati Uniti si presenta però una doppia interpretazione: se la loro unione arrivasse alla fusione in un unico Stato, essi, nati per abolire le frontiere, ne formerebbero delle nuove, il sogno europeo sarebbe così la contraddizione di negare e porre le frontiere; se invece non raggiungessero natura unitaria, allora l’intera Europa diventerebbe una moltitudine di individui dispersi, permeabile a qualunque movimento. La spilorceria degli Stati dell’Europa centrale che volevano risparmiarsi le spese della nuova frontiera per accollarle agli Stati periferici, il desiderio di importare senza costi in centro Europa una nuova classe media dalle pretese economiche ridotte, hanno imposto questa seconda interpretazione; ma oltre all’evocazione lugubre del fatto che la permeabilità a qualunque movimento è proprio ciò che definisce il cadavere, anch’essa reca una sua contraddizione, e ancora più profonda della prima, che si radica nella dialettica propria della nozione di confine.


Nel confine si esprime la categoria di limite. Kant l’ha posto come terza categoria della qualità, quindi come sintesi delle prime due, della realtà e della negazione. Questa sua natura sintetica ne fa una categoria terribilmente complicata. Il limite è il cessare, il non-essere, del qualcosa, dunque l’essere dell’altro: limitandosi, il qualcosa permette all’altro di essere. Ma il limite è altrettanto il cessare, il non-essere, dell’altro; e poiché l’altro è il non-essere del qualcosa, il limite, il non-essere del qualcosa, è anche il suo essere. Ne segue, insomma, la contraddizione per cui il limite è non solo non-essere, mio e dell’altro, ma è anche essere, mio e dell’altro. Questa contraddizione comporta che il limite abbia una doppia natura: in quanto è il non-essere dei qualcosa, essi vi cessano e sono separati l’uno dall’altro; al contrario, in quanto il limite è l’essere dei qualcosa, essi vi sono entrambi, vi sono dunque la stessa cosa e il limite è ciò in cui comunicano. Così il limite è il comunicare tra qualcosa che sono altri tra loro.
Poiché il limite ha natura doppia, la sua negazione, anziché promuovere una superiore armonia, provoca una regressione: innanzitutto poiché il limite è non-essere e insieme essere del qualcosa e dell’altro, l’annullamento del limite sopprime non solo la separazione tra qualcosa e altro, ma anche l’essere del qualcosa e dell’altro; inoltre, mentre prima i qualcosa nel limite si differenziavano e insieme annullavano la loro differenza così da comunicare tra loro, ora insieme al limite sono annullati sia la loro differenza che il loro comunicare e tutto regredisce nell’indeterminazione astratta.
Un celebre autore taccia di nichilismo chi conferisce realtà al nulla e al divenire; forse è più fecondo dare al termine il senso opposto e parlare di nichilismo a proposito dell’inettitudine a scorgere la determinazione positiva in ogni negazione, quell’inettitudine che per trovare l’assoluto, abbandonata la determinatezza, regredisce nella pigra prospettiva dell’indifferenziato. È facile che i propagandisti dell’abolizione delle frontiere contino, più che sul contenuto logico del loro progetto, su questa inclinazione del pensiero alla semplicità.

Se si inseriscono questi rapporti logici nel contesto politico, segue che nella relazione tra gli Stati il confine è non solo ciò in cui ciascuno finisce, il non-essere di entrambi, ma anche ciò da cui inizia, il loro essere, e che questo essere è condizionato da quel non-essere. Estraniandosi dagli altri oltre il confine, l’individuo riduce l’estraneità con gli altri individui dentro il confine, si allea con loro. Respinta una lettura troppo ottimistica della tesi aristotelica per cui l’uomo è ζῷον πολιτικόν, Hobbes ha sostenuto che l’individuo è istintivamente asociale; la necessità di cercare alleanza per difendersi dallo stato di guerra lo spinge a seguire il dettame della retta ragione e ad accettare limiti al suo arbitrio. Si ama credere che sia finito il tempo in cui le comunità potevano aspettarsi da altre comunità non solo vantaggi, ma anche danni; anche se fosse vero, in realtà, con la fine della percezione del pericolo cessa anche la percezione della necessità della difesa, e la ricerca di alleati diventa superflua. Ma ogni rapporto etico, la laboriosità, la lealtà, l’onestà, dipendono, più che dall’inclinazione naturale, che non può essere supposta sempre e in tutti, dalla decisione di assumersi doveri per associarsi e difendersi. Questa decisione è l’origine degli Stati e dei diritti: in quanto si è residenti entro di confini di uno Stato, ci si vincola a doveri fissati dalle sue leggi e si acquisiscono i relativi diritti. Viceversa, il desiderio di estendere i diritti eliminando gli Stati e i loro confini sfocia nella corruzione universale. L’ignorare che i diritti sono prodotto dei doveri imposti da uno Stato entro i suoi confini porta infatti a concepire i diritti come gratuiti; ma la gratuità di un diritto è la volontà che gli altri soddisfino la mia esigenza senza che io soddisfi la loro esigenza; questa volontà, in quanto guidata da una massima che non può costituirsi a legge universale, è la definizione stessa di immoralità.

L’abolizione dei confini implica che non ci siano più popoli diversi con proprie leggi e propri interessi generali, che nel confine si contrastano e nel contempo superano questi contrasti. Che non ci siano popoli diversi significa che ci sono soltanto individui indifferenti all’ambito in cui vivono, che parlano questa e quest’altra lingua, seguono questa e quest’altra religione, praticano questo e quest’altro lavoro, scelgono addirittura questa e quest’altra sessualità. A ben vedere tutto ciò non vuol dire affatto che la differenza sia scomparsa, ma che si postula un individuo infinitamente adattabile su cui caricare l’onere di sopportarla, cioè che rinunci alla sua lingua materna e parli questa e quest’altra lingua, che rinunci al suo culto e tolleri questa e quest’altra religione, che rinunci a un suo lavoro e insegua questa e quella opportunità. Oppure, da altro punto di vista, che una stessa politica economica debba applicare gli stessi strumenti ad aree economiche continentali, dunque più eterogenee, implica o una massa di trasferimenti di risorse dalle zone ricche alle zone povere, quindi una più forte imposizione fiscale sugli individui delle aree ricche, o, in caso contrario, il degrado degli individui nelle zone povere.

Gli individui senza confini e senza comunità sono assoluti, ma proprio per questo respingenti, puri limiti che si ritraggono da ogni relazione. Ne segue che l’abolizione del confine non abolisce la negatività della separazione, anzi la radicalizza nella repulsività degli individui. La rinuncia ai legami sociali è facile quando l’abbondanza di opportunità fa sentire l’individuo onnipotente. Ma è proprio delle opportunità esserci o anche non esserci. Quando l’individuo si accorge di non avere chance, allora la sua regressione ad atomo assolutamente repulsivo si ribalta nel suo opposto e genera una sinistra forma di società. Per una diabolica eterogenesi dei fini il pio desiderio di sostituire le barriere con ponti, costituendo moltitudini di individui che sono soltanto degli uno, delle barriere assolute (i campi di concentramento ne sono stati il prototipo), non lascia loro altro mezzo per ricostituire il legame collettivo che l’estinzione nell’uno unico, cioè nell’individuo che restaura il confine verso l’altro. Ma mentre prima era anche rapporto positivo, comunicazione, con l’altro, ora il confine assume dall’individuo assolutizzato il carattere di negatività assoluta e diventa essere-per-sé, negazione dell’alterità – qualcosa che perfino gli improvvidi distopisti di Bruxelles iniziano a presentire.

L’abolizione dei confini quale si è verificata in Italia ha avuto sin dall’inizio, più che l’apparenza di una utopia benintenzionata, il carattere autolesionistico dell’accettazione di una disciplina punitiva. L’incapacità di conciliarsi con la propria storia ha prodotto l’abitudine a considerare nemico l’italiano e alleato lo straniero, ad odiare il prossimo e ad amare il lontano. La nostra abolizione dei confini ha così calpestato l’esigenza costituzionale della reciprocità ed è consistita nel riconoscere la legittimità dell’essere altrui, senza riflettere che il senso più profondo dell’essere non è l’inerzia, ma l’attività del conservarsi, eventualmente a spese del suo altro. Il nobile ideale dell’accoglienza che il grande capitale, la chiesa cattolica e i centri sociali invocano è così deturpato dal suo inerire a una prospettiva che concepisce il proprio essere come colpa, come un’esistenza illegittima, uno spazio vuoto nel quale ogni materia può espandersi senza forzature. A questo spazio vuoto è ridotto il nostro sé. Ma il sé non è un dato naturale, è la capacità di difendersi che si sostanzia come diritto; cessare di confidare sulla sua gratuità significa liberarsi dalla vergogna dell’asservimento e riconquistare la soggettività.




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