lunedì 8 giugno 2015

"Buona scuola" o disastro antropologico?


Pubblichiamo un intervento di Fabio Bentivoglio sulla "buona scuola". Si tratta di un articolo in corso di pubblicazione sulla rivista Indipendenza.
(M.B.)



Buona scuola” o disastro antropologico?

Fabio Bentivoglio

(articolo tratto dalla rivista Indipendenza)



Prendiamo spunto da alcune “perle” relative alla cosiddetta riforma “La buona scuola” illustrata da Renzi nel corso del video con lavagna e gessetti. Il nostro, con lo sguardo rivolto alla mitica crescita, esordisce indicando che la riforma in oggetto mira a fare dell’Italia una “superpotenza culturale”; aggiunge poi che per contrastare il dramma della disoccupazione giovanile sarà previsto in tutti gli ordini di scuola un monte orario significativo di alternanza scuola-lavoro. Il giorno seguente l’approvazione alla Camera dell’articolo 9 del relativo disegno di legge che attribuisce ai dirigenti scolastici il potere di scegliere gli insegnanti più consoni alla realizzazione degli obiettivi indicati nel Piano dell’Offerta Formativa dell’istituto, Repubblica (19.05.2015) riporta il commento entusiasta della ministra Giannini: “Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra; vogliamo una scuola autonoma, responsabile e valutabile. Sono i principi della sinistra italiana progressista e illuminata che già aveva indicato Luigi Berlinguer”. Un merito va riconosciuto a Renzi e alla Giannini: è difficile condensare in così poche parole quello che a tutti gli effetti si configura come un disastro antropologico di cui forse manca ancora adeguata consapevolezza.

Che la politica scolastica della sinistra sia “illuminata” o che l’alternanza scuola-lavoro sia un antidoto alla disoccupazione dilagante sono affermazioni talmente grottesche (quella relativa al lavoro è oggettivamente insultante) da porre l’interrogativo di come sia possibile che simili sciocchezze possano essere pronunciate da personaggi che determinano la vita collettiva senza che ci siano reazioni adeguate, quantomeno della gran parte del ceto intellettuale e accademico uso a declamare il “valore della cultura” senza trarne mai vere conseguenze politiche.




Progresso “illuminato” e “minorità intellettuale”

Andiamo per ordine e riflettiamo sul significato di questi principi di sinistra che secondo la Giannini e non solo sarebbero “progressisti e illuminati”.

Illuminati” rimanda ai Lumi della ragione quindi a quella fase della storia in cui è in corso la transizione da una società feudale ormai storicamente esaurita ad una società borghese, quando modernizzazione e cambiamento significavano emancipazione da vincoli e tradizioni oppressive, dal conservatorismo delle aristocrazie e della Chiesa per affermare un’idea di uomo, società e progresso davvero liberatoria. L’Illuminismo riflette sul piano culturale una fase di vero progresso dell’uomo. Ma che cos’è l’Illuminismo? Questa domanda fu posta anche a Immanuel Kant il quale nel 1784 scrisse appunto l’articolo Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? di cui questo è il celebre inizio: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità della quale è egli stesso colpevole. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto se non sottomettendolo a un potere esterno. […] Tra tutte le forme di minorità intellettuale la più umiliante per l’uomo e dannosa per il progresso è la minorità in materia religiosa.” Siamo alla vigilia della Rivoluzione francese, in un’epoca in cui la religione e la Chiesa sono ancora poteri direttivi cui render conto, perché oltre a dar fondamento ideologico ai rapporti di produzione feudale, la religione improntava di sé l’intera società, i costumi, la morale, la tradizione ecc... Ecco che allora Kant rivendica il diritto della ragione all’autonomia, cioè a non essere subordinata a poteri esterni che la condizionino: “avvalersi dell’intelletto” significava e significa una ragione non asservita a interessi e comandi di un “potere esterno” di qualunque natura esso sia. Da ciò si evince che Kant avrebbe portato ad esempio di “minorità intellettuale” i cosiddetti principi progressisti e illuminati della sinistra italiana. Com’è possibile, si potrebbe obiettare, che l’autonomia della scuola, bandiera della sinistra, sia espressione di minorità intellettuale? L’autonomia della scuola sarebbe vero progresso se intesa nel senso di rendere la scuola autonoma nella sua opera di promozione culturale, quindi se la scuola non fosse subordinata a logiche politiche o economiche per loro natura estranee alla dimensione culturale nel senso proprio del termine. Diversamente l’autonomia scolastica inaugurata dalla sinistra con la legge Bassanini del 15 marzo 1997 e poi con la riforma di Luigi Berlinguer (in merito si veda l’ articolo Sulla scuola: parliamoci chiaro) è la negazione dell’autonomia culturale delle scuole, perché si sostanzia nel loro asservimento alle esigenze della sfera produttiva e della logica di mercato. L’intelletto (o quel che rimane di esso) è utilizzato dai riformatori di sinistra e di destra allo scopo di subordinare l’istituzione scuola e quindi la formazione dei giovani alle istanze di un potere esterno che non ha neanche più l’autorità e il volto di Dio come al tempo di Kant, ma il volto anonimo di un Mercato che di tutte le attività umane riconosce solo quelle riconducibili al vendere e consumare.



I postulati del neoliberismo

Questo modo di intendere l’autonomia scolastica nella forma caricaturale dell’azienda, è logica conseguenza nello specifico settore dell’istruzione delle due fondamentali premesse-postulato della cosiddetta globalizzazione, o, se si preferisce, dell’attuale fase storica che stiamo vivendo. Postulati talmente condivisi nella sfera politica (non solo italiana) da rendere ormai ininfluente la distinzione tra governi di destra o di sinistra. Primo postulato: riduzione di ogni attività umana ad attività economica, intendendo l’attività economica come sinonimo di attività aziendale operante in un quadro di competitività globale. Secondo postulato: assunta come dato di natura la competitività globale, ne segue che le risorse disponibili devono essere impiegate allo scopo di creare le condizioni per realizzare profitti aziendali o di altra natura. È dunque legittimo parlare di innovazione e modernizzazione solo per “riforme” che si presume possano promuovere tali convenienze. Il sottinteso (falso) è che promuovendo tali convenienze si creino anche opportunità di lavoro per i sudditi. E poiché il mercato e le aziende hanno bisogno di lavoratori adattabili, convinti che il loro destino dipenderà dalle individuali capacità di intraprendere, ecco che la scuola è chiamata a forgiare l’individuo competitivo e adattabile. In quest’ottica è del tutto ovvio che “Tanto tempo a scuola non serve: la crisi di competitività dei nostri giovani risiede in fattori molteplici che rendono la formazione del capitale umano italiano più debole di quella di altri Paesi” (Italia oggi 29.10.2013). Meno anni e meno tempo seduti sui banchi a studiare Dante e Petrarca e immersione nella concretezza del mercato e dell’impresa per forgiare il giovane “imprenditore di se stesso” di berlingueriana memoria: questo è l’approdo dell’Italia “superpotenza culturale” evocata da Renzi, in piena e rivendicata coerenza con l’autonomia scolastica così com’è stata concepita dalla sinistra italiana e dalle forze sindacali a essa legate. Quello che Kant avrebbe portato ad esempio di “minorità intellettuale”, oggi, diversamente, è possibile sbandierarlo come conquista progressiva. C’è una spiegazione storica: in questi ultimi trent’anni il potere economico-finanziario, asservita la politica, ha ridisegnato il mondo e il modo di vivere e di pensare a propria immagine e somiglianza, inaugurando una fase storica che non ha precedenti, quella del totalitarismo aziendalistico-finanziario. Detto in altri termini, come scrive Stefano Azzarà nel suo libro Democrazia cercasi (Imprimatur Editore, 2014) “…la parte più forte della società capitalistica si è ripresa con gli interessi tutto ciò che le era stato strappato in centocinquant’anni di storia del movimento dei lavoratori”. La trasformazione della cultura e della mentalità dominante in chiave di un individualismo aggressivo e competitivo è stata ormai interiorizzata anche da chi sta in basso, al punto da creare una sorta di complicità tra chi è oppresso e chi opprime: assistiamo così all’inedito fenomeno dei topi che votano per i gatti. Chi sta in alto si è dunque ripreso tutto, anche la scuola. Non è stato compito agevole traghettare l’istituzione scuola nella forma azienda: l’azienda è una cellula della produzione che nasce e cresce in funzione della realizzazione di fini economici, essenzialmente privati, mentre la scuola è tale se opera nel quadro della formazione culturale critica, spirituale e civica. Poiché un’istituzione funziona adeguatamente se la sua organizzazione è congrua al fine che le è proprio, la “scuola-azienda” è un ossimoro così come il “ghiaccio bolle”. Questo esito culturalmente catastrofico, però, è logica conseguenza dell’assunzione dogmatica delle premesse-postulato di cui si è detto sopra: se assumo i postulati e gli assiomi della geometria euclidea, non posso poi protestare per i teoremi che ne conseguono.



Totalitarismo politico e totalitarismo liberista

Negli anni Trenta del secolo scorso, durante il Ventennio fascista, intento del regime era di “forgiare il giovane italiano” e a tale scopo sulla scuola piovevano prescrizioni asfissianti anche su come illustrare le pagelle scolastiche, i registri di classe ecc. … con immagini che celebrassero il regime. Nell’edizione del 1936 del Libro di Stato, costellato di camice nere, balilla e piccole italiane protagoniste delle imprese del fascismo, si domanda “Romolo fondò Roma 753 anni avanti Cristo; la Marcia su Roma è avvenuta nel 1922 dopo Cristo. A quanti anni di distanza si sono verificati i due fatti?”. L’elenco delle amenità potrebbe essere lungo ed esilarante. Si badi bene però: questo intento di forgiare il giovane italiano attraverso prescrizioni di tal fatta, ai nostri occhi pare demenziale perché siamo fuori da quella corrente storica, mentre nel contesto dei fascismi dell’epoca ai più appariva naturale e scontato. A ciò si aggiunga che in quell’epoca il totalitarismo aveva veste politica nel senso che la genesi politica di quelle “leggi” era palese, quindi ben riconoscibile. Oggi, diversamente, il totalitarismo ha la sua genesi nelle apparenti “leggi” anonime del mercato e del profitto per cui si richiedono più mediazioni culturali per vederne le ricadute sulla vita sociale, sulle istituzioni, sulla scuola, sanità, sport, informazione, ricerca scientifica ecc… . Con occhio storico decentrato, comunque, le prescrizioni che impongono agli istituti scolastici di progettare se stessi in funzione delle esigenze del tessuto produttivo del territorio sono grottesche e nella loro essenza analoghe a quelle del fascismo.



Da Figli della Lupa a Figli del Mercato

Emblematico e più incisivo di qualsiasi argomentazione è l’episodio cui ho assistito recentemente nella città dove risiedo. In una grande piazza cittadina, nel pomeriggio, si è svolta una manifestazione di protesta contro la “Buona scuola” organizzata da tutte le sigle sindacali, famiglie, studenti, professori… in difesa della scuola pubblica e del sapere critico; la mattina seguente, in quella stessa piazza, si tiene una sorta di fiera espositiva i cui protagonisti sono studenti di Licei e altri istituti della provincia i quali, accompagnati dai professori, espongono al pubblico in appositi stand “eco-prodotti” frutto di un comune lavoro di progettazione nel corso dell’anno. Trattasi di manifestazione che si inquadra nel progetto nazionale Impresa in azione, finanziato da imprese, banche di affari internazionali oltre che dall’Ambasciata americana (!?). Non potendo in questa sede illustrare per esteso il contenuto e le finalità del “progetto” - anche se facilmente intuibili - il lettore abbia pazienza e si documenti reperendo in rete le informazioni necessarie: http://www.impresainazione.it/partners/. Al riparo dell’insopportabile retorica dello “sviluppo sostenibile” questi giovani sono stati addestrati a “fare impresa” sostenuti da una potente rete di sponsor con selezioni, esposizioni in fiere varie, servizi e spazi giornalistici garantiti. Il tutto con l’evidente approvazione dei Collegi docenti delle rispettive scuole che, pare, siano più di quattrocento. La sera si rivendica la scuola pubblica, disinteressata e critica, la mattina si celebra il mercato, per sua natura privato, interessato e acritico. Certo è che lo spettacolo era degno del ventennio fascista con studenti rigorosamente in divisa con camicia bianca (anziché nera perché i tempi cambiano) e targhetta di riconoscimento al petto. Quei giovani in divisa da manager rampanti sono la replica moderna dei balilla e degli avanguardisti: non più figli della Lupa ma figli del Mercato. A quegli studenti è stato sottratto tempo di studio, allo scopo di canalizzare la creatività giovanile non verso la formazione di cittadini consapevoli del mondo in cui vivono, ma verso l’inganno crudele dell’autoimprenditorialità, facendo credere che un addestramento mentale precoce agevolerà il loro inserimento nel mercato del lavoro.



Scuola e disoccupazione

Ripetiamolo ancora una volta. La disoccupazione giovanile è un problema drammatico e la prima cosa da fare è aver chiaro chi sia il responsabile di questa infamia. È la scuola o, più credibilmente, la politica che per definizione ha gli strumenti per intervenire sull’organizzazione sociale ed economica? La truffa è colossale: viviamo in un mercato globale che per ridurre i costi di produzione e il ricorso al lavoro dell’uomo promuove senza tregua innovazione tecnologica e robotica, promuove gigantesche fusioni, spazza via diritti e tutele, ricorre alla delocalizzazione per imporre condizioni di lavoro e di salario indecenti. È una corsa al ribasso definita a ragione “guerra contro il lavoro” che ha determinato a livello globale un gigantesco trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto. In un contesto siffatto se sono cento le persone che cercano lavoro, il mercato offre trenta posti e nel frattempo si prodiga per ridurli a venti, per cui settanta o ottanta persone non trovano lavoro a causa di un mercato che ne assorbe sempre meno. Quale sarebbe la responsabilità della scuola? Dovrebbe rendere tutti i giovani super competitivi? Non cambierebbe nulla: trenta lavorerebbero (da precari e ricattabili) e settanta no. Tra l’altro, in un’epoca in cui i “mestieri” sono stati spazzati via non si capisce a quale tipo di lavoro la scuola dovrebbe preparare, quando quello che si impara la mattina la sera è già “obsoleto”! Una scuola che educa al lavoro (quale??) è una scuola che non educa alla cittadinanza, alla consapevolezza dei propri diritti e che esclude dalla partecipazione alla vita politica. Quindi non è scuola. Proporre l’alternanza scuola-lavoro come antidoto alla disoccupazione è un insulto alla ragione, altro che “illuminismo”!



La stazione di arrivo dell’autonomia: la scuola come Fondazione

La norma che attribuisce al dirigente il potere di scegliere gli insegnanti ha suscitato una legittima reazione collettiva di protesta e indignazione generale. Si rifletta però sulla questione ampliando lo spettro dell’analisi.

Allo stato attuale delle cose, le scuole italiane funzionano ancora grazie soprattutto ai cosiddetti contributi “volontari”, cioè, in pratica, una tassa imposta alle famiglie con il solito inganno linguistico (“volontari”?), tale da consentire allo Stato di scaricare una parte consistente dei costi dell’istruzione direttamente sulle famiglie. Per questa via si aggira il dettato costituzionale (Art. 33) secondo il quale “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.”: non è necessario essere costituzionalisti per intendere che è compito dello Stato provvedere al sistema scolastico nazionale e reperire le risorse per garantirne il funzionamento.

Nel documento governativo “La buona scuola” a suo tempo redatto si mettono nero su bianco principi generali incompatibili con l’Art. 33. Si afferma testualmente al punto 6.2 titolato “Le risorse private”: “Le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola” e si auspicano interventi legislativi per trasformare le scuole in Fondazioni o in enti con autonomie patrimoniali in modo che “per le scuole deve essere facile, facilissimo ricevere risorse. La costituzione in una Fondazione, o in un ente con autonomia patrimoniale, per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, deve essere priva di appesantimenti burocratici”. Ricordiamo che le Fondazioni sono istituzioni mediante le quali i privati perseguono scopi collettivi: i privati, dunque, non lo Stato. Se un istituto scolastico assume lo stato giuridico della Fondazione, rendendo compiuta l’autonomia scolastica (come giustamente rivendica Renzi), è del tutto ovvio e conseguente che a chi dirige la Fondazione siano attribuiti poteri congrui alla gestione di un istituto il cui progetto formativo è strettamente intrecciato e dipendente, anche per le risorse economiche, dai poteri territoriali locali. Se è così – ed è così - è coerente che il dirigente si scelga la “squadra” di insegnanti più consona alla realizzazione di tale progetto. Ancora una volta la protesta si indirizza non sulla premessa-postulato, ma sulle conseguenze ovvie di quella premessa. Non mi risulta che la questione della trasformazione delle scuole in Fondazioni, o in analogo statuto, sia stata sollevata in termini dirimenti, eppure è la madre di tutte le altre questioni.



Una proposta: sciopero nazionale dei contributi volontari

Da quando è stata inaugurata la scuola dell’autonomia sono state prodotte tante analisi accurate sulla trasformazione genetica della scuola, così come tante sono state le proteste e le manifestazioni che hanno visto protagonisti i docenti, gli studenti e anche le famiglie. Questa mobilitazione intellettuale e sociale, però, non ha mai condizionato nella sostanza il progetto di cui si è detto; nelle scuole non sono mai stati messi in discussione, con pratiche incisive, i meccanismi attraverso cui questo gigantesco progetto di disarticolazione del sistema statale dell’istruzione prendeva corpo. Anzi, diciamoci la verità: c’è stata, complessivamente, collaborazione da parte di tutte le componenti del mondo scolastico. Che sia stata collaborazione attiva o passiva, consapevole o inconsapevole non modifica lo stato delle cose. Ora arriva il conto e come si può intuire il tempo delle analisi è scaduto.

Che fare, allora, oltre a manifestare il dissenso con sacrosante proteste e scioperi? Ad esempio è ormai costume che le famiglie, per sostenere le spese della scuola frequentata dai propri figli, prendano iniziative per l’acquisto di materiali vari o concordino di fare la spesa in quei supermercati che in cambio si impegnano a “regalare” carta o qualche PC alla scuola. Quest’apparente buonismo - che sotto altre forme anima purtroppo anche parte del corpo docente - è il segnale che chi sta in alto ha stravinto, perché ha fatto interiorizzare a chi sta in basso un’idea di scuola analoga a quella della Caritas. Come ultimo atto di resistenza culturale, civile e democratica che possa davvero incidere, famiglie, docenti e studenti potrebbero ad esempio promuovere uno sciopero nazionale dei contributi volontari, rifiutandosi di pagare, in nome della Costituzione, un prelievo coatto sui redditi delle famiglie. Si obietterà: così le scuole in pratica chiudono! Appunto: è la verifica sperimentale di quanto detto sopra. Si proceda allora alla modifica della Costituzione così, almeno, il dibattito ne guadagnerà in chiarezza.

3 commenti:

  1. Scusami Marino. Non volevo tornare a rompere le palle ma, quando leggo:

    "Questo esito culturalmente catastrofico, però, è logica conseguenza dell’assunzione dogmatica delle premesse-postulato di cui si è detto sopra: se assumo i postulati e gli assiomi della geometria euclidea, non posso poi protestare per i teoremi che ne conseguono".

    non resisto e ti chiedo:

    "noi, invece, da quali postulati partiamo"?

    ciao! ^_^

    carlo (quello del flauto)

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  2. Quando dice che la scuola è l'antidoto alla disoccupazione, il governo scade nel grottesco, certo, ma nel contempo addita all'opinione pubblica un capro espiatorio. Le sue politiche obbedienti alle indicazioni della UE aumentano la disoccupazione per sanare gli squilibri delle partite correnti; è naturale che si preoccupi anche di allontanare i sospetti e indicare un colpevole. Nello stesso tempo fa credere che l'inefficienza della scuola sia effetto non della riforma, che come ricorda giustamente Fabio, si avvicina ormai ai vent'anni, ma della mancata riforma - proprio come il disastro dell'Italia è imputato non alle riforme, ma alla riforme non fatte. Invece no. La riforma c'è stata, e gli insegnanti l'hanno accettata: la scuola-azienda c'è già. Il suo lato più distruttivo è la trasformazione dell'alunno in cliente. Poiché il cliente in quanto tale acquista, non lavora, all'alunno non è più richiesta fatica: i nuovi metodi richiesti agli insegnanti sono quelli che esentano gli alunni dal ripetere, dall'esercitarsi. Così si finisce alla scuola pubblica anglosassone, dove pare che si inizi a studiare al dottorato. - La domanda di Carlo sembra presupporre che la scuola di oggi non sia il frutto della riforma, che vada male perché non sia più adeguata ai tempi, che quindi ci sia bisogno di postulati per fare la riforma giusta. Non è così. Occorre annullare la riforma dell'autonomia, restituire all'alunno la sua natura di LAVORATORE e fare quello che si è sempre fatto: elevarlo gradualmente al linguaggio e alle scienze.

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  3. Grazie della risposta Paolo. Quindi, diciamo, tornare a far essere lo studente un lavoratore piuttosto che un cliente (ma potrebbe anche venir da usare la parola "cosumatore" di un "servizio scolastico"?)
    OK. Però questo "lavoro" che dovrebbe far di noi -studenti o meno- "lavoratori" alla perfine che cos'è? :)

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