domenica 11 ottobre 2015

Paolo Di Remigio: il valore della sovranità


Un excursus hegeliano.



Nelle rappresentazioni comuni la libertà appare come arbitrio degli individui, lo Stato come il limite delle libertà individuali. Più è largo questo limite e lo Stato si ritrae dalla vita degli individui, più gli individui sono liberi – questa la visione liberale; più la gestione dello Stato è espressione della volontà degli individui, più questi sono liberi – questa la visione democratica e socialista. Si è concordi nel supporre che gli individui siano il positivo, il bene, lo Stato il negativo, il male. Ciò contrasta però con l'estensione logica dei termini; l'individuo è infatti il particolare, rispetto a lui lo Stato è l'universale; poiché il particolare (ossia l'equivalente al quantificatore «qualche») è ciò che implica opposizione ad altro e l'universale (l'equivalente al quantificatore «tutti») ciò in cui i differenti sono uguagliati, il particolare è il conflittuale, dovrebbe perciò corrispondere alla rappresentazione del negativo e del male, l'universale è il pacificato, corrisponderebbe dunque al positivo e al bene. In verità la visione liberale e quella democratica traggono la loro plausibilità da un presupposto non tematizzato e per nulla ovvio: esse si riferiscono a un individuo che è non soltanto particolare, ma anche universale. Rispetto a questo individuo che sa coniugare il suo interesse con la cosa pubblica, lo Stato deve essere liberale e ritrarsi quanto è possibile, così come lo Stato deve essere democratico ed affidarsi alla volontà degli individui in quanto questi sono consapevoli della mediazione tra il loro interesse e l'interesse universale.

La filosofia ha identificato la volontà chiusa nel suo particolare con l'arbitrio, la volontà consapevole della mediazione tra la sua particolarità e l'universale con la libertà. L'arbitrio è la volontà irriflessa, trascinata dalla tempesta degli impulsi naturali fino all'autolesionismo e incapace di pensare e realizzare il bene comune; la libertà è l'esistenza di diritti e doveri e la loro corrispondenza. Tra arbitrio e libertà non c'è alternativa reale, piuttosto: l'arbitrio è la forma iniziale della volontà che l'educazione spinge a diventare libera. Rappresentare questa educazione è l'obiettivo esplicito di ogni esposizione etica hegeliana, non solo di quella della Fenomenologia, anche di quella dei Lineamenti della filosofia del diritto; la prima si riferisce all'individuo che dalla cupidità arriva alla ragione, la seconda all'individuo socializzato che dalla proprietà privata arriva al patriottismo. Percorreremo la prima di queste due vie per abbozzare un'introduzione alla seconda.



Iniziamo con l'esporre il nucleo del pensiero di Hegel. Al prezzo di una certa imprecisione si usa indicarlo con il termine «dialettica»; ma ancora più fuorviante è l'espressione di «logica dialettica»: proprio come non esiste una matematica dialettica o una fisica dialettica, così non esiste una logica dialettica alternativa alla logica comune, questa in uso nella scienza della natura, quella raccomandata per l'indagine sociale; esiste invece un metodo dialettico-speculativo, che si applica ai principi di tutte le scienze e ne misura la portata di verità. Esso procede oltre l'analisi e la sintesi cui ricorre l'esposizione delle scienze. Analisi e sintesi sono procedimenti della conoscenza, non processi dell'oggetto1: vanno dal complesso dei teoremi al semplice dei principi e viceversa, così da comunicare al complesso l'evidenza che è propria del semplice; la verità che assicurano è dunque quella, soltanto soggettiva, dell'evidenza. Paghe dell'evidenza del semplice, non ne discutono la verità, dunque delegano la decisione ultima sulla verità del teorema all'esperienza – che però non è in grado di prenderla. Il credo del metodo dialettico-speculativo è invece: non c'è nulla di semplice e l'evidente non è il vero; la semplicità è superstizione e l'evidenza ingenuità.

Il suo compito inizia dal criticare la verità dei principi evidenti; il suo contegno è dunque quello dello scetticismo radicale che trova la contraddizione in ogni oggetto. A differenza dello scetticismo, che abbandona l'oggetto dopo averne mostrato la nullità e rivolge ad altro il suo potere corrosivo, la dialettica indugia sull'oggetto negato, fino a quando questa stessa negazione non si mostra come oggetto positivo, come nuovo principio. Il mostrarsi del nuovo principio nella confutazione stessa, ciò che Hegel chiama «speculazione», ciò per cui lo scetticismo diventa scettico nei propri confronti, comporta che l'avanzamento dialettico sia un arretramento: il nuovo principio non è una conseguenza del vecchio principio, è, anzi, principio rispetto al quale quello precedente è solo un elemento. Poiché nell'avanzare retrocede, lo sviluppo completo del metodo dialettico-speculativo espone in un superiore circolo logico la verità dei principi teorici e pratici2.

Applicato alla storia, il metodo filosofico produce la conoscenza del processo per cui le categorie storiografiche sorgono ognuna nell'annullamento critico dell'altra, per comporsi infine come elementi conciliati nel moderno stato monarchico-costituzionale. La filosofia hegeliana della storia dunque, per quanto straordinariamente ricca di conoscenze, molte delle quali di una esattezza empirica che sfida ancora il tempo, è estranea allo storicismo, sia a quello che, in fuga dal presente, cerca l'immedesimazione col passato, sia a quello che cerca le leggi naturali della storia; il suo oggetto non è la storia, ma la verità della storia, la libertà, esposta nella genesi speculativa dei suoi principi dalla reciproca confutazione dialettica.

L'uomo ha storia, cioè si stacca dalla natura e produce libertà, perché ha il potere di inibire la cupidità naturale. Questo potere di inibizione è il vero tema del secondo capitolo della Fenomenologia, sull'autocoscienza, cioè sull'io. La coscienza, da cui l'opera inizia, è la certezza della verità dell'oggetto; ma nel suo sviluppo questa verità si inabissa nelle contraddizioni e la coscienza è negata; l'autocoscienza è il significato positivo del nulla di quella verità: certezza non più della verità dell'oggetto, ma dell'inconsistenza dell'oggetto. L'io è, così, l'oggetto rispetto al quale ogni oggetto è nullo. In altri termini, nella sua forma iniziale l'io è egocentrismo, l'orgoglio infinito per il quale gli oggetti sono privi di essere proprio. Lo sviluppo dell'autocoscienza, poiché per il metodo dialettico-speculativo lo sviluppo è la completezza della confutazione, non è che la punizione del suo orgoglio.

L'oggetto si presenta di fronte all'autocoscienza certa di se stessa; questa ne sa l'inconsistenza, così procede a distruggerlo; la distruzione dell'oggetto ne dimostra la nullità e insieme prova la verità dell'autocoscienza3. Hegel chiama cupidità l'autocoscienza che realizza il proprio essere con la distruzione, e soddisfazione questa realizzazione. Nella sua forma naturale l'autocoscienza non è un rapporto positivo con persone e cose, ma piacere della distruttività, la nietzschiana volontà di potenza. – Ma la cupidità è contraddittoria: la sua soddisfazione implica l'annullamento dell'oggetto, l'annullamento dell'oggetto ne implica la consistenza; dunque la certezza della nullità dell'oggetto, nel fare esperienza della soddisfazione, ha fatto anche esperienza della verità dell'oggetto, ossia è insoddisfatta nella stessa misura in cui è soddisfatta. L'autocoscienza può liberarsi di questa contraddizione solo se l'oggetto stesso annulla la propria indipendenza4.

Ma questa condizione è già data: la distruzione dell'oggetto non gli è soltanto esterna ma è la sua natura; il fatto che ci sia un'autocoscienza significa che l'oggetto è già nullo in se stesso, e la soddisfazione è semplicemente la prova di questa nullità. Ora, l'oggetto che è la nullità dell'oggetto è proprio la definizione dell'autocoscienza; ne segue che nella soddisfazione all'autocoscienza l'oggetto stesso balena come altra autocoscienza, che nella soddisfazione è contenuto un rapporto tra autocoscienze. Se quindi nel suo significato dialettico la cupidità è degradarsi dell'autocoscienza nell'oggetto, in quello speculativo essa è innalzarsi dell'oggetto all'autocoscienza; così l'io è soddisfatto non come cupidità, in quanto annulla l'oggetto, ma solo se è onorato come io da un altro oggetto che egli onora come io. Questo rapporto tra autocoscienze è il riconoscimento.

La forma iniziale del riconoscimento è che due oggetti devono mostrarsi l'uno all'altro come autocoscienze, devono mostrare cioè di negare l'oggettività. Per farlo devono scegliere il pericolo, perché mettere in pericolo l'oggettivo è mostrarlo nullo. Solo la lotta mortale, mettendo in pericolo entrambi gli oggetti, permette il loro riconoscimento reciproco, il loro essere autocoscienze reali5. In altre parole, che un oggetto possa onorarmi come io, che io possa onorarlo come io, implica, poiché l'io è la nullità dell'oggettivo, che la mia e la sua oggettività siano per noi nulle, dunque che entrambi siamo capaci di mettere in pericolo il nostro corpo, la nostra vita; ma solo nella lotta possiamo mostrare disprezzo per la nostra vita. Nella prima forma di riconoscimento l'autocoscienza è coraggio.

Anche la lotta incontra però la sua dialettica: il pericolo conduce alla morte e il morto è autocoscienza negata, semplice oggetto. La lotta presenta dunque la contraddizione che da una parte l'autocoscienza vi si realizza come disprezzo dell'oggetto, dall'altra l'oggetto si vendica come disprezzo dell'autocoscienza. Il risultato speculativo della contraddizione della lotta è il rapporto tra l'autocoscienza che è negazione dell'oggetto e l'autocoscienza negata dall'oggetto, il rapporto tra il signore che conserva il suo orgoglio e il servo che considera essenziale la cosa, cioè la vita, la preferisce all'autocoscienza. Il servo è l'autocoscienza che ha paura della morte; ma l'autocoscienza è un aprirsi alla morte; quindi il servo è l'autocoscienza che nega l'autocoscienza.

Anche questa contraddizione della servitù, la sua viltà, acquisisce forma positiva: come autocoscienza il servo annulla la cosa, come autocoscienza negata la conserva; si genera cioè nel servo una distruttività inibita che è il lavoro. Il lavoro ha un doppio significato. a) Attraverso il lavoro del servo il signore perde ogni rapporto con l'indipendenza della cosa che affliggeva la cupidità: ora egli si rapporta alla cosa formata dal servo così che la sua cupidità non ha più a che fare con l'indipendenza degli oggetti. Ma questa soddisfazione completa è contraddittoria: essa è l'oggettività del signore, ma si realizza nella distruzione dell'oggettività, esattamente come la lotta dà esistenza oggettiva all'autocoscienza solo in quanto essa va alla distruzione dell'oggettività: nel signore l'autocoscienza esiste soltanto come distruttività, come morte. b) Nel servo, invece, l'autocoscienza si dà realtà positiva: la sua distruttività inibita dalla paura è elaborazione della cosa immediata in cosa coltivata, nella quale la negatività dell'autocoscienza è positiva come forma della cosa. Riconoscendosi nella forma che ha dato alla cosa l'autocoscienza negata del servo acquisisce oggettività: il servo vince la paura perché si è trasposto nella forma della cosa.

L'autocoscienza che si realizza in quanto si sente identica alla forma delle cose ma resta indifferente alla sua e alla loro particolarità è lo stoicismo; ma la particolarità esclusa lo condiziona. L'identità storica sembra poter essere raggiunta dallo scetticismo; questo è però imperturbabile solo attraverso la confutazione del particolare, cioè attraverso la perturbazione. Il contrasto interno in cui si spegne lo scetticismo è la coscienza infelice, che riconosce l'imperturbabilità come un ideale fuori di sé e cerca di raggiungerlo annullando la sua particolarità. Nello sviluppo di questa figura l'autocoscienza, accettando di dipendere dal ministro dell'Immutabile, si sacrifica radicalmente e con questo sforzo di assimilarsi alla cosa cessa il suo orgoglio, cessa di essere autocoscienza particolare; ma l'autocoscienza particolare annullata è autocoscienza veramente universale: libera ragione – non più certezza della nullità delle cose, ma certezza di essere tutte le cose.

Questi passaggi sono difficili non tanto per il metodo che seguono, o per l'astrazione dei termini, ma soprattutto per la violenza con cui il loro contenuto contrasta il senso comune. Essi iniziano dall'io singolo, come fa il senso comune; ma l'io non appare misurato nei suoi impulsi, conciliato con la realtà; anzi, iniziare dall'io singolo significa proiettarsi in uno scenario selvaggio in cui la sua superiorità dell'uomo sulle cose è concepita nella forma elementare del distruggerle e il riconoscimento tra gli uomini è concepito nella forma elementare della lotta. Tutto questo è lontano dal senso comune, ma non dall'esperienza quotidiana. Infatti, senza che il senso comune se ne accorga, l'esperienza quotidiana non risulta dall'interazione di autocoscienze naturali, ma dal rapporto tra autocoscienze universali, cioè dalla negazione delle autocoscienze naturali.

Attraverso la negazione della sua naturalità che le permette il riconoscimento senza lotta, l'autocoscienza entra nella ragione, cioè nel vivere sociale che fa da sfondo al senso comune. Il risultato paradossale dello sviluppo dell'autocoscienza è quindi che la libertà, ben lungi dall'essere autocoscienza naturale, arbitrio, ne pretende l'umiliazione. L'inizio dell'uomo, l'autocoscienza come cupidità che va senz'altro alla soddisfazione, è una falsa partenza; solo con la sua correzione l'uomo si libera dall'asservimento alla natura che potrebbe generare soltanto il bellum omnium contra omnes, la condizione del perfetto orrore, e produce il contesto della libertà.

La teoria hegeliana dello Stato, come teoria della libertà che muove dall'inibizione dell'arbitrio naturale, può essere esposta nei seguenti momenti.

  1. La moltitudine si unisce: ogni individuo rinuncia al suo arbitrio naturale che lo rende sovrano; ora gli individui sono attrattivi, non individui ma membri, dunque al servizio dell'altro, come documenta ogni formula di cortesia. Questa servitù individuale è la sovranità generale, la società. Contro la visione liberale che assume l'arbitrio naturale direttamente come sociale, cioè trascura il lato negativo dell'educazione e dell'etica, la società è una moltitudine di persone unite dalla negazione del proprio arbitrio naturale.
  2. La rinuncia all'arbitrio naturale è in parte un effetto dell'educazione, ma in parte uno sforzo consapevole dell'arbitrio; in parte abitudine passiva, ma in parte volontà attiva. In quanto la rinuncia è volontaria, l'arbitrio nel negarsi si conserva; così la rinuncia all'arbitrio è accettazione volontaria del servizio, dovere.
  3. Il dovere che i membri accettano nei confronti della società rifluisce loro come dovere della società nei loro confronti, dunque come diritto. La rinuncia all'arbitrio naturale contenuta nell'accettazione del dovere è rinuncia alla soddisfazione immediata dell'impulso naturale, ma non alla sua soddisfazione, anzi è acquisizione del diritto alla sua soddisfazione mediata, cioè offerta dalla volontà altrui. La certezza soggettiva del rifluire del dovere come diritto è la libertà.
  4. Quanto più ampia la moltitudine che si unisce rinunciando alle sovranità individuali, tanto più la sua sovranità generale è solo virtuale, tanto più essa deve essere esercitata in modo organizzato. In altri termini: la sovranità generale è dapprima soltanto la negazione delle sovranità individuali; che abbia realtà positiva, che sia volontà generale operante per la propria conservazione, cioè in grado di difendersi, implica l'organizzarsi di un potere che la attui. L'obbedienza volontaria che unisce la moltitudine in una società sovrana è dunque anche origine del potere legittimo. Il potere carismatico non è in grado di fondere i molti in una società, ma solo in una setta.
  5. Il potere che attua la sovranità generale e le dà realtà individuale è il governo. La sua presenza fa della società uno Stato. Contro Hobbes, che esclude il governo dal pactum unionis, e contro il fascismo e il totalitarismo in generale, il governo è interno alla società, cioè investito di doveri; i suoi membri, più di ogni altro, sono tenuti alla rinuncia all'arbitrio naturale.
  6. Il dovere del governo è duplice: verso la sovranità interna e verso la sovranità esterna. Verso l'esterno, consiste nel difendere la sovranità dello Stato dagli altri Stati. Questi, infatti, sono individui che non riconoscono doveri tra loro; essendo sovrani non hanno rinunciato all'arbitrio che li rende repulsivi: sono in uno stato di natura che costituisce una minaccia costante per ogni società, tale da consolidarne l'unità.
  7. Verso l'interno, il compito del governo è di garantire che lo Stato restituisca in diritti l'accettazione del dovere con cui i membri si uniscono e costituiscono la sovranità generale, cioè di rendere la libertà una seconda natura.
  8. Lo Stato e la sua libertà, essendo una seconda natura, non sono un dato naturale: sono prodotti dalla volontà di servizio che dipende dall'arbitrio. L'arbitrio rinuncia a se stesso in base all'abitudine e a ragioni: perché la soddisfazione immediata dell'impulso è precaria e suscita la guerra di tutti contro tutti, mentre il diritto è sostanziale e contiene il riconoscimento altrui. Tuttavia, l'arbitrio è padrone delle ragioni: dipende da lui considerarle buone ragioni.
  9. Per l'arbitrio che non voglia riconoscere la libertà come condizionata dal proprio negarsi, nessuna ragione è buona per non procedere alla soddisfazione immediata degli impulsi e per non appropriarsi dei beni generati dalla mediazione della libertà. Questa contraddizione è in generale il male; in quanto infrange la legge è il reato. Il suo effetto è produrre la precarietà dello stato di natura di cui lo Stato è il superamento.
  10. La libertà è l'essenza dell'uomo che l'uomo stesso produce attraverso la libera negazione dell'arbitrio. In quanto l'individuo la produce con la negazione della propria naturalità, la libertà è sacra e dello Stato che attua la sua libertà l'individuo è servitore. (Tale paradosso si verifica in ogni ambito sociale; per esempio nell'educazione: la scienza libera l'individuo, ma la si acquista con la sottomissione allo studio).
  11. In quanto garantisce il diritto e la libertà, lo Stato svolge la funzione che la religione ha assegnato a Dio: commisurare la felicità, ossia il diritto, alla virtù, ossia al dovere. In questo senso lo Stato è Dio interno al mondo.

Secondo l'idea hegeliana, che lo Stato inizi come asservimento dell'arbitrio, anziché condannarlo, fa dell'asservimento una necessità ineludibile. La storia lo presuppone quindi come suo inizio ed è lo sviluppo delle forme statali dal paternalismo alla monarchia costituzionale, in cui si restaura il diritto della particolarità. Solo a partire dall'umiliazione di ogni cupidità elementare (l'alienazione totale dei diritti naturali, secondo Rousseau) la volontà particolare dell'individuo è in grado di misurarsi e di comporsi con quella degli altri. Solo se si presuppone questo spegnersi dell'arbitrio nella sovranità diventano concepibili la sfera privata e la democrazia; il godimento della sfera privata è infatti condizionato dalla sicurezza, cioè dalla fiducia nella soppressione della cupidità altrui; la democrazia presuppone infatti che i singoli percepiscano il proprio interesse come subordinato all'interesse generale. Poiché i diritti sono la libertà generale e la libertà generale presuppone l'illegittimità dell'arbitrio particolare, non ha senso riferire i diritti all'arbitrio particolare, cioè all'uomo al di fuori della sovranità generale: i diritti dell'uomo sono un dovere degli stati, un effetto della loro sovranità; la soppressione della sovranità è dunque la soppressione di ogni diritto.

Nei termini della visione etica hegeliana, la costituzione di una sovranità politica non può neppure essere un atto di volontà di governanti per quanto ben intenzionati, ma può solo risultare da un processo storico di educazione che sopprime l'arbitrio nel dovere; solo dall'accettazione generale di questo dovere possono sorgere i diritti di cui i governanti curano la realizzazione. Un'unione politica come l'Unione Europea, costruita sull'autonomia degli interessi economici particolari dalla sovranità politica, non può dunque che risolversi in un esasperarsi delle divergenze naturali tra i gruppi e in una soppressione dei diritti e della libertà6. In realtà, come denunciato da importanti economisti in numerosi interventi, il suo fine era, anziché la genesi di una nuova sovranità e di nuovi diritti, proprio la distruzione delle sovranità politiche esistenti e degli strumenti con cui garantivano al loro interno il rifluire dei doveri in diritto, per lasciare libero campo allo sfrenarsi della cupidità: gli Stati europei hanno ceduto sovranità all'Unione Europea perché essa la dissipasse. Jacques Sapir ricorda spesso che in un discorso pronunciato all'università di Stanford7 l'ex-presidente della Commissione Europea Barroso ha esaltato questo contegno proclamando che l'Unione Europea non è «né un super-stato né un'organizzazione internazionale». Ossia: l'Unione Europea da una parte sopprime la sovranità degli Stati, in quanto non si limita al ruolo modesto di facilitarne il coordinamento, come farebbe un'organizzazione internazionale, ma è loro superiore; d'altra parte non è uno Stato sovrano; così la sovranità ceduta dagli Stati europei non è raccolta da un sovranità europea che la faccia rifluire in forma di diritti sui cittadini europei, ma svanisce nel nulla, insieme ai diritti e alla libertà.

Lo svanire della sovranità non è dunque avanzamento in un'epoca superiore della storia universale, è regressione nell'autocoscienza elementare, quindi nello smisurato della cupidità e nel rapporto tra signoria e servitù. Così, divenuti membri dell'Unione, gli Stati europei, anziché innalzare i loro popoli nel paradiso dei diritti, sul piano interno smantellano l'organizzazione dei poteri costituzionali, eredità del liberalismo, distruggono la stessa apparenza di democrazia e si privano degli strumenti per gestire i problemi economici, sul piano esterno disarmano le loro capacità di difesa, così da porsi alla mercé di ciechi interessi privati sovranazionali e dell'imperialismo di quegli Stati che si sono avvantaggiati conservando la propria sovranità mentre gli altri l'abbandonavano.



1 Non sempre li si intende così: il Wittgenstein del Tractatus commette l'ingenuità di camuffare da ontologia il procedimento analitico.


2 Spesso, sulla traccia dei fraintendimenti di Lukács e di una lettura parziale di un passo della Fenomenologia, si dice che il metodo hegeliano consisterebbe nel concepire la verità come totalità. La determinazione di totalità si presenta nella «Scienza della logica», ma solo per incorrere nella sua dialettica, che la dissolve nella determinazione di forza; quindi non vi rappresenta affatto la determinazione complessiva – che è invece quella di idea, corrispondenza di concetto e realtà, dover-essere ed essere. Se con totalità intende la completezza del particolare empirico, la concezione della verità come totalità fraintende Hegel, che concepisce invece la verità come circolo virtuoso, generato dal mutare l'uno nell'altro degli estremi dello sviluppo. Così il «sapere assoluto» con cui termina la Fenomenologia non è affatto la stupida presunzione di sapere tutto, ma la coscienza la quale, avendo scoperto che l'estraneità inconciliata dell'oggetto nasce dalla propria inquietudine critica, nel saperlo differente lo riconosce anche identico a se stessa, così da superarsi.


3 Questo vale anche dell'autocoscienza naturale in senso ontogenetico, quella del bambino: egli si rapporta a un oggetto di cui sa la nullità, cioè al giocattolo (che, notò Benjamin, nella sua forma elementare è lo scarto del lavoro degli adulti), e finisce col distruggerlo – così realizza la sua certezza di sé.


4 Nel caso del bambino questo accade nel rapporto con la madre.


5 Per Hegel il fine della lotta per il riconoscimento non è, come spesso si crede, vincere e sottomettere, ma il pericolo stesso – un precedente dello heideggeriano essere-per-la morte, con la differenza che Heidegger si preclude il superamento di questa forma barbarica con il suo rifiuto del lavoro.


6 Cfr. quanto confessa uno dei protagonisti della costruzione dell'«unione» dell'Europa, in particolare dal minuto 3:30 in poi, in https://www.youtube.com/watch?v=uIEAflRcSvo .


7 J. M. Barroso, Speech by President Barroso: «Global Europe, from the Atlantic to the Pacific», discorso pronunciato all'Università di Stanford il primo maggio 2014.


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