giovedì 3 marzo 2016

Una riflessione sulla scuola (P.Di Remigio)


Riceviamo e pubblichiamo questa riflessione di Paolo Di Remigio (M.B.)




SCUOLA



L'insegnamento è il segreto dell'umanità. Mentre la natura vivente si evolve con la soppressione dei meno adatti e le specie sorgono dall'estinguersi di altre specie, l'umanità si evolve conservando i suoi inizi; l'insegnamento che ne vivifica la memoria le permette di evolversi rimanendo identica, di non perdere nel guadagnare, così da avere una storia. L'insegnamento ha però bisogno del linguaggio. Con il linguaggio l'uomo si è dunque staccato dalla natura; non perché la natura non lo abbia; i suoi linguaggi sono però privi di nomi, non sono in grado di esprimere significati generali. Invece il linguaggio umano è gremito di nomi propri che esprimono il riconoscimento della libertà dell'individuo, e di nomi comuni, in cui sono racchiuse le leggi, il lato necessario, della realtà. Per questo la filosofia più energicamente orientata in senso anti-individualistico, il platonismo, è anche una teoria del nome comune.
Platone ha opposto alle conoscenze empiriche la conoscenza delle idee, ossia la conoscenza scientifica. La cattiva abitudine a concepire la conoscenza come un'imitazione linguistica delle cose d'esperienza recalcitra a comprendere questa opposizione. Platone però come matematico sa che un teorema non ha per oggetto i dati fuggevoli dell'empiria; il teorema infatti è universale, ossia valido per sempre e per tutti gli oggetti che gli competono; è necessario, ossia spiegato in base a ragioni, dimostrato; è dunque conoscenza dell'universale e del necessario, cioè non delle cose sensibili in divenire, ma delle loro leggi; e può essere applicato alla cosa empirica nella misura in cui questa obbedisce a leggi. Ogni conoscenza empirica consiste nell'applicare alle cose conoscenze di leggi: categorie, regole, teoremi.
Conoscere non è dunque descrivere gli stati di cose, è affrontare e risolvere i problemi che essi pongono scoprendo la legge che vi si nasconde. Questo è il significato dello stupore aristotelico1. Si presume che il realismo sia inconciliabile con l'idealismo perché crede nell'essere delle cose sensibili in divenire, mentre questo crede nell'essere di misteriose cose ideali; ma quando si riconosca l'essenza della conoscenza nella soluzione di problemi, le differenze, vere o presunte, tra le filosofie si assottigliano fino ad annullarsi. Così, con inconsapevole platonismo, il pragmatista Dewey poteva scrivere che la possibilità di risolvere situazioni problematiche riposa sull'esperienza passata e nell'avere a disposizione un rilevante deposito di conoscenze; ma il mondo delle idee è appunto questo deposito di conoscenze.
Si crede di conoscere pochissime leggi e solo nella misura in cui le si è studiate consapevolmente: qualche regola di grammatica, qualche regola matematica. In realtà si trascura che ogni nome, nel significare un'immagine, è riferito a una legge. Platone vi allude nel mito della metempsicosi: conosciamo tutto perché le anime sono immortali; prima della vita hanno visto le specie delle cose di cui ora possono far riemergere il ricordo e, con una ricerca infaticabile e coraggiosa, possono trovare tutto il resto2. Questo significa: noi afferriamo le immagini significate in un numero enorme di parole; questi immagini significate sono esemplificazioni ispirate all'esperienza, ma nel momento in cui sono fissate in definizioni si trasformano in conoscenze di leggi. Il nome illuminato dalla definizione rivela la legalità a cui gli oggetti nominati obbediscono così da essere quello che sono; questa legalità, dimenticata nell'immagine significata da ogni parola, ricordata dalla scoperta delle sue relazioni necessarie con le altre parole, è esattamente ciò che Platone intende con il nome «idea».
Ogni nome comune contiene cioè nella sua immagine significata l'inizio di una conoscenza universale e necessaria dapprima inconsapevole, ma già posseduta nella misura in cui lo si usa correttamente. Determinare l'immagine significata con la definizione costituisce il grande salto platonico dal mondo empirico al mondo delle idee: significa emanciparsi dall'intuizione ed accedere alle leggi; infatti nella definizione i nomi mostrano di essere connessi in modo necessario e universale con altri nomi, mostrano di essere un'unità di nomi, e questa unità è la legge che risolve il problema posto dalla sua immagine significata.
Ricercare e individuare con una definizione i rapporti presenti nell'immagine significata dal nome è il primo passo della ricerca intellettuale; fissando la definizione essa approda alla scienza, cioè all'insieme di regole da cui è determinata la natura dell'oggetto e che applicate alle cose empiriche ne permettono la conoscenza. Le idee platoniche sono il mondo dei nomi intesi per quello che sono, non uno strumento di registrazione, ma un insieme di leggi in grado di illuminare l'esperienza. La conoscenza della lingua è così il possesso inconsapevole di una moltitudine insondata di leggi che danno soluzioni a problemi.
Creando nomi le generazioni hanno conservato le loro soluzioni ai problemi e le hanno rese trasmissibili alle generazioni successive. Dapprima i limiti della trasmissione sono i limiti della memoria. La scrittura li supera e non solo amplia il trasmesso ma soprattutto rende il linguaggio visibile, pubblico; raccoglie la sua temporalità fuggevole nella compattezza spaziale; consente il ritorno del discorso sui propri passi, così genera la severità del pensiero aperto al controllo critico. Esso completa l'intenzione più intima del nome: questo segnalava la regolarità dell'esperienza così da fissarne la fuggevolezza; ma esso stesso era fuggevole, doveva dunque impressionare la memoria dell'ascoltatore con immagini singolari – che la cultura orale prenda forma mitica ne è la conseguenza. Con la scrittura la fuggevolezza dello stesso nome è accolta nel sobrio mondo dell'essere.
Mentre l’uomo impara il linguaggio dalla madre, l'accesso alla scrittura, per sua natura pubblica, implica l'istituzione pubblica della scuola. Il suo fine è, innanzitutto, elevare alla severità della scrittura: insegnare a leggere e a scrivere in modo tale che il parlare sia uno scrivere ad alta voce e l'ascoltare un leggere la voce, in modo che il pensiero non indugi sull'immagine ma salga alla considerazione della sua legge; poi, insegnare i linguaggi segnici che si innestano sulla legalità di quello fatto di nomi. Col suo spirito pratico il medioevo ha saputo sintetizzare il compito centrale di ogni didattica nello studio del trivio, grammatica, retorica, dialettica, e del quadrivio, aritmetica, geometria, musica e astronomia. Spesso si parla con disprezzo del saper leggere, scrivere e far di conto: sembrano troppo meccanici, poco à la page; si dimentica quanto sia già difficile una grafia leggibile; di più, si dimentica che essi sono il contenuto delle arti liberali. Ma, viceversa, quando sente parlare di arti liberali lo stesso disprezzo fa subito sua la preoccupazione utilitaria e si ribella alla divisione tra teoria e pratica, tra mente e braccio: non capisce che le arti liberali, siano coltivate o meno per se stesse, sono l'educazione alla legalità del reale e che questa è la base di ogni altra acquisizione, che perciò sono l'utile κατ’εξοχήν: teme la retorica, non si accorge che essa è ineludibile, che il difetto, semmai, è il non procedere oltre, il non giungere alla dialettica.
La pedagogia sottesa alle riforme della scuola è preda di questa contraddizione: vuole la competenza degli studenti, ma, nata dalla gnoseologia volgare, quella che assume come modello del sapere la percezione visiva, né sa cosa sia, né sa come raggiungerla, e così raccomanda una prassi che riesce nella direzione opposta, cioè all'ignoranza. Per la gnoseologia volgare la conoscenza non è soluzione di problemi, ma informazione; per acquisirla non occorre esercitarsi a tollerare le situazioni problematiche e a fare appello alle leggi che il linguaggio contiene per risolverle, bisogna aprire gli occhi sulle cose e tradurle in informazioni. Anziché indizio di ogni soluzione, il linguaggio è mezzo di registrazione, da sempre obsoleto, dunque, per via dei sempre nuovi mezzi tecnici; l'attenzione che il docente gli dedica è dunque un indulgere alla vieta tradizione umanistica che rallenta l'acquisizione delle abilità oggi necessarie – come se l'umanesimo non fosse stato l'inizio della rinascita dello spirito scientifico.
Poiché conoscere è vedere e la scienza informazione, poiché ormai possiamo accedere ad ogni informazione, non occorre più la fatica della memoria. Poiché il linguaggio è soltanto registrazione, i problemi e le soluzioni sono soltanto nelle cose; quindi non occorre sforzo sulle arti liberali, la vera didattica è il laboratorio. In altri termini si ignora che problemi e soluzioni sono posti non nelle intuizioni ingenue, ma nelle loro leggi, si ignora che la mancanza di esercitazione nelle leggi contenute nel linguaggio fa mancare il pensiero per cui i fatti possono diventare problematici: non si comprende che soltanto chi ha già la conoscenza delle leggi può evitare il naufragio nell'oceano della banalità. Così tutti i nuovi metodi consistono soltanto nell'invitare i docenti a presupporre il pensiero negli alunni, anziché svilupparlo con l'esercitazione logica, cioè a scansare il proprio compito, e a disperderli nella fattualità brutale.
La decadenza della nostra scuola inizia dagli anni '70 come risultato della sua democratizzazione. Non si tratta di un progetto di distruzione elaborato segretamente dai ceti dominanti per impedire che il popolo pensi; al contrario, come temeva Gramsci in un passo memorabile3, proprio le riforme legate all'allargamento del diritto allo studio hanno avuto per effetto il rifiuto della necessaria severità dell'insegnamento: poiché per l'ignoranza conoscere è come vedere e tutti noi vediamo volentieri, lo studio può e deve essere svolto volentieri, lo sforzo di imparare è pedagogicamente controproducente, richiederlo politicamente sospetto: testimonianza di un autoritarismo emanazione ultima del dominio di classe.
La figura dell'insegnante ne è uscita annichilita. Poiché la scienza è informazione e l'informazione è immediatamente disponibile, l'insegnante non deve sapere molto, tanto meno deve fare del suo sapere il piedistallo per discorsi cattedratici; deve limitarsi ad animare la classe in modo da liberare il pensiero creativo che è già in ognuno dei suoi alunni. Come nel suffragio universale l'elettore ha diritto a fare la sua scelta qualunque sia la sua intenzione e la sua comprensione del bene comune – queste sono presupposte come buone –, nella scuola democratica tutti devono essere protagonisti: i rappresentanti di genitori e alunni devono prendere parte alla sua gestione, da ultimo devono dire la loro anche sulla valutazione del lavoro degli insegnanti.
Osservare che nelle questioni di scienza la democrazia, cioè il potere della maggioranza, non ha nessun diritto, sembra quasi un'eresia; nondimeno se qualunque teoria scientifica fosse stata sottoposta a referendum, avrebbe raccolto così pochi consensi da essere dimenticato per sempre. Sembra dunque un'eresia ancora più grave pensare che sulle questioni di insegnamento la democrazia non abbia applicazione – è l'eresia dell'articolo 33 della Costituzione –; nondimeno le assemblee, i consigli dei decreti delegati del lontano 1973-74, da cui è iniziata la degenerazione della vita della scuola, sono stati fin da principio un fallimento, luoghi in cui chi non sa parla senza essere ascoltato: attualmente le assemblee degli studenti servono soltanto a provvedere ponti tra una festa e una domenica, i consigli di classe sono disertati dai genitori, perfino dagli alunni. La democrazia nella scuola non è però solo inutile, è anche dannosa: sostituendo il paternalismo, che, ripugnante come principio dello Stato, è l'atmosfera naturale dell'istituzione scolastica, essa ha umiliato gli insegnanti, i quali, se mai si sono sforzati per acquisire conoscenze, se ne sono vergognati, e rinunciando ad esigere lo sforzo dai loro alunni, sono scesi dalla cattedra per confondersi in un'ipocrita festa dell'ignoranza.
Gli insegnanti hanno spesso seguito alla lettera la raccomandazione di disfarsi della scienza così da non essere più capaci di mostrarne la desiderabilità e di imporre la disciplina per raggiungerla. Quando i protagonisti della democratizzazione della scuola non si sono più accontentati di svuotarne la sostanza, ma postisi al servizio del liberalismo hanno puntato a distruggere la stessa istituzione, gli insegnanti, ormai senza identità, si sono messi ancora una volta a disposizione.



1 Aristotele, Metafisica, A 2, 982 b, 12 – 17.


2 Platone, Menone, 81, c-d.


3 Cfr. i Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55: «Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. […] Molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato».

5 commenti:

  1. Caro Paolo, senza pretendere di attingere al tuo dottissimo articolo, concordo sulla (deliberata) devastazione della scuola attuale, degradata a istituto sociale dove parcheggiare i ragazzi in attesa che si trovino qualcosa da fare. Ma anche il liceo del buon tempo andato non era esente da difetti, col suo nozionismo e la sua distanza dal mondo reale, accentuati dalla soporifera impostazione storicistica dominante in Italia.

    Certo era preferibile dal punto di vista di un insegnante di filosofia altamente preparato e convinto del proprio ruolo. Fare l'intellettuale e il giudice è meglio che fare l'animatore e l'assistente sociale.

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  2. Caro Lorenzo, nella polemica sul nozionismo scorgo una ribellione alla FATICA del memorizzare. Ora, se è vero che imparare non consiste soltanto nella memoria, è ancora più vero che imparare è anche memorizzare; senza memoria meccanica non si può interiorizzare e senza interiorizzare non si può neanche rielaborare. Nell’espressione “mondo reale” da cui la scuola di un tempo sarebbe stata lontana scorgo invece la ribellione alla FATICA dell’astrazione. Ma non c’è scampo: la realtà non è un caleidoscopio di sensazioni, è un insieme di processi dominati da LEGGI astratte che è compito della scienza individuare e compito della didattica far assimilare. Non serve la scuola per constatare che le mele cadono, ma per imparare la legge di gravitazione universale in tutta la sua astrazione. Quanto allo storicismo, esso riguardava l’area umanistica e mi concederai che il sopore poteva dipendere, più che dall’impostazione, dal docente. Il problema non è cosa io preferisca, è che se smetto di fare l’intellettuale e il giudice esento i miei alunni dalla fatica e li lascio più vuoti di come li ho ricevuti. Non me ne sarebbero grati.

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  3. D'accordo sulla ribellione contro la fatica. Ma la fatica deve essere utile. Perché costringere un disgraziato a faticare per 5 anni sul greco e sul latino, o su fisica e matematica se poi quello vuole studiare scienze politiche o lingue moderne?

    Per quanto poi riguarda lo storicismo soporifero è il metodo in sé. In Germania, dove si fa quasi tutto per via seminariale e si punta a trasmettere esclusivamente un metodo di analisi del testo, nella più perfetta indifferenza rispetto alle nozioni e ai contenuti, questa noia non c'è. Ovviamente ci sono altri svantaggi.

    Un'ultima osservazione. In una società in piena decadenza e devastata dalla globalizzazione, dove i lavori non delocalizzati sono l'elettricista e il barbiere, il sapere serve a pochissimo e la serietà è uno svantaggio. Non pensare di fare un favore ai tuoi allievi coltivandone l’intelligenza.

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  4. Faticare su greco e latino non è una costrizione, è una libera scelta - una scelta utile, a mio sommesso avviso, perché è il modo migliore di diventare esperti delle profondità del linguaggio e capaci di risolvere le difficoltà della scrittura. Non nego che specializzarsi in uno studio sia necessario; ma una specializzazione prematura equivale all'ignoranza sostanziale e questa produce la più grave delle menomazioni: la mancanza di realtà. Gli attuali problemi dell'Italia sono ANCHE dovuti a una classe politica, passata per la scuola degli anni Settanta e Ottanta, di ignoranza barbarica, che non è in grado di capire i documenti che firma e si accorge solo dopo mesi delle loro implicazioni catastrofiche.
    Quanto allo storicismo, credo bene che in Germania abbiano qualche difficoltà nella didattica della storia: perdere due guerre conduce al desiderio di perdere la memoria. Riuscirvi non è un bel risultato, conduce a restare inermi contro la coazione a ripetere.
    Quanto all'ultima osservazione, vorrei farti notare che la società è devastata, prima che dalla globalizzazione, dalla mancanza di serietà e di intelligenza. Coltivarle non è un favore ma il primo dovere dei docenti; la sua inadempienza non è impune, ma ripagata con il disprezzo.

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  5. Caro Paolo, in Germania la storia è insegnata così fin dall'Ottocento. D'altro canto in tutto il mondo anglosassone la lezione frontale è affiancata dal metodo seminariale e le materie insegnate in quanto tali, non come storia della disciplina.

    Per il resto, se i tuoi alunni disprezzano chi non li costringa a studiare duro e a formarsi criticamente, reputati fortunato: ti sono capitati i migliori d'Italia. Ho conosciuto un'insegnante che sosteneva qualcosa di simile, ma quando ho verificato la situazione mi sono avvisto che la sua era una pia autoillusione finalizzata a perseverare nel ruolo che le era caro. Forse tu vivi in un'oasi felice.

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