martedì 29 dicembre 2015

L'eticità dello Stato (P.Di Remigio)

(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio
M.B.)


Dopo la fine del pensiero politico del mondo classico si è disposti a riconoscere all'individuo almeno la possibilità di essere onesto, ma è pregiudizio comune che lo Stato sia essenzialmente un male. Per i cattolici è una costruzione soltanto umana, quindi bisognosa di guida trascendente; per i liberali è una sgradevole necessità; Marx lo concepisce come una ipocrisia; il fascismo, che pure sembrerebbe volerlo esaltare, non accetta il pluralismo, la divisione dei poteri che consente il dominio della legge e impedisce l'esercizio del potere carismatico, e ciò equivale a dire che non ne accetta l’essenza.
La sequenza di queste visioni non è solo storica, ha una base logica. Nel cristianesimo la natura dell’uomo è corrotta dalla colpevolezza originaria che soltanto lo spontaneo gesto salvifico di Dio può espiare; così l'uomo, perduto finché il suo destino è nelle sue mani, è salvo solo se si affida all'istituzione che quel gesto salvifico ha fondato; questo significa, nella sfera politica, che gli uomini sono perduti nell'ambito dello Stato, che non può andare oltre l'attuazione di un diritto punitivo, redenti soltanto nella Chiesa che li immerge nella caritas.
Come il liberalismo che ne ha raccolto l'eredità, l'illuminismo respinge il peccato originale tra gli inganni dei preti: gli uomini sarebbero naturalmente ragionevoli, dunque in grado di conoscere, senza bisogno di guida ecclesiastica, che il loro utile è raggiungibile solo tramite la mediazione sociale, che l'egoismo coincide con la generosità; sarebbero semmai la superstizione diffusa dalla Chiesa e la tirannia esercitata dallo Stato ad accecare gli individui e a impedire il dispiegamento della loro libertà e del progresso di cui essa è portatrice.
Questa convinzione illuminista forma uno dei presupposti più profondi del socialismo. Che tuttavia il socialismo non vi si possa limitare, è avvertibile in Marx. Con le nozioni di alienazione religiosa e alienazione politica Marx fa sua la critica illuminista alla religione e alla politica; ma nel contempo le considera meri sintomi di un'alienazione originaria, l'alienazione economica, superata la quale esse sarebbero dissolte a fortiori. Poiché però l'alienazione economica sorge sul terreno naturale della società civile e dell'egoismo individuale, non su quello consapevole quindi colpevole dello Stato, Marx deve oltrepassare l'illuminismo e recuperare la nozione teologica di peccato originale, deve cioè considerare l'individuo naturale stupido e colpevole. Questa separazione di Marx dall'illuminismo è evidente nella sua nozione di ideologia; essa esprime la stessa invincibile opacità degli uomini su se stessi contenuta nella rappresentazione teologica di peccato originale. Dal momento poi che il male non può essere superato né dall'individuo né dalla ragione, ma dal movimento storico, Marx recupera un secondo motivo teologico: affida a quella che chiama la classe operaia il compito messianico di interrompere il corso della storia, di ribaltare il male del mondo e di realizzare la libertà naturale dell'individuo. Così, mentre nell'illuminismo la libertà naturale è già presente, in Marx è il sogno dell'umanità che la storia, animata dallo sviluppo della forza produttiva, sta per realizzare. Nelle sue diverse varianti il socialismo ha oscillato tra illuminismo e messianismo, tra fede nell'individuo naturale e fede nell'avvento dell'individuo naturale, come si dice di solito: tra riformismo e rivoluzione. Mentre poi il riformismo ha saputo rivalutare il significato dello Stato, le ali rivoluzionarie hanno condiviso con l'illuminismo e la teologia la diffidenza verso lo Stato, anzi l'hanno acuita in disprezzo. Senza questo disprezzo sarebbe incomprensibile l'attuale disponibilità della sinistra a offrire i suoi servizi alla criminalità finanziaria mondializzata in cui l'illuminismo ha conosciuto la sua ultima degenerazione.


Sorge così, su basi soltanto ideologiche, cioè a prescindere dalla conoscenza effettiva dello spirito delle costituzioni statali, un senso comune che contrasta con il realismo della teologia cattolica, perché ne contesta la rappresentazione del peccato originale sostituendole quella della bontà naturale dell'individuo, e contrasta ancora di più con la filosofia, che a partire dalla Grecia riconosce nello Stato la realtà etica fondamentale. Questo senso comune svela la sua superficialità nella sua inettitudine a distinguere tra arbitrio e libertà. La confusione ha la sua prima origine nel cristianesimo, nel suo rifiuto di riconoscere la libertà come un prodotto della volontà razionale umana, e nel concepirla come un dono divino. Senza il dono della libertà, la volontà soltanto naturale dell'uomo decade a una mobilità tra i diversi impulsi, cioè all'arbitrio; e poiché questi impulsi sono indipendenti dall'arbitrio, sono dati per natura, per il cristianesimo la volontà naturale è di per sé un servo arbitrio, una scelta tra diversi modi di peccare1. L'illuminismo rovescia la valutazione della natura: la natura è buona, la mobilità tra gli impulsi naturali è dunque una mobilità tra beni, dunque un libero arbitrio. Il libero arbitrio è la libertà, questo è il πρῶτον ψεῦδος del senso comune. Il suo precursore, John Locke, vi incorre cercando di separare lo stato di natura, cioè il libero arbitrio, dallo stato di guerra, cioè dal servo arbitrio; così può identificarlo alla ragione e trasformarlo in libertà (perfect freedom), uguaglianza (equality) e fraternità tra gli uomini (mutual love amongst men): la polemica contro gli abusi dell'assolutismo monarchico lo ha indotto a fingere una natura dell'uomo già redenta dal male, già libera, cosicché allo Stato non resta che minimizzarsi a giudice nelle controversie tra proprietari e a boia– come vuole l'ideologia liberale.
A partire da Locke è difficile comprendere che la libertà è un prodotto della volontà razionale, antecedente e l'arbitrio. È possibile scegliere liberamente tra impulsi solo in un ambiente in cui non occorra difendersi da minacce mortali; ma la somma degli arbitri naturali, come ha visto lucidamente Hobbes , è il proprio immediato mutare nello stato di guerra; quindi l'esistenza stessa degli arbitri è condizionata dall'essere in atto della libertà, che impedisce lo stato di guerra, li rende compatibili e li accorda nella loro differenza. La libertà, che si manifesta dunque come accordo presupposto tra arbitri, è prodotta dall'accettazione consapevole del dovere in vista del godimento del diritto. Essa è questo nesso tra diritto e dovere, reale, e non semplicemente desiderato, in quanto è fissato dalle leggi di uno Stato: la libertà è cittadinanza.
Voler considerare con Locke i diritti un dato naturale significa non comprendere che essi sono sempre e soltanto un derivato dei doveri dei cittadini e che fuori dallo Stato e dal nesso reale tra dovere e diritto, fuori della legge positiva, si apre soltanto il dominio dell'arbitrio naturale, l'orrore dello stato di natura. – Il senso comune vede però che gli Stati fanno uso della violenza; poiché non tollera l'idea di violenza legittima, neanche quella di pena a chi rifiutando il dovere gode parassitariamente del diritto, la sua povertà di spirito si illude che la guerra sia un effetto degli Stati, che svanisca con il loro estinguersi. Contro questo grossolano fraintendimento, che dimentica la genesi della violenza spontanea dall'arbitrio naturale2, va osservato che, anziché generare violenza, gli Stati la limitano, non solo al loro interno: la polizia deve difendere l'integrità fisica del colpevole dalla furia vendicatrice della folla, ma anche al loro esterno: in quanto si riconoscono, gli Stati applicano un diritto di guerra per cui la violenza è legittimata come mezzo per il ritorno alla pace; essa si degrada in impulso alla devastazione, in quanto i contendenti non si riconoscono come Stati, nelle guerre coloniali, o nel dissolvimento dello Stato, nella guerra civile3. Lo Stato non è violenza, come il senso comune vaneggia, ma difesa dalla violenza; il suo ambito, quello della libertà, non è infatti il dominio dell'arbitrio naturale e del sentimento particolare, ma l'universalità della ragione, il pensiero.
L'uomo pensa. Già il linguaggio umano non è mai soltanto voce, espressione di sentimento particolare, ma sempre anche parola, nesso convenzionale, cioè stabilito da leggi consapevoli, della voce con un significato universale, ossia che rimanda per la sua comprensione a una legge, quella formulata dalla definizione4. L’uomo pensa: conosce e produce leggi. Ha questo rapporto duplice con l’universale5: non solo gli è sussunto, ossia è guidato e costretto, come tutti gli enti naturali, dalle leggi di natura che lo allettano con il piacere e lo inibiscono col dolore senza che egli le conosca; ma anche le conosce, così da farne un mezzo (τέχνη) per i suoi impulsi, e rispetta leggi che lui stesso produce e dunque sa, le leggi della libertà (νόμοι) che gli impongono doveri in cambio di diritti, così da produrre la libertà6.
Come la legge delle cose lega l'una all'altra le variazioni quantitative di determinazioni differenti, così la legge degli uomini, cioè la legge prodotta dal pensiero per il pensiero, è un nesso tra determinazioni differenti, tra dovere e diritto. Questo nesso tra doveri e diritti, come essenza della libertà e dello Stato, è così elementare da essere presente in ogni legislazione. Nella Costituzione Italiana appare già nel primo articolo, che fonda la Repubblica sul lavoro: la cosa pubblica, ossia i diritti di cui ognuno gode, è prodotta dal dovere del lavoro cui ognuno è tenuto. Ancora più espressivo il secondo articolo, che lega i diritti inviolabili (con estrema lucidità i costituenti hanno evitato l'espressione illuminista «diritti naturali») all'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Per quanto elementare, questo nesso resta oscuro al senso comune, che, credendo il diritto un dono della natura, non capisce il dovere e lo rifiuta come se fosse asservimento.
Hegel ha esplicitato la difficoltà di cogliere il nesso tra dovere e diritto sia a livello del diritto astratto, quello proprio della persona e del contratto, che di quello dell'eticità. Nella nota al § 261 dei «Lineamenti di filosofia del diritto» egli mostra che nel diritto astratto dovere e diritto sono distribuiti su due persone: a ciascuna è evidente che il suo diritto è dovere altrui, molto meno che il diritto altrui è suo dovere. Invece nell'eticità diritto e dovere sono sì uniti in uno stesso riferimento: ho il diritto e il dovere di lavorare, ho il diritto e il dovere di educare i miei figli, ho il diritto e il dovere di conoscere le leggi – a questa unità si allude con l'espressione “diritto/dovere” –, ma anche in questa sfera si forma una necessaria differenziazione. Nell'ambito etico, infatti, non ci sono soltanto personalità astratte, dunque identiche, in rapporti contrattuali esterni, ma individui concreti, dunque differenti, in rapporti vitali: donne, uomini, adulti, vecchi, bambini, operai, proprietari ecc.; quindi nella loro identità etica il diritto e il dovere assumono un contenuto differente: i genitori hanno il diritto/dovere di educare i figli, i figli hanno il diritto/dovere di essere educati, il cittadino ha il diritto/dovere di conoscere e rispettare le leggi, le istituzioni dello Stato hanno il diritto/dovere di emanarle secondo i principi della costituzione. Nell'ambito etico si forma dunque un'oscurità più pericolosa che nel diritto astratto; qui la separazione in due persone coesiste con l'identità del contenuto, che è il principio della libertà della persona; là si forma l'apparenza per cui, ad esempio, l'educare sia un diritto soltanto e non anche un dovere, e, viceversa, che l'essere educati sia soltanto un dovere (quello della docilità) e non anche un diritto; oppure che la legislazione dello Stato sia soltanto un diritto e l'obbedienza del cittadino soltanto un dovere, che lo Stato sia quindi essenzialmente tirannia, la cittadinanza essenzialmente servitù. In questa oscurità proliferano le fantasie paranoiche sul potere. Ma è assurdo derivare dall'esistenza della tirannia e della servitù, dall'esistenza di cattivi governanti e cattivi genitori, la conclusione che i rapporti etici, che sono la libertà, siano un'offesa alla libertà; essere cattivi governanti o cattivi genitori significa infatti sostituire l'arbitrio alla libertà, l'impulso al diritto, cioè vivere nell'ambito etico come se fosse lo stato di natura.
«Quel concetto di unificazione di dovere e diritto è una delle determinazioni più importanti e contiene la forza intima degli Stati»7. Una determinazione che era sfuggita a Kant. L'imperativo categorico kantiano è la constatazione che, essendo pensiero, ci rappresentiamo come un dovere la possibilità di agire in base a massime che, rese leggi, non si contraddicono. Esso ha il merito di porre l'etica non nella natura particolare del singolo, nei suoi sentimenti più o meno nobili, o nella sua natura metafisica, ma nel pensiero, nella capacità di rappresentarsi e nel volere leggi come tali, sovrane rispetto all’individuo naturale, la cui differenza dalla volontà universale è vergogna e colpa. Il limite della concezione kantiana è il non aver colto il nesso tra dovere e diritto. L'entusiasmo per l'indipendenza dal condizionamento naturale promessa dal dovere lo ha accecato sul fatto che l'indipendenza è una libertà negativa, cioè una libertà non libera. La connessione tra dovere e diritto è però ineludibile: se non ho diritti, non ho doveri; essa si fa dunque valere anche nella «Critica della ragione pratica», ma ridotta in forma teologica: la virtù deve essere compensata con la felicità, e questa esigenza è l'unica prova che Kant accetti dell'esistenza di un Dio.
L'esigenza di recuperare la teologia invalidata nella “Critica della ragione pura”, la simpatia per l'illuminismo, quantunque se ne distacchi nel punto centrale dell'innocenza della natura umana, inducono Kant a trascurare che il nesso tra dovere e diritto costituisce il fine proprio dello Stato: nella misura in cui una moltitudine riconosce i doveri stabiliti dalle leggi per goderne i diritti, quella moltitudine si innalza oltre lo stato di natura, cioè di guerra potenziale o effettiva tra i molti, alla libertà ed è Stato. Lo Stato è la negazione determinata dello stato di natura, della guerra inevitabile tra gli arbitri: nel sottometterli alla legge esso non li annulla, li rende compatibili, cioè offre loro lo spazio di attuazione; negando l'arbitrio naturale, lo Stato ne annulla in effetti soltanto la repulsività, la pretesa irrazionale di un diritto senza dovere, così costituisce lo spazio in cui l'arbitrio può realizzarsi. Lo stato di natura nella versione idillica del secondo capitolo del trattato di Locke non è precedente lo Stato e radicato nella metafisica dell'individuo, ma il prodotto più prezioso dello Stato moderno, che a differenza di quello antico consente al cittadino anche di appartarsi nel suo privato. Così lo stesso libero arbitrio degli individui non precede lo Stato, ma risulta dallo Stato. Non che sia una graziosa concessione dei governanti, non che l'individuo debba piegarsi all'orientamento arbitrario di una totalità monolitica: lo Stato in quanto tale non ha altro orientamento che la libertà dei cittadini contro lo stato di natura che sorge dall'infrazione delle leggi e dal rapporto con gli altri Stati.
Poiché è il nesso tra diritti e doveri fissato nelle leggi, la libertà dei cittadini si manifesta nell'accordo dei loro arbitri in quanto differenti. Lo Stato ha fatto esplicitamente suo il compito di accordare le differenze da quando, in corrispondenza della rinascita dello spirito scientifico in epoca moderna, si è emancipato dalla religione e si è avviato a diventare Stato costituzionale. Gli individui e i loro diversi gruppi vedono bene i propri diritti, possono ignorare i diritti altrui e sottovalutare l'importanza del loro rispetto. Ne nascono prospettive incompatibili, ognuna confermata da evidenze, nessuna in grado di esercitare critica autentiche: le ideologie. Tra le evidenze di una ideologia la più importante è la condivisione collettiva, da cui si genera ciò che si chiama “senso di appartenenza”. In base a questa prima forma di universalità, un'universalità particolare, i gruppi, incapaci di scorgere i propri punti di debolezza, sentono assurdi i pregiudizi degli altri gruppi e si sforzano di convertirli o di eliminarli. Rifiutare la pluralità, pretendere che soltanto una convinzione, la propria, sia valida è il fanatismo – non solo le religioni, anche i partiti politici – che smania per ricorrere alle vie di fatto. Il dibattito del senso comune sul rapporto tra politica e morale, in cui quella sarebbe l'agire maligno più o meno giustificato da fini, questa la sfera della purezza, riportato ai suoi termini effettivi, è il contrasto tra prospettiva settaria individuale che, non comprendendo il pluralismo costitutivo dell'ambito politico, lo concepisce come un complotto ai suoi danni, e prospettiva universale, e contiene il paradosso per cui la prospettiva settaria critica nella prospettiva universale proprio il suo essere inquinata dal settarismo, cioè vi critica se stessa, ma nel contempo auspica la soppressione della prospettiva universale come se fosse la soppressione del settarismo. Rispetto all'afa dell'appartenenza, lo scetticismo, l'atteggiamento dominante di ogni democrazia, appare come una ventata liberatoria. Gli stessi scettici sono però accecati sulla questione più importante, la questione filosofica della verità.
Poiché ha in ogni caso dalla sua parte delle evidenze, l'ideologia non è mai infondata; il suo difetto è invece l'esclusività, cioè la pretesa che le altre ideologie non siano altrettanto ben fondate su evidenze. La realtà, figlia di polemos8, è complessa e contrastante; è vano pretendere dalla filosofia la sua riduzione alla semplicità di una tautologia; la logica stessa, infatti, riconosce, oltre l’identità tautologica, la differenza, la contraddizione e l'implicazione. La filosofia accetta la presenza di un insieme di ideologie, ma non le abbandona alla loro arida diversità rassegnandosi all'insuperabilità del falso, come fa lo scetticismo, anzi assolve il compito di accordare l'universalità semplice dei settarismi nell'universalità concreta del λόγος. Solo a uno sguardo superficiale un insieme differenziato di pregiudizi costituisce dunque l'autorizzazione all'atteggiamento scettico. Ogni storia della filosofia prima di Hegel (e dopo) è caduta vittima di questa superficialità, e anche filosofi grandissimi hanno visto nella pluralità delle filosofie soltanto il sintomo della sua incapacità di elevarsi dall'opinione alla verità, anziché il manifestarsi di un principio logico di differenza non meno essenziale di quello d'identità. È pigrizia intellettuale voler credere che la verità sia semplice come l’essere parmenideo, che una filosofia debba consistere in un termine o in una proposizione e che non debba abbandonarsi alla vicenda di una via crucis interna. In questa sua vicenda essa rende giustizia alla pluralità: ogni filosofia autentica è così un'integrazione di fanatismi in una pluralità interna, in cui è soppressa la loro incompatibilità. Questa pluralità nell'unità è il significato vero di una delle voci più scioccamente disprezzate della terminologia filosofica, del termine «sistema».
L’idea di Stato moderno è la forma che il sistema filosofico assume nell'ambito dell'etica. Essa sorge quando Bodin, sotto l’ispirazione degli ideali rinascimentali di tolleranza religiosa e di fronte all'orrore delle guerre civili di religione, concepisce lo Stato come sovrano rispetto alle diverse chiese diffuse nel popolo. Che le diverse chiese (cioè i diversi dogmi) siano indotte a convivere, a costituire un insieme differenziato, ne riduce la pretesa di verità esclusiva, ossia le riduce da pubbliche verità a convinzioni private: esse si riconoscono universalità particolari e riconoscono il diritto supremo dello Stato ad accordale. Lo spazio pubblico, abbandonato dalle religioni ferme alla loro universalità semplice ed esclusiva, è riempito, non dallo scetticismo, ma dalla sovranità inclusiva che lascia dispiegare la differenza necessaria, dall'universalità concreta, quindi superiore all'universalità monocorde delle singole dogmatiche: ossia dalle leggi che è necessario rispettare affinché ci sia compatibilità tra le differenti dogmatiche. Il pluralismo emancipa la costituzione interna dello Stato dal legame naturale della religione e la pone sulla base razionale del diritto. Questo è ben chiaro al massimo teorico dell'eticità dello Stato: «È nella natura della cosa che lo Stato adempia un dovere dando ogni appoggio e garantendo protezione agli scopi religiosi della comunità, anzi, poiché la religione è il momento che integra lo Stato per la profondità più intima del sentimento, esigendo da tutti i suoi membri che essi appartengano a una comunità ecclesiastica – a una qualunque9, perché lo Stato non si intromette nel contenuto, in quanto riguarda l’interiorità della rappresentazione»10. Che la differenza sia garantita dall’identità è l’essenza razionale dell'autentico Stato etico, la legge che regola tutti gli ambiti. La stessa insistenza con cui Hegel sottolinea che la monarchia costituzionale è la forma razionale dello Stato non è un rigurgito medievale, ma la preoccupazione che il vertice dello Stato, la sua identità come esistenza presente, sia espressione non di una maggioranza o di una minoranza, cioè di un partito, ma di quella volontà generale unanime dalla cui formazione le differenze interne allo Stato traggono la loro compatibilità, quella volontà generale, implicita in ogni volontà particolare, che produce il diritto come premessa di composizione dei contrasti tra i partiti.
Quest'attenzione alla pluralità necessaria dello Stato rispetto all’intima convinzione ha trovato un'eco in Benedetto Croce. Solo che la sua dialettica dei distinti, dopo aver sussunto con grossolana superficialità lo Stato a momento dell'economia, cioè dopo averlo ristretto al principio dell’utilità, ignorando che l’utilità non è affatto una categoria pratica ma teoretica, commette il grave errore di non considerare il pluralismo quintessenza della sovranità dello Stato, ma di concepirlo come una particolare ideologia politica, come liberalismo11. In questo modo egli nasconde il fanatismo proprio dell'ideologia liberale. Il liberalismo, divenuto ormai senso comune, è l’errore simmetrico a quello di Kant: mentre questi identifica la libertà con il semplice dovere e ne rimanda a una sfera teologica il rapporto necessario con il diritto, il liberalismo dimentica che i diritti risultano dal rispetto dei doveri fissati dalle leggi positive; astratto dal dovere che lo produce, il diritto dell’individuo è mistificato in un fatto metafisico, in una natura soprasensibile dell'individuo; e come tutti i fatti sovrasensibili è destinato a generare totalitarismo. Poiché i diritti piovono all'uomo dal cielo oppure dalla sua natura concepita con tutto l'ottimismo sognante di cui l'illuminismo è capace, non c'è bisogno di uno Stato in cui diritti e doveri siano connessi dalle leggi. Anzi, poiché percepisce il dovere delle leggi positive essenzialmente come ricatto e imposizione esterna, il liberalismo non solo considera lo Stato come un ostacolo da minimizzare, respingendone innanzitutto l'imposizione fiscale, ma, contaminandosi con temi socialisti, delira che la sua estinzione, l'abbattimento delle frontiere, apra, anziché lo stato di guerra, l'epoca di godimento indisturbato dei diritti; non percepisce che nella misura in cui i doveri di cittadinanza vengono meno, vengono altrettanto meno i diritti di cittadinanza e ci si ritrova nello stato di guerra.
«Totalitarismo» è l'appellativo che i liberali rivolgono al fascismo e al comunismo. A ragione. Lo Stato assicura il pluralismo e l'individualità in quanto la sua legge sottomette tutti al principio del nesso tra doveri e diritti. Il dominio della legge, che i governanti stessi le siano sottomessi, è assicurato dall'articolazione dei poteri: poiché l'etica e la ragione sono concrete, ossia sono l'accordo del differente, il potere è etico e razionale solo se è differenziato in poteri. C'è però più di un modo di abolire la differenziazione del potere, non solo l'Uno fascista o la Comune rivoluzionaria che legiferano e insieme eseguono e giudicano; ce n'è un secondo non meno foriero di totalitarismo: l'irrigidimento dell'articolazione dei poteri fino alla loro divisione. L'ambiguità del termine «divisione», già rilevata da Hegel12, è il sintomo di un totalitarismo liberale che si è infine realizzato nella creazione di banche centrali dal potere monetario supremo e indipendente, che, vanificati gli altri poteri, si fanno strumento del fanatismo della proprietà. La cittadinanza è il primo diritto, dunque anche il primo dovere: c'è una costituzione solo se la si serve, e soltanto se c'è una costituzione l'interesse particolare, essenzialmente la proprietà, può realizzarsi. Per l'ideologia liberale tutto è invertito: la costituzione c'è per natura, è superfluo il dovere di volerla, non ci sono doveri politici, ma solo proprietà da accumulare e da godere. Essa fa dell'eticità il mezzo della proprietà, senza comprendere che appunto la proprietà è lo stato di natura e senza ricordare che Locke stesso, dopo averne cantato l'idillio nel secondo capitolo del suo trattato, nel nono capitolo lo riconosce come un immediato e incontenibile mutare nello stato di guerra: umiliandola a mezzo della proprietà, il liberalismo dissolve la cittadinanza, ma così riattiva lo stato di guerra, cioè abolisce la stessa proprietà13.
1 La confessione cattolica e quella protestante concordano nella valutazione che l'arbitrio naturale è insufficiente alla salvezza dell'uomo; discordano sul problema se l’arbitrio naturale possa volere la grazia oppure questa non possa che operare alle sue spalle.

2 Almeno su questo punto il pensiero di Nietzsche coglie nel segno.

3 Il fatto che le armi atomiche abbiano reso impossibile la distinzione tra guerra e devastazione nel secondo Novecento ha avuto come conseguenza l'impossibilità per gli Stati che le possiedono di farsi guerra. Viceversa, la presente decadenza degli Stati può avere come conseguenza non soltanto la diffusione della criminalità finanziaria alla quale si è assistito finora, ma anche la devastazione finale della Terra.

4 Per chi apprezza le etimologie, si può osservare che da λόγος deriva lex. – La definizione di uomo come animale razionale, che filosofie non riuscite disprezzano scioccamente, è esatta e profonda, in quanto esprime con un nesso di differenti – animalità e razionalità – la legge propria della condizione umana. – Peraltro la teoria delle idee di Platone è la scoperta della natura universale dei significati delle parole, dunque del loro carattere legale; la contemplazione di questa legalità è la sua nozione di dialettica. L’avere soltanto avvertito questa universalità, l'averla trattata come un mistero, è l'insufficienza, ma anche il fascino, dell’opera di Wittgenstein.

5 «Universale» significa innanzitutto il semplice – come tale lo hanno pensato i primi filosofi, lo stesso Parmenide; significa poi una collezione completa di elementi, cioè “tutti” o “nessuno” – come tale lo concepisce la logica formale; significa infine il nesso tra differenti – come tale lo concepisce la grande filosofia da Kant a Hegel. Questi tre significati sono presenti nel concetto di legge; essa è infatti semplice rispetto ai casi che sussume, inoltre riguarda ognuno, infine unisce determinazioni differenti.

6 Aristotele ha colto con stupenda chiarezza questo nesso tra linguaggio e libertà: « … l'uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l'hanno anche gli animali (e, in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l'ingiusto: questo è, infatti, proprio dell'uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto e degli altri valori: il possesso di questi costituisce la famiglia e lo Stato.» Aristotele, Politica, Libro A, 2, 1253 a; trad. di R. Laurenti, Bari 1972.

7 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 261 n.

8 Cfr. il framm. 53 di Eraclito: «Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους» (Di tutti polemos è padre, di tutti sovrano; e quelli rivelò dei, questi uomini; quelli rese servi, questi liberi).

9 Enfasi nostra.

10 È la nota al § 270 dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel. La nota prosegue: «Lo Stato sviluppato nella sua organizzazione, dunque forte, qui si può comportare in modo tanto più liberale, può trascurare del tutto singolarità che lo colpirebbero e tollerare al suo interno perfino comunità (qui certo è importante il numero) che, per la loro religione, non riconoscono i doveri diretti verso di esso, affidando cioè i loro membri alla società civile sotto le sue leggi e accontentandosi di un adempimento passivo dei doveri diretti, mediato eventualmente da scambio e sostituzione».

11 Cfr. B. Croce, La concezione liberale, in Etica e politica, Milano 1994, pp. 331 – 341.

12 Cfr. Lineamenti di filosofia del diritto, § 272 n.

13 Questo è l'enorme significato del bail in: il liberalismo giunge a negarvi l'unico valore che consideri sacro, a mostrarvi la contraddizione della propria essenza.

1 commento:

  1. Diritti dell' UOMO e Doveri degli Stati
    - Per una nuova Etica pubblica -
    . . .

    Al fine di 'edificare'
    Una Democrazia Integrale,
    per il rispetto dei diritti dell' Uomo,
    va ricordata
    la lezione fondamentale
    di NORBERTO BOBBIO
    ...

    "La Dichiarazione dei Doveri degli Stati
    potrebbe essere la soluzione
    del <> del terzo millennio :
    il rispetto dei diritti umani"
    ( NORBERTO BOBBIO )

    RispondiElimina